Siamo un paese che scivola all’indietro. Abbiamo acchiappato la ripresa europea per ultimi, non sembra un gran che vivace e, soprattutto, rischia di avere il fiato corto. Perché il nodo irrisolto è al cuore del sistema economico italiano e non basta una congiuntura più allegra per scioglierlo. A ben vedere è l’eredità dei successi antichi: il modello-miracolo delle imprese-nane dei Brambilla ha fatto il suo tempo, ma non ha trovato un successore e pare aver contagiato anche buona parte delle imprese che dovrebbero, invece, essere moderne. E’ il quadro sconsolante che viene fuori dall’ultimo rapporto Ocse sui lavoratori italiani e le loro competenze (“Getting Skills Right: Italy”), al di là delle parole incoraggianti sulle ultime riforme varate per scuola e mercato del lavoro.
Le imprese italiane, infatti, non investono e la produttività non decolla neanche nelle aziende più efficienti. Anzi, potremmo parlare di una efficienza all’italiana: l’Ocse – l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati – ritiene, infatti, che la produttività delle imprese manifatturiere italiane sarebbe complessivamente più alta del 20 per cento se almeno le più efficienti fossero al livello delle migliori concorrenti internazionali. Invece, la produttività (definita come valore aggiunto reale per addetto) va indietro non solo nel mondo dei Brambilla ma anche nelle cosiddette aziende di frontiera: la produttività del 10 per cento di aziende più tecnologicamente avanzate del paese è in costante ritirata dal 2001.
Lo specchio è un mercato del lavoro sghembo che assomma la stortura sia della domanda che dell’offerta. Sul mercato, infatti, c’è equilibrio fra domanda e offerta di lavoro non qualificato, caratterizzato da impieghi di routine e abilità manuale. Non è affatto un buon segno. Negli altri paesi l’offerta di queste competenze è drammaticamente in eccesso. E’ la prova, rileva l’Ocse, che l’era dell’automazione e del progresso tecnologico in Italia è in drammatico ritardo. Siamo, per così dire, spiaggiati nel passato.
Contemporaneamente, fra i lavoratori e i posti che trovano c’è un evidente scollamento. Solo il 61 per cento è effettivamente qualificato per il lavoro che fa. Quasi il 40 per cento, invece, vive fuori quadro: o non ha abbastanza competenze per i compiti che gli vengono affidati, o ne ha troppe.
Il rapporto prova a disegnare una mappa dei lavori sbagliati: quelli per cui ci sono troppi addetti e quelli per cui ce ne sono troppo pochi. Ne viene fuori il profilo di un paese che sembra uscito da una foto di 40 anni fa. C’è il 10 per cento in più di commesse nei negozi, il 10 per cento in più di parrucchieri, estetiste, calzolai, camerieri e baristi, in generale addetti ai servizi personali, ma abbondano anche braccianti, netturbini, sguatteri, muratori, elettricisti. E in cui si promuovono troppo facilmente sergenti e generali: c’è un 5 per cento in più del necessario di manager e dirigenti.
Chi manca, invece? Il buco più vistoso, come prevedibile, è quello che riguarda scienziati e ingegneri e i loro più diretti collaboratori: ce ne vorrebbe il 10 per cento in più. Poi ci sono gli informatici. E, fin qui, è quanto ci si poteva attendere. Ma l’Ocse registra deficit anche per esperti legali, di amministrazione, di affari generali. E di insegnanti. Non tutti sono lavori da laureati. Mancano anche archivisti e tastieristi: ovviamente quelli capaci di lavorare con i computer e sui file. E chi sia capace di guidare auto e camion, ma anche i veicoli dei magazzini. I falegnami. E gran parte dei lavori che, come è ovvio in un paese in cui l’agroalimentare è così importante, ruotano intorno alla catena del cibo: agronomi, ittiologi, esperti forestali.
L’Ocse non lo sa, ma in una cosa, almeno, dà voce ad una lamentela che chi si occupa di queste cose sente venire dalle aziende, ormai, da mezzo secolo. Il rapporto certifica che ebbene sì, è vero: mancano i tornitori.
Maurizzio Ricci