Quando ho conosciuto Aris Accornero eravamo, credo, nel 1971. Giusto due anni dopo l’Autunno caldo del ’69 e un anno dopo l’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori. All’epoca, Accornero aveva quarant’anni, essendo nato nel 1931, e faceva il direttore dei Quaderni di Rassegna sindacale, la rivista bimestrale della Cgil. Io, invece, ero uno studente universitario e avevo cominciato a collaborare con le pagine culturali dell’Unità e di Rinascita, rispettivamente quotidiano e settimanale del Pci.
Insieme con un mio compagno di studi, Luciano Albanese, avevamo proposto a Rinascita di fare un’inchiesta sugli allora nascenti Consigli di fabbrica. Bruno Schacherl, che dirigeva Il Contemporaneo, supplemento mensile di Rinascita, approvò l’idea e ci suggerì di cominciare parlando con l’allora a me del tutto sconosciuto Accornero. Che ci accolse nel suo ufficio al pian terreno della sede nazionale Cgil, al n. 25 di corso d’Italia, e si mostrò molto disponibile. Per noi, fu anzi un vero e proprio Virgilio, guidandoci in quel nostro primo viaggio nel mondo sindacale.
Sul torinese tipo c’è un motto proverbiale, peraltro torinese, che lo definisce “faus e curteis”. Ora Accornero era davvero molto torinese, e quindi anche molto curteis, ma per nulla faus. Anzi, era paziente e capace di correggere i nostri errori di inesperienza o di riempire i nostri buchi di ignoranza cordialmente e senza recarci nessuna offesa. Grande lavoratore, efficiente, ordinato, scrupoloso e, allo stesso tempo, dotato di grande attitudine didascalica. Chi non avrebbe voluto lavorare con uno come lui? Eppure, neanche tanti anni prima, e cioè nel 1957, la Riv, la grande azienda metalmeccanica torinese dove lavorava come operaio, l’aveva licenziato su due piedi.
Figlio di un operaio – il che, nella cultura dell’epoca, era già una garanzia di laboriosità – Accornero era stato assunto alla Riv dopo aver frequentato la scuola professionale. Se non vado errato, era stato messo a fare l’aggiustatore meccanico, l’élite delle tute blù. Però era anche iscritto al Pci e alla Fiom, il sindacato metalmeccanici della Cgil. Per di più, si era impegnato nella redazione del 7b, il giornalino di fabbrica. Forse troppo, agli occhi della Direzione del personale? Fatto sta che lo isolarono, nel senso che lo misero a lavorare in una postazione isolata. Lì doveva smaltire le lavorazioni sui pezzi che gli portavano appositamente. Fino a quando la Direzione lo licenziò, motivando la decisione come conseguenza di comportamenti inadeguati che avevano fatto venir meno la fiducia riposta, eccetera. Del resto, non c’erano testimoni a sua discolpa.
Accornero fu il primo lavoratore licenziato negli anni 50 che ho conosciuto in Cgil. Il primo, ma non l’unico. La cosa, comunque, mi fece una certa impressione, forse anche perché ero cresciuto in una famiglia in cui era ben presente il ricordo del fatto che mio nonno era stato licenziato nel 1938, dal suo incarico universitario, perché “di razza ebraica”. Un episodio traumatico, che aveva segnato la vita sua e quella dei miei familiari.
Ma torniamo alla sede Cgil di corso d’Italia. Dall’altra parte del corridoio in cui era situato l’ufficio di Accornero, si apriva la stanza in cui lavorava Claudio Pontacolone che, assieme ad Angelo Di Gioia, un ingegnere che veniva dall’esperienza dei Consigli di gestione, dirigeva all’epoca le attività di formazione sindacale della Cgil. Pontacolone, di qualche anno più anziano di Accornero, aveva un aspetto particolarmente signorile: un’eleganza non solo dell’abbigliamento, ma del tratto e dei comportamenti che, se non esagero nel ricordo, mi pareva avesse qualcosa di settecentesco. Parlava con voce bassa e nello sguardo si poteva intravedere una contenuta malinconia, mascherata da qualche sorriso.
