Una recente indagine (di cui ho letto solo qualche sommario) informa che nel laborioso Veneto ci sono state ben 66mila dimissioni negli ultimi quattro mesi (il doppio rispetto all’anno scorso); dimissioni in larga parte motivate dal fatto che non c’è o non si trova, dicono gli intervistati, un giusto equilibrio tra vita e lavoro: mi pare un campanello d’allarme per imprese e sindacati.
Anzi no, è un allarme vero e proprio.
Non sono un sociologo né uno storico, però non si può ignorare che quelle terre sono da sempre sinonimo di “silente e operosa fatica”, per dirla come il poeta; che in alcune fabbriche di quelle aree, con tanto di accordo aziendale, le ferie anziché in agosto si facevano in settembre per poter attendere alla vendemmia: e adesso gli impressionanti numeri di cui sopra.
Come – più in generale – non si può ignorare la sempre più ridotta dimensione aziendale e due anni (e oltre) di home working, che hanno fatto perdere la centralità della fabbrica come luogo di una comunità e di un orgogliosa identità.
Allora, oggi, è necessario e urgente che l’azione di Governo, imprese e sindacati si concentri sulle nuove aspettative che avanzano: e questo può essere un elemento di scambio – la ricerca di un nuovo equilibrio tra vita e lavoro -; soprattutto per chi volesse immaginare l’Italia al lavoro, l’Italia del post -pandemia, l’Italia del PNRR. Insomma un’Italia nuova.
Per prestatori d’opera e datori di lavoro, ma anche per governanti nazionali e locali, ci vorrà uno sforzo di fantasia e coraggio e magari qualche strappo per aprire le porte al lavoro, favorirne le condizioni e creare quei nuovi equilibri invocati. Possibile, possibilissimo, basta guardare avanti. Guardare avanti come fecero i Padri Costituenti che all’articolo 1 scrissero che siamo una Repubblica fondata sul lavoro… anche nel 2022!