La macchina propagandistica del governo Meloni slitta sempre un po’, come un motore fuori giri. L’ultimo traguardo sbandierato con troppa disinvoltura è il dimezzamento del temuto spread avvenuto negli ultimi anni, che sono proprio quelli del governo Meloni. E’ vero? Lo spettro di una ondata speculativa che ci spinga in una crisi finanziaria e, magari, alla bancarotta del Tesoro, incubo che ci insegue fin dai tempi di Berlusconi è stato, dunque, finalmente abbattuto?
La risposta è sì alla prima domanda, no alla seconda. Lo spread – ovvero la differenza fra quanto paga il Tesoro tedesco ai detentori dei suoi titoli decennali e quanto paga il Tesoro italiano per i titoli equivalenti, da sempre termometro della salute del Paese – è effettivamente sceso, come sostiene Giorgia Meloni. Era intorno a 250 a metà 2022, è a 125 in questi giorni. Ma questo incide, forse, sulla nostra reputazione. Non vuol dire affatto che paghiamo meno i nostri debitori. Al contrario, il rendimento che assicura un Btp a 10 anni, oggi, è quasi il doppio di quello che si registrava a metà 2022: 3,6 per cento contro il 2 per cento circa due anni fa.
Insomma, lo spread dei nostri titoli si è dimezzato, mentre il costo degli stessi titoli (che è quello che davvero importa per le nostre casse), è raddoppiato. Come è possibile? Perché lo spread è una differenza. Il costo dei nostri Btp è aumentato, ma quello dei Bund tedeschi molto di più e la distanza si è accorciata. Il lavoro di riduzione dello spread, in altre parole, lo hanno fatto tutto i tedeschi.
La gaffe, peraltro, più che di sostanza è di comunicazione. Questo non la rende meno inappropriata, soprattutto quando corrisponde ad uno stile di governo: il tentativo di spacciare per un successo un evento completamente al di fuori della propria portata è come rivendicare la vittoria ad un tiro alla fune, in cui l’avversario si è distratto per aiutare un bambino che stava annegando. Tuttavia, Giorgia Meloni, come non è l’autore della riduzione dello spread, non è neanche responsabile della crescita dei costi del Tesoro. Il fattore più importante è, di gran lunga, la politica dei tassi di interesse applicata, con particolare severità, dalle Bce, in questi due anni, per domare l’inflazione. Una politica arrivata, finalmente, al capolinea e che, in queste settimane, sembra avere imboccato la strada di una discesa a tutta birra, dopo una salita altrettanto rapida e affannosa. Schizzati da 0 al 4 per cento in poco più di un anno, i tassi della Bce, secondo le previsioni, dovrebbero scendere sotto il 2 per cento in un tempo anche più breve.
Difficile sfuggire all’impressione che, nel determinare la politica monetaria, Francoforte abbia esagerato con il pedale del freno. Dopo l’atteggiamento ultra accomodante che era servito per uscire dalla pandemia, i tassi dovevano essere riportati ad un livello più normale, ma la stretta più selvaggia della storia (peraltro ancora breve) della Bce è stata il frutto, soprattutto, del prezzo pagato alla fragilità psicologica dell’opinione pubblica, in particolare, tedesca e non ad una effettiva emergenza, affrontabile con la politica monetaria.
La politica dei tassi funziona quando il boom di inflazione è determinato da un eccesso di domanda (consumi ed investimenti) nell’economia. Il denaro più caro raffredda gli ardori di tutti. Ma, nel caso europeo, l’inflazione era determinata dal picco dei prezzi di materie importate, come metano e petrolio. Fuori dall’area dell’euro, i tassi della Bce non interessano e non spaventano nessuno. La conferma di questa diversa lettura della crisi viene dalla rapidità stessa con cui l’inflazione sta scendendo, insieme ai prezzi delle importazioni.
Il danno, però, è fatto. I tassi della Bce hanno cominciato a zavorrare l’economia europea, quando l’inflazione stava già scendendo e, visto che la politica monetaria agisce sempre con ritardo (il tempo necessario perchè il rincaro o l’alleggerimento del costo del denaro si trasmettano alle banche, da queste a imprese e consumatori ecc.) anche la rapida discesa che si intravede in queste settimane rianimerà l’economia europea a distanza di mesi. Più che rivendicare un miglioramento dello spread soprattutto cosmetico, il governo Meloni dovrebbe chiedersi se una prospettiva così poco incoraggiante dell’economia giustifichi la previsione di un vivace aumento delle entrate su cui si regge la manovra finanziaria annunciata per il prossimo anno.
Maurizio Ricci