C’è chi dice che l’euro è condannato e si spinge a calcolarne l’aspettativa di vita (cinque anni, secondo uno dei principali consiglieri di Angela Merkel, non uno qualsiasi). E chi invece ritiene che, grazie soprattutto alla Bce, il momento peggiore sia passato e si possa ricominciare a ricostruire. E’ possibile che abbiano ragione gli uni e gli altri: una nuova tempesta finanziaria sulla moneta unica è, in questo momento, improbabile, ma le tensioni e gli squilibri di fondo sono ancora lì, a minarne la salute.
Gli ultimi mesi hanno visto indebolirsi la tesi che la crisi europea sia, fondamentalmente, un problema di finanza pubblica. L’opinione oggi prevalente è che la radice della crisi stia nel divario di competitività fra l’economia tedesca e quella dei paesi mediterranei, Francia compresa: dall’introduzione dell’euro, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto del 20-30 per cento più velocemente nei paesi deboli, rispetto alla Germania. Come si recuperano quei 20-30 punti? Se questo è il nodo, basta un solo numero per capire se la crisi europea va verso una soluzione oppure no. Quel numero è il dato sull’inflazione tedesca e, attualmente, non dice niente di buono. I prezzi, in Germania, sono aumentati nell’ultimo anno dell’1,8 per cento, più o meno la media dell’area euro (1,7 per cento). E, così, non si va da nessuna parte.
La competitività si misura in molti modi e ha diverse facce. La più nota e la più semplice è la competitività di prezzi e salari. Per riguadagnare competitività rispetto alla Germania, un paese debole deve ridurre prezzi e salari rispetto a quelli tedeschi. Il problema è il tempo. La Grecia, nell’ultimo anno, ha recuperato due punti rispetto alla Germania, grazie ad una deflazione dello 0,2 per cento. A questo ritmo, ci metterebbe dieci anni. Ma solo per arrivare a questo risultato, Atene ha dovuto rassegnarsi ad una stretta sociale selvaggia, che ha portato vasti strati della popolazione sull’orlo della fame. Impensabile che la situazione possa protrarsi per dieci anni. Anche il Portogallo, nonostante una severissima austerità, ha recuperato solo un punto. L’Italia è in profonda recessione, ma il recupero è pari a zero: l’inflazione è uguale a quella tedesca.
E’ il vicolo cieco in cui ci si caccia quando si pretende che l’aggiustamento avvenga tutto da una parte sola. O, se preferite, quando l’austerità si applica, indiscriminatamente, a tutti. Se la Germania applicasse una politica di espansione della domanda, a contrappeso della austerità imposta ai paesi deboli, lasciando lievitare prezzi e salari verrebbe incontro a metà strada alla periferia europea in crisi e il recupero di competitività sarebbe assai più rapido. Per farlo, non ha bisogno di violare nessun tabù. L’unico dogma, in materia di inflazione, è che i prezzi, in Europa, non devono crescere più del 2 per cento. Se in Francia, in Portogallo, in Grecia, in Irlanda aumentano dell’1 per cento, o anche meno, devono aumentare più del 2 per cento in Germania.
Quante possibilità ci sono che la Germania imbocchi questa strada? Oggi, praticamente nessuna. Il governo Merkel segue, anzi, nonostante gli inviti anche del Fondo monetario, la strada opposta, applicando per primo rigore e austerità. I traguardi di pareggio e di cautela sono stati finanche anticipati. A settembre ci sono le elezioni, ma l’opposizione socialdemocratica, per ora, non sembra voler cavalcare la tigre dell’espansione, anche se il suo elettorato è quello che più avrebbe da guadagnare da una limatura dei profitti delle aziende e un recupero dei salari. Paradossalmente, potrebbe essere proprio la crisi a cambiare le carte in tavola. La potente macchina da esportazione tedesca si confronta con una ripresa pallida in America e in Cina e con la crisi europea. Il suo portabandiera, il settore auto, è il primo ad avvertirne l’impatto, come mostrano i dati deludenti di Mercedes e Volkswagen, che nel primo trimestre del 2013 hanno visto prosciugarsi i profitti. Alla fine, potrebbero porsi il problema di vendere, anzitutto, ai tedeschi.
Maurizio Ricci