I numeri ci fanno ben sperare. In Italia il Pil cresce dell’1,2%, più delle aspettative e anche più di tutto il resto d’Europa. L’occupazione è in aumento, e i contratti a tempo indeterminato crescono ben più di quelli a tempo determinato. Complessivamente, il tasso di occupazione in Italia è salito al 61%, mentre la disoccupazione è scesa al 7,8%: non è frizionale, ma la progressione continua. C’è di che essere soddisfatti. La globalizzazione è in crisi, la Bce alza i tassi, ma l’Italia riesce ad andare avanti, nonostante tutto. Ma è davvero così? O non stiamo raccontando una storia che ci fa piacere, ma non corrisponde proprio alla realtà della nostra economia? Il dubbio c’è.
Se si scava un po’ nei dati che l’Istat ci fornisce si scopre infatti che il volto vero della nostra economia è abbastanza diverso. La cosa più appariscente è che l’occupazione sta crescendo, ma aumenta anche il numero dei workers poor, i lavoratori poveri, quelli che non arrivano ai 12mila euro lordi l’anno. Il numero esatto non lo conosce nessuno, ma sono più o meno il 13% del totale dei lavoratori, 2,6 milioni di persone. 12mila euro lordi l’anno è meno di poco, significa che non si riesce a combinare il pranzo con la cena. E non si tratta di una situazione temporanea, questione di qualche mese e poi si cambia.
E’ l’Istat a informare che delle persone che lavorano da 20 anni, se il 15% è sotto quella soglia di povertà, il 60% di loro per almeno 5 di quei 20 anni è stato sotto quella soglia, il 18% vi è stato per 15 anni, il 13% tra i 10 e i 14 anni. Una situazione grave. Giuseppe De Rita invita a non disperare. C’è crisi, ammette, ma alla fine una soluzione si trova. C’è sempre la pensione della nonna, che consente al ragazzo di acquistare il motorino, e poi i ristoranti sono pieni, il turismo tira quanto mai. Segno che dopo la stretta del Covid le persone vogliono libertà e movimento, ma anche che possono spendere.
De Rita non è mai stato buonista, ha saputo guardare il mondo, ma i tre milioni di persone che non arrivano alla fine del mese rappresentano quanto meno una distonia forte con il quadro tutto positivo che ci viene raccontato. Non è certo un caso se Ignazio Visco nella sua ultima relazione ha parlato a lungo delle difficoltà nelle quali si trovano tanti lavoratori, della precarietà che aggredisce le nuove generazioni.
E anche il fenomeno delle grandi dimissioni va guardato con un occhio un po’ più attento. Perché è vero che denotano una forza e una determinazione che prima non conoscevamo, dicono che i giovani sono più liberi di non accettare un lavoro che non piace e se necessario arrivano a dimettersi da un lavoro anche buono. Ma se queste persone lasciano il lavoro ciò significa per prima cosa che fanno un lavoro che non piace o non soddisfa, sono insomma in una situazione di disagio.
E non è poi detto che le dimissioni siano sempre la scelta migliore. Una ricerca a tratto globale portata avanti dalla School of management del Politecnico di Milano ha fatto sapere che il 46% dei lavoratori italiani negli ultimi dodici mesi ha rassegnato le proprie dimissioni o avrebbe voluto farlo, percentuale già molto elevata che cresce spaventosamente al 77% dei casi tra gli under 27. Ma il punto è che ben il 41% di coloro che hanno cambiato si è pentito della scelta fatta, solo che a questo punto non ci sono tante altre vie di fuga, se non il triste rifugiarsi nel quiet quitter, il tirare i remi in barca, non farsi prendere più di tanto dal lavoro, non dare che il minimo. Ma questa non è una soluzione.
Se c’è una morale da tutto ciò è che la crescita dell’occupazione è importante, naturalmente, ma non basta a rassicurarci. E, del resto, anche sui dati Istat dell’occupazione occorre fare una tara. Perché per l’istituto di statistica, che segue le regole europee di Eurostat, è considerato lavoratore anche chi dichiara nel corso della rilevazione di aver effettivamente lavorato nell’ultimo mese anche solo due giorni. Con due soli giorni di attività si rientra nel numero degli occupati, ma non è un lavoro vero, non è un lavoratore effettivo chi è occupato per due sole giornate al mese. E, ancora, il dato grezzo non ci dice quanto e come si è lavorato. Il fenomeno dei workers poor è alimentato da chi ha un’occupazione saltuaria, come da chi è costretto a un part time involontario, orizzontale o verticale che sia, tutte situazioni che non consentono alla busta paga di crescere e soprattutto di rispondere alle aspettative di vita, anche minime.
Come è possibile intervenire? Silvana Sciarra, la presidente della Corte costituzionale, indica la contrattazione come il volano che può consentire di aggredire il male. E ha ragione, ma i contratti da soli non sono sufficienti, servirebbe un mix di interventi, come peraltro si sta facendo, anche se con troppa lentezza. Servirebbe un po’ più di decisione, ma è scoprire l’acqua calda. Però non ci sono scorciatoie, quella è la via, più contrattazione, meno cuneo fiscale e contributivo, più politiche attive del lavoro. Non è facile, ma altro non c’è.
Massimo Mascini