Per uscire dalla fase dell’emergenza pandemica e mettere a punto uno strumento di grande valore che consentisse di costruire una nuova e più avanzata organizzazione del lavoro, Leonardo, il più grande gruppo metalmeccanico aderente a Confindustria, ha stretto con i sindacati un accordo generale sull’uso dello smart working. Regole di base per fare di questo istituto uno strumento per realizzare una più ampia integrazione e per accreditare la cultura del raggiungimento dei risultati. Antonio Liotti, Chief People & Organization del Gruppo Leonardo, crede fermamente nel valore di questo accordo che consentirà una politica di maggior respiro, risolvendo anche alcune criticità che esistevano all’interno del gruppo. Soprattutto crede che grazie a questo accordo, destinato a diventare un preciso punto di riferimento per l’intero settore, sarà possibile innovare i fondamentali della gestione delle risorse umane.
Liotti, perché un accordo sullo smart working e perché adesso?
Per noi era molto importante segnare un passaggio dalla gestione di una fase di emergenza alla gestione ordinaria, cosiddetta “strutturale”. Abbiamo governato per 24 mesi la convivenza con la pandemia e in questo lungo tempo poteva radicarsi l’idea che in un’azienda come la nostra il modello di smart working rispondesse prevalentemente, se non esclusivamente, all’esigenza di distanziare i lavoratori e assicurare salute e sicurezza.
Non è stato così?
No, Leonardo ha fatto una scelta diversa. Ha certamente immaginato di riadattare il layout nell’ottica di rivedere gli spazi per garantire una gestione in linea con esigenze moderne, ma non ha mai creduto che lo smart working potesse essere esclusivamente una leva per ristrutturare le proprie sedi. Abbiamo voluto dedicare maggiore attenzione alla delicata fase di passaggio dall’emergenza a una nuova fase, che non è di normalità, semmai di transizione, o meglio di trasformazione. E lo abbiamo fatto cercando di definire una disciplina in grado di rispondere alla grande eterogeneità dei nostri business e delle nostre professioni.
Come avete risposto a questa vostra esigenza?
Non è stato semplice. In Italia siamo in trentamila, suddivisi tra le strutture di corporate e gli oltre cinquanta stabilimenti delle nostre Divisioni e società controllate. Di queste persone tredicimila, per lo più impegnate nel manufacturing, non erano remotizzabili, le altre diciassettemila sì, ma era possibile distinguere tra i diversi business. Ancora, dovevamo prestare la massima attenzione al fatto che proprio attraverso lo smart working era possibile individuare anche risorse di particolare pregio, per lo più impegnate nelle nuove tecnologie digitali. Persone che si confrontano con altri settori più moderni rispetto al nostro e che non lavorerebbero in Leonardo, se non fosse loro offerto un sistema avanzato di welfare e la possibilità di lavorare in smart working.
Quale è stata la vostra scelta?
Quella di individuare limiti quantitativi di ricorso allo smart working, flessibili in funzione delle diverse esigenze di business a livello divisionale, di stabilimento ed individuali. È stato fissato un limite generale, un massimo di 8 giornate al mese, estendibili fino a 10, ma regolandolo a seconda delle esigenze delle singole Divisioni e dei singoli stabilimenti. Un modello modulare che consente di tenere conto di tutte le esigenze, quelle aziendali e quelle personali.
È stato complesso trattare con questi limiti con il sindacato?
Assolutamente no, perché anche loro avevano lo stesso problema. La loro delegazione rappresentava tutte le realtà del gruppo e portava avanti istanze significativamente diverse. L’obiettivo comune era quello di armonizzare tutte le esigenze, in modo che la soluzione potesse essere condivisa da tutte le realtà del gruppo. E noi avevamo anche l’esigenza di introdurre una serie di istituti che qualificassero lo smart working per quello che vogliamo sia sempre di più, un modello di organizzazione del lavoro che faciliti l’inclusione in senso ampio.
Che tipo di inclusione?
Per esempio, consentendo un migliore equilibrio tra i generi. Il modello di smart working consente di superare il criterio valutativo tradizionale adottato da alcuni responsabili, per i quali la presenza fisica e la quantità di presenza continuano a essere un valore fondante nelle loro valutazioni. Il modello ibrido consente di superare questo pregiudizio, perché fa capire che è altrettanto rilevante il grado di realizzazione degli obiettivi assegnati. Quindi, educa i responsabili a una valutazione dei collaboratori che tenga conto sempre della presenza, ma anche di chi è in grado di assicurare la puntuale esecuzione delle attività assegnate, agevolando in questo modo il sostegno a quelle categorie di persone che affiancano alla sfera professionale una sfera personale che include, ad esempio, lavori di cura o impegni legati alla genitorialità.
