Lo smart working è oggi materia di riflessione su molti fronti. Antonio Naddeo, presidente Aran, analizza per il Diario del lavoro gli effetti che l’applicazione estesa del lavoro agile può avere nella Pubblica Amministrazione, sia dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, sia dei contratti.
L’emergenza coronavirus ha determinato un utilizzo massiccio del lavoro agile (o smart working), con il preciso intento di ridurre la presenza dei dipendenti pubblici in ufficio. Le misure adottate dal Governo, per l’intero territorio nazionale e fino alla fine dell’emergenza, prevedono che nelle pubbliche amministrazioni la prestazione lavorativa ordinaria sia svolta in modalità lavoro agile. La presenza fisica è consentita esclusivamente per lo svolgimento di attività funzionali alla gestione dell’emergenza e delle attività indifferibili. Inoltre i provvedimenti del Governo hanno consentito di attivare lo smart working mediante procedure semplificate e in deroga alle vigenti diposizioni in materia (senza accordo; con la possibilità di utilizzare propri dispositivi personali).
Le esperienze di lavoro agile e telelavoro, prima dell’emergenza, non sono state molto utilizzate nella pubblica amministrazione e generalmente le forme di flessibilità si sono limitate al ricorso del telelavoro (che è diverso dal lavoro agile). I motivi sono vari e l’approccio tentato da vari Ministri della Pubblica amministrazione è stato quello di imporlo normativamente creando adempimenti e obblighi per le singole Amministrazioni. In ultimo l’art. 14 della legge 124/2015 (riforma Madia) ha previsto l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di dotarsi di piani organizzativi in modo da consentire ad almeno il 10 % dei dipendenti di lavorare col lavoro agile entro il 2018. L’obiettivo non può dirsi raggiunto, o meglio, nessuno ha verificato il suo raggiungimento, con una conseguente diffusa violazione di fatto delle norme (senza alcuna sanzione).
Purtroppo l’approccio di obbligo/adempimento non produce mai buoni risultati, come tutti gli interventi riformatori sul lavoro pubblico che cercano di imporre con norme comportamenti gestionali propri di una cultura aziendalista. Peraltro queste leggi (e le riforme in generale) sono introdotte nel nostro ordinamento con la clausola classica “nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, impedendo di fatto la possibilità di sostenere le stesse riforme con adeguati investimenti.
La pandemia ha obbligatoriamente costretto le amministrazioni pubbliche a lavorare a distanza e consentito di massimizzare i benefici e le opportunità che provengono dall’utilizzo di questo strumento. Certo ha messo a nudo anche tanti difetti: ancora scarsa alfabetizzazione digitale, mancanza di strumenti informatici ed efficienza della rete. Non si può negare, però, che il lavoro agile abbia permesso di continuare a lavorare anche in questa situazione estrema, evitando la circolazione di circa 2,5 milioni di dipendenti pubblici, valorizzando sia i benefici per i lavoratori che per le stesse amministrazioni.
Finita l’emergenza però non bisogna fare l’errore di continuare con il lavoro agile senza considerare la necessità di realizzare un nuovo modello organizzativo della PA. Ovviamente non esiste “un modello unico di organizzazione” ma tanti modelli che si adattano alle singole amministrazioni (Ministeri, Regioni, Enti pubblici, Sanità …)
Lo smart working non va affrontato come una disposizione normativa da applicare, ma deve essere concepito come una forma avanzata dell’organizzazione del lavoro, che si basa sullo scambio tra maggiore autonomia e flessibilità ai dipendenti e una maggiore responsabilizzazione dei risultati.
Vuol dire disegnare una struttura (tutta) orientata ai risultati, basata su fiducia, responsabilizzazione e flessibilità. Oggi la gestione della pubblica amministrazione è ancora improntata sul controllo e poco sulla responsabilizzazione del lavoratore. Quindi l’approccio con cui si dovrà affrontare la nuova fase, sarà quella di un profondo cambiamento culturale dell’intero management. Ovviamente non solo la dirigenza, ma anche la politica che è l’azionista di maggioranza.
La dirigenza, elemento strategico, deve assumere quella cultura d’impresa per rendere tutta l’attività più efficiente, volta al risultato (vero, sfidante) e non al mero adempimento amministrativo. Si deve liberare di quella che molti definiscono la burocrazia difensiva. Il dirigente deve avere la capacità di gestire le risorse umane e risorse finanziarie prendendo decisioni rapide. Deve avere la capacità di riconoscere fiducia ai lavoratori e renderli autonomi nello svolgimento delle loro mansioni lavorative.
Questi sono gli elementi soggettivi, poi si deve porre l’attenzione sull’organizzazione. Non si può pensare di introdurre lo smart working nelle Amministrazioni pubbliche con organizzazioni pensate per il lavoro in presenza. Ecco questo è un problema rilevante. Molte riforme sono franate su una forma organizzativa dell’amministrazione vecchia. Si pensa alla norma, alla regola, all’adempimento, e non si lavora sull’organizzazione. Molti Ministeri, enti, hanno una organizzazione progettata più di trent’anni fa. E’ evidente, quindi, che prima di pensare a strumenti innovativi, occorre ripensare alla macchina organizzativa.
Questa è la sfida per la pubblica amministrazione che verrà. Sì allo smart working, anche ad una larga applicazione se serve, ma rivedendo l’intera organizzazione di un Ministero, di una Regione, di un Comune.
Partendo da questi elementi fondamentali, per attuare efficacemente un progetto di smart working occorre tener presente alcuni requisiti necessari:
– requisiti tecnologici – adeguati investimenti in tecnologia; conformità a linee guida nazionali su protocollo informatico e di gestione dei flussi documentali; garantire la sicurezza;
– requisiti organizzativi – reingegnerizzazione dei processi (integrale gestione informatica dei processi); lavoro per obiettivi con programmazione per prodotti e tempi per conseguirli; delega decisionale;
– requisiti amministrativi – revisione di alcuni procedimenti amministrativi, adozione di regole interne per il funzionamento degli organi.
Un altro piano da presidiare a livello nazionale è quello della regolazione contrattuale. Al riguardo, è necessario considerare che lo smart working investe soprattutto profili organizzativi. E’ necessario, pertanto, che tali profili non siano oggetto di regolazione contrattuale. Si ritiene invece utile che alcuni istituti del rapporto di lavoro già regolati negli attuali CCNL siano adattati o revisionati per tenere conto di tale modalità lavorativa (ad esempio, permessi, orario di lavoro). E’ necessario anche che un adeguato spazio sia riservato all’autonomia individuale (ad esempio, fasce di reperibilità). In ogni caso, la regolazione nazionale deve limitarsi a definire un quadro regolatorio generale, che tenga conto della estrema varietà di amministrazioni pubbliche, caratterizzate da profili istituzionali ed organizzativi quanto mai articolati.
Quindi lo smart working può essere un vero e proprio volano per il cambiamento della Pubblica amministrazione e per i lavoratori. Occorre sfruttare l’occasione fornita dall’emergenza coronavirus per rimuovere le barriere comportamentali e culturali insite nelle attuali organizzazioni. Non occorrono nuove riforme epocali, ma una operazione di pianificazione, di reingegnerizzazione, con l’attivazione di una leadership innovativa che sappia coinvolgere e motivare tutta l’organizzazione. Non una riforma calata dall’alto, ma il coinvolgimento delle amministrazioni e dei lavoratori.
Antonio Naddeo
Presidente ARAN (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale)