Gli storici del futuro lo chiameranno “l’errore di Marchionne”: in fondo, se la Fiat, tre anni fa, si è arresa, accettando di farsi, in buona sostanza, assorbire dalla Peugeot nella Stellantis, è, in larga misura, perché il demiurgo della Fiat-Chrysler all’auto elettrica non aveva creduto. Così, alla fine, la casa torinese è finita in mano a chi, un po’ di auto elettrica, almeno l’aveva. Ma, in realtà, anche Tavares alla stessa Peugeot, De Meo alla Renault, i boss della Volkswagen, della Mercedes, della Bmw sono appena un po’ meno colpevoli del peccato di scetticismo di Marchionne. In economia, è un caso di scuola: il gigante che domina un mercato, ipnotizzato dai propri stessi profitti, non coglie l’arrivo travolgente del nuovo, finchè non è troppo tardi. Nel giro di cinque anni, le auto elettriche, sul mercato europeo, sono passate dallo zero virgola al 14 per cento delle vendite. Due milioni nel 2023, destinati a diventare almeno 9 milioni nel 2030. Anzi, probabilmente di più, dato che, dal 2025, entreranno in vigore norme ancora più severe sulle emissioni delle macchine.
Il problema è che chi costruirà e venderà queste macchine non è affatto scontato. Metà delle auto elettriche oggi vendute nel mondo non è Volkswagen, Mercedes, Stellantis, Renault, Bmw e neanche Ford o General Motors. Le fabbricano aziende (soprattutto cinesi) che, fino a pochi anni fa, neanche esistevano. E offrono un altro caso classico dell’economia: perché vendere tante macchine vuol dire fabbricare tante macchine e, dunque, realizzare consistenti economie di scala, che consentono di abbattere i costi, presentando ai giganti europei un muro sempre più insormontabile. Secondo una grande società di consulenza come McKinsey, infatti, il costo di una macchina elettrica cinese, grazie a queste economie di scala, è oggi del 20-30 per cento inferiore al costo di un’auto europea di pari categoria.
E’ la dimostrazione che, a volte, il palazzo della politica vede più lontano del mondo degli affari. In nome della lotta al riscaldamento globale, infatti, le istituzioni europee hanno spinto a fondo sul contenimento delle emissioni e, quindi, sulle nuove tecnologie. Il problema è che l’industria europea è stata molto lenta a capire. Ne risulta il paradosso per cui, come già avvenuto per i pannelli solari, la politica europea finisce per danneggiare i pachidermici protagonisti europei e per favorire i più agili concorrenti cinesi.
Quanto la situazione sia seria lo dimostrano mosse che sanno di disperazione per un settore industriale abituato ad una concorrenza feroce (solo quest’anno, le case europee metteranno sul mercato 35 nuovi modelli di auto elettrica). Ha cominciato il boss della Renault, Luca De Meo, evocando l’esempio forse più compiuto e più vistoso di politica industriale europea, ovvero la creazione della joint venture dell’Airbus, che, grazie alla cooperazione e alla collaborazione di aziende di vari paesi (l’Italia non riuscì allora a salire a bordo) è arrivata a dare all’Europa una posizione di preminenza sul mercato dei grandi aerei di linea. Invece di essere sbeffeggiato, De Meo ha incontrato consenso e interesse da parte di altri giganti, come Volkswagen e Stellantis.
Che forma potrebbe assumere questa inedita collaborazione? Senza arrivare alla joint venture stile Airbus, cioè la macchina elettrica europea, si va da una condivisione di progetti di ricerca e sviluppo (roba grossa: solo Volkswagen si prepara ad investire 120 miliardi di euro sulle batterie) ad una compartecipazione sulle catene di fornitura fino alla creazione di una unica piattaforma (una strada in vari modi già percorsa nel settore) come base per l’assemblaggio delle vetture.
Non tutti pensano che sia una mossa risolutiva. Ancora McKinsey ritiene che, anche con questa collaborazione, l’industria europea possa recuperare non più di due terzi del gap di costi con le aziende cinesi. Tuttavia, il mondo delle nuove tecnologie cambia in fretta e, a volte, offre insperati spazi per scavalcare i concorrenti. Potrebbe avvenire con le nuove batterie che stanno arrivando per le auto. Batterie da 800 volt, anzichè i 400 volt oggi in commercio, che vuol dire dimezzare i tempi di ricarica (dieci minuti invece di venti all’autogrill sono giusto il tempo di un caffè). Peccato che, su queste nuove batterie, i più avanti, a questo momento, siano i coreani della Hyundai.
Maurizio Ricci