Gian Primo Cella – Professore di sociologia economica
E’ questo un tema di cui non si vorrebbe più parlare, ma la tragicità dei recenti avvenimenti, nonché la inconsistenza, o la malevolenza, di alcuni fra i tanti commenti impongono delle riflessioni. Il tema, tanto per dirla in termini molto netti, è quello dei rapporti fra sindacati e terrorismo. Le parole su un tema come questo vanno misurate con cura. Dirò subito che con il termine rapporti intendo riferirmi a qualcosa di oggettivo, che non comporta assolutamente alcun elemento necessario di volontarietà. In quanto al terrorismo, è ovvio che intendo rifarmi solo a quella componente dell’azione terrorista che si suppone provenire in qualche modo da ambienti vicini al movimento sindacale, o che si ritiene possa ritrovare elementi di consenso, in modo più o meno implicito, in qualche luogo dei sindacati stessi. E’ dunque solo una componente del fenomeno terroristico, anche se di peso molto rilevante nel caso italiano. Questo tipo di terrorismo può essere a sua volta utilizzato o manipolato da iniziative, di tipo più o meno occulto, rivolte a ben altri fini, ma su queste possibilità non mi pronuncio, sia per una assoluta incompetenza, sia per una resistenza intellettuale a misurarmi con argomenti di tipo finalistico (del tipo a chi giova?) prima di essermi soffermato sulle finalità esplicite e sulle motivazioni attribuibili con una dose accettabile di plausibilità.
Veniamo alle origini nel caso italiano, collocabili negli anni del grande ciclo di lotte 1968-73. In questi anni abbiamo registrato una vasta gamma di degenerazioni incontrollate e inattese dell’estremismo proveniente dagli ambienti delle lotte operaie, frutto sia delle asprezze del conflitto, sia del sovraccarico ideologico rivelatosi talvolta necessario per fornire incentivi di identità ai gruppi in lotta non solo verso le controparti, ma anche all’interno delle organizzazioni sindacali tradizionali per imporne la trasformazione delle logiche e delle pratiche di rappresentanza in risposta a mutamenti profondi nella composizione della forza lavoro. L’estremismo è un effetto collaterale, e perverso, che spesso si verifica durante e dopo l’esplosione delle grandi lotte sindacali. In Italia il prezzo è stato sicuramente troppo alto, ma qualcosa di simile lo si ritrova in quegli anni di eccezionale mobilitazione anche in altri ambienti con forti tradizioni di organizzazioni di rappresentanza sindacale radicate nella classe operaia, dalla Germania all’Argentina. Così come lo si ritrova in altri momenti, ad esempio nelle lotte sindacali americane, dove la violenza dei conflitti, fra il ricorso agli agenti della Pinkerton e i contatti coperti con il gangsterismo, segna i decenni fra le due guerre e anche lo straordinario periodo rooseveltiano.
Nel caso italiano allora, ma anche in altri periodi della storia, si inizia ad apprezzare, almeno da quanti hanno a cuore il funzionamento delle democrazie pluraliste, il ruolo prezioso svolto dai dirigenti sindacali animati da qualcosa vicino alla weberiana etica della responsabilità. Ma tale etica, nei grandi momenti di effervescenza collettiva, talvolta fa difetto. In questi momenti possono trovare spazio gruppi, sia pure limitati, che dall’esterno ma anche dall’interno dei sindacati possono ritenere possibile giocare ruoli violenti, per accelerare la caduta delle controparti o per impedire la stipula di accordi che sacrifichino troppo delle istanze rivendicative, specie di quelle che oggettivamente non risultano negoziabili attraverso gli strumenti contrattuali a disposizione dei sindacati.
In questi casi gli obiettivi del terrorismo, in una cupa escalation come nell’Italia degli anni settanta, riguardano sempre il conflitto così come si esplica in concrete situazioni di lavoro. Il terrorista, per così dire, è in grado di cogliere le conseguenze del suo attentato il giorno dopo la sua esecuzione, sui volti e nelle parole dei soggetti, talvolta compagni di lavoro, a supposto vantaggio dei quali è stato compiuto. Le persecuzioni, le offese gravi, i rapimenti, le uccisioni si rivolgono nei confronti di dirigenti aziendali a ogni livello. Talvolta, come in Germania, verso i massimi rappresentanti delle organizzazioni imprenditoriali. In Italia questa fase giunge al suo culmine con l’assassinio del sindacalista Rossa della Cgil, maturato fra le componenti più incontrollabili dell’estremismo in una delle capitali della vecchia classe operaia, la Genova delle tradizionali industrie di elettromeccanica pesante. E’ l’estremismo di stampo leninista ad alimentare questi gruppi, ma non mancano anche apporti provenienti da altre insospettabili tradizioni, deformate fino all’eccesso, come quelle della militanza di origine religiosa. Qualcosa di simile si verifica, sia pure con ben più plausibili motivazioni, anche in non pochi ambienti dell’America Latina, devastati da conflitti aggravati dalle tensioni e dalle strategie della guerra fredda.
