Dunque, come va l’inflazione? Bene, anzi, benissimo, tanto che la Bce sta per fare una conversione a U e cominciare a tagliare i tassi. Difficile che lo faccia così velocemente come quando li ha alzati: 4 punti nel giro di due anni. Ma, insomma, finalmente scendono. Del resto, l’inflazione europea è vicina alla mitica soglia del 2 per cento. In Italia, ad aprile, siamo addirittura, allo 0,8 per cento, rispetto all’aprile 2023, un tasso che fa tornare in mente i tempi belli dell’inflazione zero. Ancora un anno fa, viaggiavamo vicini all’8 per cento e, nell’ottobre 2022, all’11,5 per cento, con l’incubo degli anni ’70 davanti agli occhi.
Il sollievo che si avverte venire dai circoli degli economisti è palpabile. I prezzi hanno smesso di crescere. I fattori che li spingevano (soprattutto il boom del costo dell’energia) si sono esauriti. La famigerata spirale fra prezzi e costi che autoalimenta l’inflazione non si è innescata. Anche i custodi dell’euro, a Francoforte, si sono convinti che lo tsunami di ritorno degli aumenti salariali non ci sarà e che, nella media dei prossimi anni, le retribuzioni torneranno a muoversi intorno ad un accettabile 3 per cento (2 per cento di inflazione e 1 per cento di aumento di produttività). L’economia può tornare a girare con il rombo sommesso di un motore ben regolato. La situazione è tornata sotto controllo.
O no? In giro, di palpabile più che il sollievo c’è il malanimo. Il problema è che di inflazione non ce n’è una sola, ma due: quella degli economisti e quella di tutti gli altri. L’inflazione degli economisti misura (come propriamente indicano i libri di testo) la velocità a cui crescono i prezzi. Potremmo chiamarla l’inflazione economica: è quella che è scesa al rassicurante 0,8 per cento dello scorso aprile. Ma l’inflazione economica è per lo più quasi impercettibile. Occorrono i grandi sbalzi, come a fine 2022, per farla balzare davanti agli occhi. Ma l’inflazione sociale – o psicologica – misura non la velocità di aumento, ma il confronto fra il livello dei prezzi. E l’impatto è assai maggiore. Difficile che uno apprezzi che comprare un etto di prosciutto costa solo venti centesimi più di un anno fa. Il problema è che continua a costare 5 euro in più di prima del Covid.
L’inflazione economica, oggi, è dello 0,8 per cento rispetto all’aprile 2023, ma quella percepita, rispetto al gennaio 2020, è del 20 per cento circa, che si guardi all’indice dei prezzi per l’intera collettività, piuttosto che a quello per le famiglie di operai e impiegati. Si fa attenzione al 19 per cento in più fra 2020 e 2023, piuttosto che all’1 per cento fra 2023 e 2024.
Rispetto all’inflazione degli economisti, questa inflazione percepita ha due caratteristiche importanti.
La prima è che l’aumento dell’inflazioone del 20 per cento, rispetto al 2020, è, comunque, una media, in cui ci sono, cioè anche prezzi che sono scesi (un buon telefonino costa, oggi, meno di quattro anni fa). Ma l’inflazione sociale si concentra sul costo della vita e, in particolare, sugli alimentari, dove i prezzi, non limati dalla media, sono cresciuti ben più del 20 per cento.
La seconda è che il rallentameno della velocità dell’inflazione non significa affatto che il livello dei prezzi scenda. Quel 20 per cento, ormai, è acquisito.
Sul piano economico, questo divario fra inflazione degli economisti e inflazione popolare può avere effetti sulla domanda, perché l’inflazione percepita può fare da freno ai consumi.
Ma l’impatto più significativo è politico. L’inflazione degli economisti dovrebbe generare ottimismo. Ma il 20 per cento in più dell’inflazione percepita genera, invece, malumore, scontento, rancore. A spiegare la generale avanzata della destra, in tutta Europa, basterebbe l’incrocio fra l’inflazione percepita e le difficoltà sul mercato del lavoro. Vedremo la prossima settimana.
Maurizio Ricci