Tira una brutta aria per lo smart working. Mentre vengono a scadenza alcuni accordi aziendali e di categoria che avevano disciplinato l’istituto, si addensano le critiche sul cattivo funzionamento del lavoro da remoto. Ai tempi della pandemia è stata la salvezza un po’ per tutti. Le grandi aziende hanno fatto lavorare da casa decine di migliaia di persone, con uno sforzo organizzativo impressionante. Tutti erano d’accordo sull’importanza e il valore di questa pratica. Poi, piano piano, ma nemmeno tanto, sono cominciate le critiche. Come quelle del presidente del Gruppo Unipol, Carlo Cimbri, che, intervistato da Cristina Casadei su Il Sole 24 Ore, ha parlato molto male del lavoro da remoto, arrivando ad affermare di non credere che una società in cui le persone lavorano da casa sia “migliore di quella senza smart working”. Comunque, Amazon ha già richiamato l’intero personale a lavorare in azienda. E la lista delle imprese che hanno fatto altrettanto è lunga.
Nessuno disconosce l’aiuto che il lavoro da remoto ha avuto nel corso della pandemia, ma i ripensamenti e le critiche si addensano. Un atteggiamento comprensibile perché il lavoro da remoto è certamente una stortura rispetto all’organizzazione del lavoro alla quale eravamo abituati e crea anche differenze di status che possono disturbare, come sicuramente quelle rispetto a chi svolge un lavoro non remotizzabile ed è costretto a muoversi tutti i giorni per andare a lavorare. Ma alcune argomentazioni, come quella del presidente Cimbri colpiscono. Una società che presta maggiore attenzione alla conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro è sicuramente migliore di una in cui questa attenzione manca. Chi pratica lo smart working evita i tempi di trasporto tra casa e lavoro, spesso anche molto lunghi, ha meno tempi morti, ha più tempo per la propria vita. E i lavoratori, specie i più giovani, se ne sono accorti. Chi nelle imprese fa azione di recruting sa bene che la prima richiesta di chi si presenta a un colloquio di lavoro è proprio il ricorso a questo istituto. Che spesso è il motivo di dimissioni o di rinuncia a un impiego.
Del resto, quando lo smart working è fiorito, abbondavano gli studi a dimostrare che in questo modo si potevano raggiungere più elevati livelli di produttività. Perché le persone erano più contente e si dedicavano con maggiore solerzia al lavoro. Poi questi studi sono scomparsi, ma ci sono stati e li abbiamo letti tutti. E del resto, tante critiche portate all’istituto non sembrano molto concrete. Come quella che lamenta che il tempo dedicato alle call sia troppo e che queste spesso siano solo perdite di tempo. Considerazione che lascia perplessi, perché le call o sono utili o non lo sono, ma in questo secondo caso è forse sufficiente non farle o ridurle in durata.
In tutta sincerità è difficile credere che il difetto dello smart working sia la durata o la frequenza delle call. Il punto è che se qualcosa non ha funzionato al meglio, ciò è avvenuto perché è mancata una effettiva preparazione. È mancata soprattutto la formazione dei capi, dei responsabili che all’improvviso si sono trovati a dover seguire chi lavorava non più nella stanza accanto ma a casa propria. Sono stati costretti a cambiare repentinamente sistema organizzativo e spesso non hanno saputo adeguarsi. Anche perché si trattava di una rivoluzione profonda. Quei capi dovevano infatti abituarsi a valutare le persone non più sulla base delle ore prestate al lavoro, ma sul risultato raggiunto. Il sinallagma per chi lavora da remoto non è più quello tra ore lavorate e salario, ma tra rendimento e salario. Un cambiamento profondo, un’autentica rivoluzione culturale che potrebbe cambiare tutto il lavoro, almeno quello che si può svolgere da un luogo che non sia l’azienda.
Semmai sarebbe utile chiedersi quali potrebbero essere, nel periodo lungo, le conseguenze di un ricorso massiccio e prolungato al lavoro da casa. Il pericolo è che in questo modo si riducano drasticamente le occasioni di socializzazione. L’immagine che spaventa è quella di una persona che sta tutto il giorno a casa, dove vive e lavora, che limita sempre più i contatti con le persone all’esterno, che finisce per inaridirsi e spegnersi. Perché un migliore bilanciamento tra vita e lavoro è cosa positiva se il tempo liberato viene utilizzato per vivere. A questo però dovrebbero pensare e provvedere le istituzioni, chi ci governa, chi governa le nostre città. Vengono subito in mente due esempi. Renato Nicolini, assessore alla cultura negli anni Ottanta, dette il via all’estate romana e portò in piazza tutti i cittadini che fino al giorno prima erano chiusi in casa costretti dalla crisi energetica del dopo Kippur. Fu una vera rivoluzione culturale che ebbe effetti benefici per molti anni. Fu invece negativa quella che qualche anno dopo fece Silvio Berlusconi quando invitava tutti gli italiani a correre a casa “in tutta fretta”, perché “c’è il biscione che ti aspetta”. Gli italiani dovevano smettere di vivere gli spazi aperti e limitarsi a vedere la televisione, la sua televisione, a comprare quello che dovevano comprare. Due esempi per chiarire che avere più tempo libero, come quello che regala lo smart working, non basta, questo tempo bisogna poi desiderarlo e saperlo vivere.
Massimo Mascini