La svolta nella logica e nella pratica del terrorismo si realizza nel 1983 con l’attentato a Gino Giugni, che riuscì per un soffio a sopravvivere, e continua tragicamente con le uccisioni di Ezio Tarantelli (1985), di Massimo D’Antona (1999), di Marco Biagi (2002). Cosa hanno in comune tutte queste figure? Di essere degli eccellenti esperti di problemi del lavoro, di essere impegnati (sia pure con stili diversi) durante fasi di innovazione in ruoli di consulenza operativa sui temi del lavoro e delle relazioni industriali, di essere dei protagonisti del dialogo sociale, più che del conflitto. E’ finito ogni collegamento con il vivo del conflitto industriale, e con le sue specifiche localizzazioni. Alcuni attentati avvengono in momenti di alta conflittualità sociale e di divisione fra le grandi centrali confederali, altri in momenti di relativa tregua e di unità. Variano anche le composizioni delle compagini di Governo. Invece tutti gli esperti sono coinvolti in processi di innovazione di regole istituzionali (di natura legislativa o contrattuale). In ordine: l’avvio degli accordi di concertazione per la lotta all’inflazione, la revisione del meccanismo di scala mobile, nuove regole sul mercato del lavoro e sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali, interventi sui meccanismi di flessibilità del lavoro (in entrata e in uscita) e nuovi assetti del dialogo sociale. Tutti gli esperti coinvolti negli attentati hanno inoltre in comune un altro elemento: la dichiarata ricerca dell’apporto costruttivo e collaborativo dei sindacati confederali. Solo attraverso questo apporto avrebbero potuto sperare nell’attivazione delle loro proposte o nel proseguimento delle linee di innovazione già intraprese.
L’ispirazione e i riferimenti ideologici di questa seconda fase terroristica possono essere gli stessi della prima, ma è evidente in essa la autoreferenzialità. Non è più necessaria la ricerca, se non del coinvolgimento, almeno del consenso dei gruppi più combattivi e più militanti. Non esiste più la possibilità di guardare (sia pure in modo nascosto) il volto di un compagno di lavoro il giorno dopo l’attentato. Il passaggio del terrorismo a una occulta area di criminalità politica è compiuto. Verso questa area la strategia principe non può che essere quella dell’intelligence e delle indagini di polizia.
Certo, è sempre altamente auspicabile il massimo auto-controllo da parte delle dirigenze sindacali, e l’adozione da parte loro dell’etica della responsabilità. Un invito che andrebbe comunque esteso anche alle altri parti, istituzionali e imprenditoriali. Ma al sindacalismo confederale non può essere addebitato nulla, se non da osservatori disponibili anche a prendere in considerazione l’adozione da parte delle confederazioni di obiettivi di auto-distruzione.
Forse nella vasta e composita galassia del sindacalismo autonomo, o cosiddetto di base, qualche osservatore potrebbe ritrovare luoghi o gruppi di margine, in specie non più nei tradizionali settori industriali, sensibili a qualche richiamo, se non di simpatia o di connivenza, almeno di indifferenza verso l’azione terrorista. Qualche segnale di questo tipo è apparso nei giorni scorsi, ma non penso a nulla di veramente radicato. Nulla che possa fare pensare a delle rassomiglianze con la prima fase del terrorismo come degenerazione estrema della conflittualità operaia. Le occasioni per il ritorno di qualcosa di simile non sono mancate negli scorsi mesi, come ad esempio in conflitti anche molto aspri nei settori dei servizi. Ma le degenerazioni registrate sono semmai ascrivibili ad intemperanze nelle manifestazioni, o nelle tecniche di lotta, ben distanti dunque dal fenomeno terroristico.
Che non si sprechino dunque parole, attribuzioni, imputazioni, accuse, solo in parte giustificate dalle passioni politiche o dai sentimenti di sdegno e di cordoglio. L’etica della responsabilità dovrebbe animare non solo le parole e le azioni dei rappresentanti sindacali e imprenditoriali, nonché delle istituzioni di Governo, ma anche le analisi degli osservatori professionali e degli studiosi. Le indagini della magistratura e delle forze dell’ordine potrebbero esserne favorite. La speranza di strappare i temi del lavoro e delle relazioni industriali italiane da questa tragica condanna potrebbe cominciare a rinascere.