Sta emergendo in tutta evidenza come le relazioni industriali siano state centrali in questa emergenza da Covid 19. Il dialogo tra le parti sociali è stato importante quando si è trattato di chiudere le fabbriche, atto sempre doloroso, che ha visto tra l’altro i sindacati assumere un ruolo insolito, nel sostenere l’esigenza di fermare la produzione, proprio loro che al contrario lottano sempre per tenere aperte le imprese. Ma è stato rilevante anche per tenere in funzione le imprese che erogavano servizi ai quali non si poteva rinunciare. Anche stavolta il confronto tra le parti sociale è stato determinante per assicurare la salute dei lavoratori, ma anche la continuità della produzione. E tanto più sarà irrinunciabile se si arriverà a negoziare un altro grande accordo sul futuro delle relazioni industriali.
Tutto lascia credere che questo negoziato possa aprirsi in un lasso di tempo anche abbastanza breve. C’è infatti una diffusa consapevolezza dell’opportunità di avviare questa analisi comune su ciò che ha funzionato e ciò che sarà bene correggere per il futuro. Sono ancora incerti i confini di questo negoziato, se si limiterà a delineare nuove regole per la contrattazione e per l’organizzazione del lavoro, che comunque dovranno essere sottoposti a profonde modifiche, o se invece spazierà anche sul modello economico. Questo dipende dalle parti sociali e anche da quelle politiche se vorranno partecipare a questo negoziato.
Sarebbe auspicabile che il confronto si allargasse e divenisse tripartito perché tutta la storia delle relazioni industriali è segnata da grandi accordi raggiunti proprio nei momenti più difficili della vita economica. Fin dall’inizio, quando nel dopoguerra Angelo Costa e Giuseppe Di Vittorio raggiunsero un accordo per instaurare il sistema di scala mobile. L’Italia era uscita a pezzi dal conflitto mondiale, l’economia era a terra, l’inflazione bruciava i salari e c’era bisogno di salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie, e dal cappello di quei due grandi protagonisti di quegli anni uscì questo accordo che consentì un minimo di respiro a tutti, ai lavoratori che avevano assicurata la continuità del potere di acquisto dei loro salari e al mondo della produzione che poteva contare su un mercato interno non asfittico.
Per trovare un altro grande accordo occorre fare un salto in avanti, nei primi anni ottanta. L’Italia era alle prese con un’inflazione sudamericana, vicina al 20%. Le strade per arginare il pericolo erano impervie, forse impraticabili. Fu il sindacato a indicare la soluzione chiedendo una modifica del funzionamento della scala mobile. Questo strumento, salvifico negli anni quaranta, mostrava ormai la corda, era diventato fonte di dì pericolosi squilibri che mettevano in difficoltà il sistema economico. Non fu facile trovare un accordo. Un primo risultato si ebbe con l’accordo del gennaio 1983, gestito dal ministro del Lavoro Enzo Scotti, che però si rivelò insufficiente. Più importante anche se non risolutivo l’accordo di San Valentino, del febbraio del 1984, che ebbe però il difetto di non avere la firma della Cgil, per la decisa opposizione del Pci. Due accordi comunque molto importanti, che nacquero con la firma delle parti sociali e del governo in carica.
Ancora più importante l’accordo che mise termine una volta per tutte al destino della scala mobile, quello che fu firmato da parti sociali e governo nel luglio del 1993. Un’altra volta l’economia italiana era a pezzi, davvero sull’orlo del burrone, anche perché ai nodi economici si sommavano quelli, ancora più dolorosi, della crisi delle grandi organizzazioni politiche sull’onda di Tangentopoli. Occorreva muoversi e farlo in fretta. Nel 1992 il presidente del Consiglio in carica, Giuliano Amato, trovò un primo accordo con le parti sociali per un intervento, importante anche se, pure stavolta, non risolutivo. La svolta avvenne l’anno successivo, quando il nuovo governo, guidato da Carlo Azeglio Ciampi, riuscì a mettere tutti d’accordo su una serie di interventi capaci di consentire al paese una ripartenza. Un’intesa importante, una vera pietra miliare nella storia delle relazioni industriali che risolse una serie di problemi, quello della dinamica dei salari certamente, ma anche quelli della contrattazione e della rappresentanza, strutturando il sistema della concertazione.
Non è sempre stato così, dopo quell’accordo. Cinque anni dopo una commissione di studio, presieduta da Gino Giugni, il ministro del Lavoro che aveva formulato gli accordi del 1993, indicò una serie di modifiche che sarebbe stato opportuno portare a quell’intesa, soprattutto per quanto si riferiva alla struttura della contrattazione. Sembrava un’operazione facile, ma l’impresa fallì. Si negoziò a lungo e si arrivò anche a un accordo, l’intesa di Natale, del 1998, che però eluse i problemi di fondo lasciandoli insoluti. Ci si provò ancora qualche anno dopo e fu anche raggiunto un nuovo accordo nel 2002, che però ebbe il difetto di non trovare il consenso della Cgil e di basarsi su un’intesa di fondo molto fragile. Si chiamava Patto per l’Italia e non ebbe fortuna, anche perché il governo in carica, guidato da Silvio Berlusconi, non ottemperò alle promesse che aveva sottoscritto per cui anche i sindacati firmatari, la Cisl e la Uil, lo ripudiarono.
Qualche anno ancora e si giunse a un nuovo accordo, all’inizio del 2009. Il tema in discussione era sempre quello della struttura della contrattazione. Si riuscì ad arrivare a un accordo che sancisse un nuovo ordine, ma anche stavolta si trattò di un accordo zoppo, perché mancava ancora una volta la forma della Cgil. Guglielmo Epifani, il segretario generale della confederazione, messo di fronte a un accordo precostituito che non approvava, preferì mettersi da parte. E questo fu fatale per questa intesa, nei fatti mai applicata. Un grave problema, perché proprio in quei mesi era partita la crisi decennale più grave che l’economia italiana abbia subito dal dopoguerra e un accordo sul sistema di contrattazione avrebbe facilitato la ricerca delle soluzioni.
Emerge così, da questa breve cronistoria come grandi accordi interconfederali siano stati determinanti in momenti di grave crisi economica, occasioni nelle quali le parti sociali, strette dal dovere di far fronte a vere emergenze, sono riuscite a trovare un’intesa tra loro che fosse funzionale a tutto il paese. L’ultimo grande accordo di questa levatura è stato quello di due anni fa, il Patto della fabbrica, raggiunto in un momento difficile soprattutto per gli equilibri politici del paese. Un’intesa interessante sotto tanti aspetti, anche se arrivò in ritardo rispetto al protagonismo di organizzazioni datoriali diverse da Confindustria. Ma soprattutto inadeguata rispetto all’emergenza che si è creata con il Covid. Adesso l’Italia si trova di nuovo di fronte a un momento di acuta difficoltà, che da sanitaria si sta trasformando in economica. Il fermo delle attività produttive e del commercio per più di due mesi metterà tutti di fronte a problemi di estrema difficoltà. Il Pil potrebbe calare fino a quasi il 10% e si perderebbero 500mila posti di lavoro. Ancora una volta ci sarà bisogno di una nuova ripartenza e un nuovo grande accordo tra le parti sociali potrebbe rappresentare quella spinta capace di risolvere o comunque affrontare i problemi emergenti. Difficile dire se si arriverà o meno a un accordo, se le parti si fermeranno agli aspetti delle relazioni industriali o se sapranno aggredire temi di carattere più generali. Si tratterà certamente di un’occasione, dipenderà dalla loro capacità sfruttarla fino in fondo.
Massimo Mascini