Renitente alla leva della Repubblica Sociale, si era dato alla macchia raggiungendo una formazione partigiana nella regione in cui abitava, la Liguria. Catturato dai repubblichini, aveva passato, credo, qualcosa di peggio di un brutto quarto d’ora. Condannato a morte, era riuscito a evadere scavalcando un muro.
Dopo la Liberazione, si era impiegato in un’azienda chimica, credo nel settore petrolifero. Come militante della Cgil, aveva partecipato, prendendo la parola, a una delle iniziative con cui Giuseppe Di Vittorio, tra il 1949 e il 1950, aveva lanciato il Piano del lavoro.
A vederlo era difficile crederlo, eppure anche lui, lui che era scampato alla fucilazione, e che dopo la guerra era stato sicuramente un impiegato modello, non si era salvato dall’ondata di licenziamenti – detti “di rappresaglia”, nel gergo Cgil – che, alla metà degli anni 50, aveva epurato dalle fabbriche italiane migliaia di militanti politici e sindacali.
Grazie prima ad Accornero, e poi a Pontacolone, cominciai a collaborare alla casa editrice della Cgil, che allora si chiamava Esi, fino a quando questa collaborazione, dopo il servizio militare, non si trasformò, nel 1976, in una vera e propria assunzione.
Nel 1981, quando ero stato aggregato, temporaneamente, alla redazione di Rassegna sindacale, il settimanale della Cgil, fui informato del fatto che alla Fiom cercavano qualcuno per l’Ufficio Stampa. Si trattava di rimpiazzare Sesa Tatò, andata allora in pensione, per riprendere le pubblicazioni di un quindicinale unitario: Flm notizie.
Pio Galli, che era allora il Segretario generale della Fiom, chiese un’indicazione a Bruno Trentin, all’epoca nella Segreteria confederale Cgil, e pare che Trentin abbia fatto il mio nome. Tornai così a incontrare Pio Galli che, all’epoca dell’inchiesta sui Consigli di fabbrica, avevo già conosciuto, in quanto segretario all’organizzazione della Fiom, nella vecchia sede di via del Viminale. Inutile che io vi dica che, quando cominciai a lavorare nella sede Flm di corso Trieste, trovai in Galli un dirigente leale, sincero, generoso e umano, come pochi ne ho conosciuti.
Pio Galli era nato nel 1926. Nonostante fosse più giovane di Pontacolone, aveva fatto in tempo a partecipare alla Resistenza. Come Accornero, anche Galli era figlio di un metalmeccanico. Nel suo caso, si trattava di un operaio siderurgico, dipendente delle Acciaierie e Ferriere Caleotto, mitica fabbrica di Lecco. Nella primavera del ’44, all’età di 18 anni, Galli aveva tentato di unirsi, con due suoi coetanei, alla 55° Brigata Fratelli Rosselli. Ma, come Pontacolone, furono catturati dai fascisti repubblichini, che li sottoposero a interrogatori, a dir poco, brutali. Quindi furono messi su un treno diretto a Milano, città da cui dovevano essere deportati in Germania. A una stazione, però, riuscirono a fuggire dal treno e, questa volta, anche a raggiungere i partigiani.
Pio aveva cominciato a lavorare a 12 anni. Dopo la Liberazione coronò il suo sogno professionale: nel ’46, anche lui fu assunto al Caleotto. Responsabile della cellula del Pci, membro Fiom della Commissione interna, nel 1953, in occasione di uno sciopero indetto contro la cosiddetta “legge truffa”, venne licenziato insieme con altri otto lavoratori, dei quali cinque comunisti e tre socialisti.
Ora non è che io, per una somma di casi singolari, mi sia successivamente imbattuto negli unici tre dirigenti Cgil che avevano iniziato la loro carriera sindacale dopo un licenziamento avvenuto negli anni 50. Il fatto è che, in quel periodo, una mannaia repressiva si abbatté su un paio di generazioni di militanti sindacali. Per citare un solo dato, Emilio Pugno e Sergio Garavini, nel loro Gli anni duri alla Fiat (Einaudi, 1974), parlano di “duemila quadri Fiom licenziati in pochi anni”.
