L’Europa è cambiata. E molto. Ne avremo la conferma giovedì, quando il vertice della Bce benedirà la svolta che, a ritmo serrato, nelle prossime settimane, porterà alla fine dei massicci acquisti di titoli pubblici, in nome del Quantitative easing, lanciato per contrastare la pandemia e ai primi rialzi dei tassi di interesse da dieci anni a questa parte. Insomma, il varo dell’offensiva antinflazione. Ma , allora, il mutamento dov’è? Nel fatto che, a queste misure, secondo le anticipazioni, sarà affiancato un nuovo strumento di intervento sui mercati. Al contrario di quello attualmente in vigore, che prevede interventi a scadenza ed entità prefissate e che ora va in archivio, il nuovo intervento sarà flessibile e mirato. Vuol dire che, anziché a pioggia e destinato ai Btp italiani come ai Bund tedeschi, il nuovo bazooka della Bce sarà concentrato sulle situazioni di crisi. Per dirla in chiaro e fare l’esempio che fanno tutti, servirà, eventualmente, a puntellare il debito pubblico italiano, il più esposto d’Europa. In realtà, tutti confidano che non venga mai usato. Che basti, cioè, la sua esistenza per scoraggiare – come è già successo in passato – offensive sui mercati, che gli speculatori pagherebbero care, una volta che la Bce scendesse effettivamente in campo.
Ma, nei grandi smottamenti istituzionali, l’affermazione di un principio conta quanto la sua messa in atto. Probabile che i falchi del board Bce (Berlino, Vienna, L’Aja) accettino il lancio di questo nuovo strumento come contropartita all’adesione delle colombe al rialzo dei tassi di interesse. Ma poco importa. Paradossalmente, proprio il fatto che il nuovo strumento sia limitato, flessibile, mirato, nato con la speranza di non utilizzarlo mai, insomma tutti i vincoli che gli vengono assegnati, ne fanno, se non una rivoluzione, una brusca inversione a U nella storia della banca centrale europea. Il nuovo strumento è, infatti, il contrario di tutto quello che gli ortodossi della Bce hanno sempre sostenuto.
“Non siamo qui a difendere gli spread” disse, a fine 2019, Christine Lagarde nella sua prima conferenza stampa da neopresidente della Bce. Era pura ortodossia Bce in salsa nordica. Successe – anche sui mercati – il finimondo, con lo spread fra titoli tedeschi e italiani tornato a livelli pericolosi. Seguì una prudente e discreta marcia indietro e intervenne poi la pandemia a spazzar via ogni ritrosia verso le operazioni sui mercati e i sostegni ai titoli di Stato. Del resto, la giustificazione, per così dire, ideologica per un ombrello Bce era in campo già dai primi tempi della presidenza Draghi e del famoso “costi quel che costi” per salvaguardare l’euro. E’ in quel momento che il mantra dell’estraneità della Bce alle dinamiche dei debiti pubblici dei paesi membri è stato sostituito dalla preoccupazione di evitare “la frammentazione della politica monetaria”. Che vuol dire? Che se il divario fra i rendimenti dei titoli italiani e di quelli tedeschi si allarga troppo, di fatto il tasso di interesse prevalente in Italia sarà sempre più diverso da quello prevalente in Germania. Ovvero la politica monetaria della Bce in Germania sarà differente dalla politica della Bce in Italia, una contraddizione incompatibile con la moneta unica.
Insomma, la Bce già agiva a difendere gli spread, ma non poteva dirlo. Ora, il nuovo strumento annunciato, di fatto, lo dice. In modo tanto più netto se, come dicono le anticipazioni, i futuri interventi della Bce non saranno vincolati ad accordi preventivi su spesa pubblica, contenimento del debito e altri parametri della politica economica, come prefiguravano ancora, invece, quelle operazioni del “costi quel che costi” draghiano che non si sono mai materializzate.
La politica monetaria europea sembra diventare, dunque, in prospettiva, pragmatica, realistica, spregiudicata, anche se, oggi, all’Italia l’aumento in programma dei tassi di interesse non può far piacere. Non è, del resto, quella della politica monetaria, una evoluzione della realtà europea che avviene nel vuoto. Lo dimostrano i paralleli tentativi di coordinamento europeo a livello di difesa e, in modo assai più concreto, nella politica dell’energia. E’ l’Europa che cambia. Anche lo spartiacque della pandemia non è stato ripercorso all’indietro, come molti temevano. Si moltiplicano, infatti, gli appelli a rendere l’esperienza di debito e investimento comune del grande piano Nextgen Eu, che doveva essere irripetibile ed eccezionale, uno strumento, invece, ordinario ed utilizzabile. Vedremo, inoltre, come andrà a finire il dibattito sulla revisione dei parametri di Maastricht nei bilanci pubblici.
Intanto, è cambiata anche l’Italia. I tempi di Borghi, Bagnai, Savona e degli umori antieuro della Lega, come dei 5Stelle sembrano lontani, anche se sono passati meno di quattro anni. La prova della verità ci sarà con il governo arriverà dopo le elezioni della prossima primavera e parlare di nuovo consenso sull’Europa nella politica italiana è prematuro e, probabilmente, fuori misura. Ma, azzerate le polemiche, si può sperare in un dibattito che guardi in avanti, anziché indietro.
Maurizio Ricci