Un risultato di notevole rilevanza.
Sì, certo, come è anche il fatto che grazie allo smart working possiamo andare incontro alle esigenze di lavoratori che hanno a carico familiari con disabilità, verso i quali abbiamo messo a punto particolari misure.
Cosa avete previsto?
Abbiamo deciso di includerli nella fascia di coloro che possono arrivare alla massima estensione del lavoro da remoto, per dieci giorni al mese. Questo utilizzo massimo è riservato ad alcuni settori di business e appunto ai lavoratori che hanno particolari esigenze familiari. In questo modo, l’azienda riesce a superare una serie di criticità sempre presenti. Ancora, è da sottolineare la possibilità di realizzare tramite il lavoro da remoto una maggiore integrazione geografica e territoriale.
Un risultato importante per Leonardo?
Sì, perché noi siamo un’impresa multinazionale che ha quattro mercati domestici e cinquantamila dipendenti nel mondo. La diffusione della tecnologia e la possibilità di lavorare da remoto agevolano l’integrazione territoriale, che prima richiedeva necessariamente trasferte e viaggi con tutte le difficoltà e i costi del caso.
La caratteristica più rilevante di questo nuovo modo di lavorare è comunque il fatto di dover valutare il lavoro sulla base dei risultati ottenuti, un vero salto culturale.
Per Leonardo questa non è comunque una novità assoluta. Già nel recente accordo integrativo abbiamo esteso a tutti i quadri e agli impiegati di settima categoria un sistema di incentivazione variabile collegato al raggiungimento di obiettivi assegnati, con la logica di sviluppare una cultura in cui la performance sia valutata per obiettivi. Naturalmente un modello ibrido di smart working rafforza questa tendenza, diventando una vera leva di competitività del business.
Lei mi diceva che non avete avuto dubbi sull’opportunità di gestire questo tema in un momento in cui la pandemia non è ancora finita. Non era meglio aspettare?
Qualche altra grande azienda lo ha fatto, ha rinviato la discussione di questo istituto al momento in cui lo scenario fosse più certo. Noi invece abbiamo ritenuto che questo fosse il tempo giusto, in una logica di negoziazione di anticipo, che fosse proattiva, che provasse ad intercettare le esigenze del futuro della nostra azienda e in generale del settore. Per questo diciamo con soddisfazione che questo nostro accordo potrebbe rappresentare un punto di riferimento anche per altre aziende che non hanno ancora regolamentato la fase post-emergenziale.
Sarà fondamentale, poi, il comportamento dei capi, che in qualche modo cambiano o comunque modificano sensibilmente il loro lavoro.
Per questo abbiamo previsto dei particolari corsi di formazione e intensificheremo questo lavoro, soprattutto per promuovere la consapevolezza della necessità di dare maggiore spazio all’assegnazione di obiettivi misurabili, ma anche per far fronte a una complessità diversa, perché la gestione dei team è stata storicamente basata sul contatto fisico, sulla presenza, sulla possibilità quindi di sentirsi assolto dall’obbligo di pianificare. Il modello ibrido impone a chi ha una responsabilità una maggiore attenzione alla pianificazione delle attività, con chi è presente e con chi lavora da remoto.
Che non è sempre facile.
Assolutamente no. La tendenza a lavorare di meno con chi è assente o lavora da remoto è una tipica distorsione dei modelli tradizionali. Per questo occorre sensibilizzare i capi, perché siano in grado di integrare tutto il loro team rispetto agli obiettivi che vengono fissati, senza che ci siano differenze tra chi è presente e chi non lo è. E per ottenere questo risultato occorre una attenta formazione che punti a tre obiettivi, la cultura del raggiungimento dei risultati, la pianificazione dell’organizzazione delle attività, l’integrazione delle persone.
La possibilità di lavorare da remoto comporta dei problemi in merito alla sicurezza?
Ci sono due ordini di problemi al riguardo. In un’azienda come la nostra, che lavora anche su materiali classificati, è importantissimo porre particolare attenzione alla sensibilità delle informazioni, anche rispetto al luogo della prestazione. Noi abbiamo chiarito con questo accordo che lo smart working non è telelavoro, non si deve lavorare necessariamente da casa, ma il lavoratore deve assicurare condizioni di sicurezza e di riservatezza del luogo in cui svolge la prestazione. Servirà quindi una precisa formazione al riguardo. Come servirà anche assicurare una formazione specifica per i lavoratori, perché sappiano confrontarsi con la necessità di assicurare il target di prestazione previsto nei tempi fissati. Anche loro devono fare il salto di qualità, dal lavorare per lavorare al lavorare per raggiungere l’obiettivo.
Massimo Mascini