Va detto che la grande maggioranza di queste espulsioni dal processo produttivo aveva la forma di licenziamenti individuali. Anche se si conserva ancora la memoria dell’Officina sussidiaria ricambi, ribattezzata dagli operai Officina Stella rossa. Si trattava di un cosiddetto “reparto confino”, in cui la Fiat aveva progressivamente concentrato, a partire dal 1952, alcune decine di militanti Fiom, socialisti o comunisti. La sua chiusura, nel dicembre 1957, consentì all’azienda di effettuare una sorta di licenziamento collettivo.
E’ certo notevole il fatto che proprio a questa vicenda Accornero abbia dedicato il suo primo libro, Fiat confino: storia della O.S.R. (edizioni Avanti!, 1959). Resta il fatto che, da un punto di vista socio-economico, i licenziamenti collettivi hanno mantenuto nel tempo la caratteristica di licenziamenti causati da fattori economici e produttivi, mentre quelli individuali hanno avuto anche, certo non solo, una funzione spiccatamente repressiva.
Ciò detto, cambiamo scena. Spostiamoci a metà strada, da un punto di vista cronologico, tra gli anni 50 e il varo dello Statuto dei diritti dei lavoratori (1970). Siamo nell’estate del 1966, quando la formula politica dei Governi di centro-sinistra ha perso parte della sua spinta propulsiva, ma non ha ancora imboccato la sua fase declinante.
E’ in questa temperie politica che viene varata una delle leggi più limpidamente democratiche che siano mai state prodotte dal Parlamento repubblicano. Stiamo parlando della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”.
In calce, quattro firme. Innanzitutto, quella del Presidente della Repubblica, il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Poi quella del Presidente del Consiglio dei Ministri, Aldo Moro, leader indiscusso di una delle tre correnti della sinistra democristiana, all’epoca alla guida del suo terzo Governo. Infine quelle del Ministro del Lavoro e Previdenza sociale, il democristiano Giacinto Bosco, e del Ministro di Grazia e Giustizia, il repubblicano Oronzo Reale.
Perché mi sono permesso di definire questa legge “limpidamente democratica”? Innanzitutto, per la sua struttura: 14 articoli, ben articolati, se mi passate il bisticcio, e in gran parte di poche righe: due o tre commi al massimo.
Poi per il linguaggio: un italiano semplice e inequivocabile, che non indulge a tecnicismi né a reiterati rinvii ad altre norme precedenti. Per leggere questa legge da capo a fondo e comprenderne il significato, bastava, direi, la quinta elementare. Se non mi credete, andate su Internet e fate una ricerca con Google: lo vedrete da soli.
In terzo luogo, per il modo in cui l’argomento è tagliato: i licenziamenti individuali e basta. Mentre il cosiddetto Jobs Act, di renziana memoria, ha, ai miei occhi, la grave colpa di aver mischiato due cose diverse; ovvero, appunto, i licenziamenti individuali e quelli collettivi. Con la conseguenza di avere non solo tolto irragionevolmente dei diritti ai lavoratori, ma di aver reso la situazione più confusa anche per le imprese.
In quarto luogo, e questo è il punto principale, per aver inserito nella legislazione italiana il seguente aureo principio, fissato nell’articolo 1 della legge: “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del Codice civile o per giustificato motivo”.
Ripetete con me: il licenziamento individuale non può avvenire che “per giusta causa” o “per giustificato motivo”. E si è detto, credo, tutto l’essenziale.
In quinto luogo, e anche questo è importante, per aver specificato, all’articolo 4, che “il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”.
Ricapitolando. Quando l’Officina sussidiaria ricambi fu chiusa, nel dicembre 1957, il Consiglio comunale di Torino espresse un suo dissenso. E si tenga presente che a governare il Comune c’era una maggioranza centrista, imperniata sulla Dc. Nove anni dopo, quando a governare l’Italia c’è un Esecutivo guidato da un esponente della sinistra Dc e in cui i socialisti del Psi hanno ruoli importanti come quelli ricoperti da Pietro Nenni (vice Presidente del Consiglio) e da Giovanni Pieraccini (Ministro del Bilancio), viene finalmente approvata una legge che, se fosse stata in vigore negli anni 50, avrebbe consentito di considerare nulli quei molti, troppi licenziamenti di cui abbiamo parlato.
Dopodiché resta da dire che l’Italia è un paese strano. E’ da cinquant’anni che si discute della famosa legge 20 maggio 1970, n. 300, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Mentre la legge 604 del 1966 è quasi caduta nel dimenticatoio.
