La speranza è che quando tutto questo sconquasso terminerà, quando torneremo alla normalità, qualcosa avremo imparato dagli errori commessi. In questi giorni tutta l’attenzione è puntata, giustamente, sull’enorme sforzo che sta facendo l’intero servizio sanitario nazionale per far fronte all’emergenza. Nessuno pensa che lo sforzo che stiamo chiedendo a medici e infermieri sarebbe assai minore se ci avessimo pensato per tempo, se non avessimo consapevolmente e colpevolmente indebolito al di là del lecito l’intera struttura sanitaria del nostro paese.
Nei primi giorni di febbraio Il diario del lavoro ha tenuto al Cnel un convegno sui temi del servizio sanitario nazionale, per capire, con l’aiuto dei responsabili, come e perché si fosse giunti a mettere in forse l’universalità di questo servizio. Perché la verità è questa, che la grande promessa degli anni sessanta, quella di una sanità per tutti, è stata tradita. Come del resto le promesse per una buona scuola per tutti e di una giusta previdenza per tutti. Siamo cresciuti con queste grandi speranze, di un mondo migliore, piano piano le nostre illusioni sono cadute. Non è un caso se a inizio febbraio abbiamo deciso di fermarci un momento per chiederci perché la sanità stava rischiando il collasso.
Eppure le cifre parlano chiaro. Come è emerso dalla relazione introduttiva del nostro collaboratore Roberto Polillo e dagli interventi al dibattito, che è stato ricco e vivace, la crisi era già più che annunciata, era una realtà. E non poteva non essere così. I tassi annui di crescita della spesa sanitaria dal 2001 al 2005 erano pari al 7,4% del Pil, negli anni dal 2006 al 2010 sono scesi al 3,1%, negli anni successivi non c’è stata crescita, anzi in alcuni anni, come il 2013, la spesa è diminuita rispetto all’anno precedente. C’era la crisi, la grande crisi economica, è vero, ma il punto resta che in quegli anni di magra si è preferito prendere dei soldi dal servizio sanitario nazionale, indebolendo la nostra struttura sanitaria pubblica, con le conseguenze che conosciamo e che purtroppo viviamo in questi giorni.
Il numero dei pubblici dipendenti è diminuito in quegli anni da 3,4 a 3,1 milioni di unità. E nel servizio sanitario nazionale le presenze sono diminuite ancora di più. Medici e paramedici erano 693mila nel 2008, dieci anni dopo erano diventati 643mila, con una perdita secca di più di 50mila persone. Che sono medici e infermieri in meno negli ospedali, nei centri di assistenza, con un immediato calo delle prestazioni e, purtroppo, dell’efficienza di queste prestazioni, tanto è vero che siamo precipitati al ventesimo posto nella classifica europea sulla qualità della prestazione sanitaria, tutti i grandi paesi vengono prima di noi. I medici in quegli anni hanno perso il 5% dell’organico. Nulla paragonato a quanto stava per avvenire nel nostro paese proprio in questi mesi a causa del combinato effetto dell’esodo per raggiunti limiti d’età e dell’applicazione della norma di quota 100: era previsto per l’anno in corso un esodo di 23mila medici. Questo per non parlare della sospensione dei contratti nazionali di lavoro per quasi dieci anni, che ha causato in tutto il pubblico impiego un calo drastico delle retribuzioni. Ma per la professione medica il danno è stato anche più grave perché il calo delle risorse ha portato a ridurre non solo il numero degli iscritti alle facoltà di medicina, ma anche al taglio drastico delle borse di specializzazione per chi ha conseguito la laurea. Dal momento che non tutti i laureati potevano iscriversi ai corsi di specializzazione e dovevano aspettare l’anno successivo si è creato infatti un ingolfamento, questa massa di non specializzati è cresciuto sempre di più creando una situazione di grave disagio, per i giovani medici e, di conseguenza, per tutti noi.
Tutto dipende dal fatto che il nostro paese spende meno per la sanità degli altri grandi paesi europei. La spesa pro capite nel nostro paese è pari a 2.400 euro l’anno, in Francia, Germania e Gran Bretagna la stessa spesa si aggira tra i 3 e i 4mila euro. E questa situazione sarebbe peggiorata, se non fosse intervenuto un cambiamento negli ultimissimi mesi, con l’avvento del nuovo governo che almeno in parte, ha cercato di cambiare strada. Ma la situazione resta quella che abbiamo descritto, non cambia per l’abolizione di un superticket, anche se questa certamente rappresenta un dato positivo.
Nel corso del dibattito al Cnel tutti questi temi sono venuti allo scoperto, esaminati e per lo più condannati da tutti. È emersa forte l’esigenza di mutare politica, atteggiamento verso la sanità, che resta come la cultura, la scuola, la ricerca, tra i beni supremi, ai quali non si dovrebbe mai rinunciare, nemmeno in parte, perché ciò rappresenta comunque e sempre un impoverimento. È stato chiesto di provvedere a una ristrutturazione del servizio sanitario e a una ripresa della figura del medico, fortemente lesa in questi anni. Filippo Anelli, il presidente della federazione dei medici e odontoiatri, ha ricordato come la professione medica rappresenti uno strumento fondamentale della nostra organizzazione sociale capace di assicurare la democrazia attraverso la tutela dei diritti costituzionali garantiti, e come tale debba essere protetta. E lo stesso ha fatto Andrea Filippi, leader del sindacato medici della Cgil, che non ha avuto dubbi nel sanzionare la carenza di attenzione delle istituzioni in questi anni verso il comparto della sanità nel suo complesso.
Nel corso del dibattito è emerso forte anche il problema della sanità integrativa, che in questi anni sta crescendo impetuosa, spinta anche dal fatto che le somme previste dai contratti nazionali per questa voce, ma in generale per il welfare contrattuale, non sono computate per il calcolo di tasse e contributi. Sono somme che arrivano interamente nelle tasche dei lavoratori, che per questo prediligono questa soluzione all’aumento classico dei minimi retributivi. Il pericolo però è che questa sanità non resti accessoria, ma diventi alternativa a quella del Servizio sanitario nazionale. Si tratta di somme considerevoli, c’è sempre il pericolo che su di esse si faccia conto per giustificare le riduzioni della spesa sanitaria pubblica. Un’eventualità che è stata giudicata molto negativamente da tutti. Enrico Rossi, il presidente della Regione Toscana, è stato fermissimo nell’affermare che questo welfare contrattuale deve sempre restare come una forma accessoria, importante per i lavoratori, ma mai in grado di sostituirsi al Servizio sanitario nazionale. La speranza è sempre che di tutto ciò non si perda memoria, che passata la nottata non si torni a sbagliare strada.
Massimo Mascini