Ora è evidente che la legge 300, il cui disegno originario fu pensato e steso da Gino Giugni, è più importante della legge 604. E ciò, direi, almeno per due motivi, strettamente intrecciati fra loro.
In primo luogo, per i diversi momenti storici in cui i due provvedimenti furono varati. La 604, come si è detto, fa parte di una fase in cui il carattere riformatore del primo centro-sinistra era già un po’ attenuato. E del resto il modo di governare di Moro tendeva a evitare qualsiasi clamore. Al contrario, a monte della legge 300 c’è un biennio di vigorosi e prolungati conflitti industriali, quel biennio che va dalle grandi lotte aziendali del ‘68 all’Autunno caldo del ‘69. E’ quindi una legge che recepisce e norma dei profondi cambiamenti che si sono già prodotti nella società.
In secondo luogo, mentre, come si è detto, la legge 604/66 è volta a normare una problematica circoscritta, quella dei licenziamenti individuali, la legge 300/70 si presenta come un provvedimento ben più ambizioso, volto a riformare una materia assai più ampia, come ben si evince dal suo lungo titolo. Non è quindi un caso che, riprendendo il nome di un obiettivo lanciato da Giuseppe Di Vittorio, la legge 300 si sia meritata la qualifica – gergale, non ufficiale – di Statuto dei diritti dei lavoratori. Per fare un solo esempio che basta a spiegare questa qualificazione, la legge 300/70 viene a normare, e quindi a introdurre nel nostro ordinamento, un diritto che era stato conquistato di fatto, anche se solo in alcune grandi aziende, proprio al culmine del biennio ‘68-69: il diritto di tenere assemblee sindacali in fabbrica. Un’innovazione quasi rivoluzionaria, questa, che trasformava il luogo di lavoro da domicilio privato dell’impresa ad ambiente aperto alle iniziative di dibattito democratico promosse dalle organizzazioni dei cittadini-lavoratori.
Resta il fatto che, da cinquant’anni, il punto più discusso della legge 300 è il suo celeberrimo, amatissimo, esecrato art. 18. Cioè proprio quello che, già nella sua seconda riga, cita la legge 604. Leggiamo insieme: “Ferma restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
Ora non è certo mia intenzione quella di sminuire le due grandi novità introdotte dalla legge 300/70 rispetto alla legge 604/66.
Primo: la legge del ’66 fissava a 35 dipendenti la soglia dimensionale delle imprese al di sopra della quale iniziava il suo campo di applicazione. Tale soglia, come è noto, fu portata dalla legge del 1970 a 15 dipendenti. In pratica, il campo di applicazione della seconda, dato il noto problema delle ridotte dimensioni di molte imprese italiane, crebbe in modo significativo rispetto a quello della prima.
Secondo: come è noto, l’articolo 18 della legge 300/70 si intitola “Reintegrazione nel posto di lavoro”. Senza entrare nelle sottigliezze del dibattito storico-giuridico fra Vincenzo Bavaro e Pietro Ichino che è stato ospitato, grazie a una meritoria iniziativa di Antonio Carioti, sul n. 442 della Lettura del Corriere della Sera, ancora in edicola fino a sabato 23 maggio, è evidente che il passaggio dal semplice indennizzo alla reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato nella sua precedente collocazione lavorativa ha costituito la novità più dirompente della legge 300.
Concludendo. Se in occasione del 50° anniversario del varo della legge 20 maggio 1970, n. 300, si vuole dare nuovo impulso, da una lato, alla ricerca storica, e, dall’altro, al dibattito giuridico, e politico, sulla legislazione eretta a promozione e difesa dei diritti dei lavoratori, sarà bene seguire l’esempio che, proprio in questi giorni, ci è stato dato da Bavaro e Ichino nel citato confronto: bisogna partire dalla legge 15 luglio 1966, n. 604. Quella legge che fu concepita e stesa da legislatori nelle cui menti era ancora fresco il ricordo delle migliaia di licenziamenti individuali che, nei duri anni 50, avevano segnato tragicamente tante fabbriche del nostro Paese. Quella legge, ancora, senza di cui l’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori non sarebbe stato concepibile nella forma in cui è stato poi effettivamente concepito.
@fernando_liuzzi