In occasione della ricorrenza della tragica scomparsa di Massimo D’Antona (20 maggio 1999), vorrei proporre una breve riflessione sull’attualità del suo metodo scientifico, per quello che egli avrebbe potuto ancora dare all’evoluzione del diritto e della legislazione del lavoro.
D’Antona (che è stato mio maestro, all’Università di Catania, e indimenticabile amico) apparteneva a quella generazione di giuristi che aveva posto al centro del loro impegno i valori legati all’interesse collettivo, come scelta culturale alternativa rispetto ad un modello di società basata solo sull’individualismo e sul mercato. L’interesse collettivo, saldamente legato alla centralità della persona del lavoratore, nella convinzione che questa debba essere al centro di ogni progetto culturale e di riforma.
Una delle sue più ricorrenti citazioni – “ci sono dei diritti che attengono al lavoratore, non come parte di un contratto, ma in quanto persona” – è emblematica della sua impostazione di studioso e di uomo delle istituzioni: pur nei moderni sistemi di produzione di massa, il compito del giurista deve essere quello di adoperarsi perché l’organizzazione del lavoro sia sempre a misura della persona, delle sue capacità, delle sue inclinazioni. Lavorare non è solo produrre ricchezza, ma contribuire anche alla creazione del mondo.
Proprio al valore della persona del lavoratore D’Antona dedicò un’ampia riflessione al tema della reintegrazione nel posto di lavoro, a seguito di licenziamento illegittimo. Il nucleo essenziale di questa riflessione e la sua attualità, si ritrovano nell’assunto che la reintegrazione non deve essere un tabù intoccabile, ma, tuttavia, a questa bisogna riconoscere un indiscutibile valore etico di garanzia dei diritti fondamentali del cittadino lavoratore, verso possibili arbitri del suo datore di lavoro. Essa, pertanto, può essere rivisitata, in relazione alle mutate situazioni economico-sociali, ma una sua totale cancellazione sarebbe “una sconfitta per la nostra civiltà giuridica”. Tale diritto, infatti, non riguarda le dinamiche del mercato del lavoro, ma la dignità della persona nei luoghi di lavoro.
Un’impostazione che D’Antona proiettava anche nei suoi studi sullo sviluppo del diritto del lavoro nell’Unione europea, per ricostruire le tutele dei lavoratori come diritti universali, indipendentemente dai vari ordinamenti giuridici. Il sottotitolo di una raccolta di suoi scritti pubblicata dopo la sua scomparsa, In difesa della Costituzione, indica, come tutto il contributo teorico di D’Antona alla evoluzione/ridefinizione del diritto del lavoro, abbia sempre avuto, come punto di partenza e di approdo, la Costituzione. La sua norma di apertura, che proprio sul lavoro pone le basi per il pieno sviluppo della persona umana e per il progresso sociale ed economico del Paese, era indicata da D’Antona come naturale contrappeso ad un uso incontrollato della flessibilità, qualora questa si riveli non una risorsa per la creazione di opportunità di impiego, ma solamente una serie infinita di tipologie contrattuali, destinate a generare precarietà.
Oltre che con la sua produzione scientifica, sorprendente per intensità e originalità, D’Antona ha dato un grande contributo, in qualità di tecnico al servizio delle istituzioni, alle politiche legislative del lavoro, negli anni ’90, prima come Sottosegretario nel Ministero dei Trasporti, durante il Governo Dini e, successivamente, come consigliere del Ministro del lavoro, nel Governo D’Alema.
Siamo in una nuova stagione del diritto del lavoro, che deve confrontarsi con la crisi economica e la contrazione dell’occupazione.
Anche l’azione sindacale, dopo le spinte fortemente rivendicative che avevano contrassegnato le lotte operaie alla fine degli anni ’60 e larga parte dei ’70, non è più rivolta solamente agli interessi particolari della categoria, ma anche a quelli più generali della collettività. È il periodo della concertazione, che vede le parti sociali, con la mediazione del Governo, trovare grandi intese su costo del lavoro, regole del conflitto, misure anti-inflazione, etc..
Da tale esperienza deriveranno importanti leggi concertate, emanate con un ampio consenso delle parti sociali (tra le quali quella sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, n.146/1990; o sulla cassa integrazione guadagni e il sistema di mobilità, n.223/1991), alle quali D’Antona diede un contributo fondamentale, dopo che si era adoperato, come studioso, alla ricostruzione teorica del c.d. modello “neoistituzionale”, nel quale lo Stato delega alle parti sociali la regolazione di talune materie. Un modello che riconosce alla contrattazione collettiva un potere normativo e che presuppone, pertanto, l’individuazione di un sindacato ben strutturato, portatore di interessi generali: in pratica un sindacato autenticamente rappresentativo.
All’esigenza di individuare criteri sulla rappresentatività sindacale D’Antona dedicò gran parte delle sue energie, convinto che (come in un suggestivo saggio del 1999, sull’art.39 della Costituzione, purtroppo il suo ultimo scritto), la verifica della rappresentatività sindacale fosse funzionale al superamento delle limitazioni alla contrattazione collettiva, derivanti dalla mancata, completa, attuazione della norma costituzionale. Esigenza tradotta, poi, in quella riforma del pubblico impiego, realizzata dal 1997, con la privatizzazione del rapporto di lavoro, che lo vide protagonista, insieme all’allora Ministro Franco Bassanini.
Anche con riferimento allo sciopero nei servizi pubblici essenziali, in particolare nel settore dei trasporti, D’Antona si prodigò nel preciso preciso intento di responsabilizzare le organizzazioni sindacali più rappresentative a porre in essere regole autonome per contemperarne lo sciopero con i diritti dei cittadini utenti dei servizi. Fondamentale il suo contributo alla riforma della L.146/1990, intervenuta con la L.83/2000, profuso insieme ad un altro grande giurista, protagonista della politica del lavoro del nostro Paese, Gino Giugni, già Ministro del lavoro e, all’epoca, Presidente della Commissione di garanzia sullo sciopero, del quale D’Antona, per formazione e impostazione metodologica, veniva generalmente indicato come suo erede.
Credo, infine, che il destino della concertazione nel nostro Paese sia rimasto, in qualche modo, legato a quello di D’Antona. Indubbiamente, quando venne colpito, egli rappresentava l’uomo delle istituzioni su cui il Governo puntava per un possibile rilancio dell’esperienza di concertazione con le parti sociali. Qui si può ritrovare la lucida follia dei suoi assassini: chi conosceva bene il momento di criticità del dialogo sociale, comprese subito quanto fosse strategica, nel disegno criminoso dei terroristi, l’individuazione di quel bersaglio. Con l’eliminazione di D’Antona e della sua intelligente capacità di mediazione, di costruire idealmente ponti tra posizioni contrapposte, veniva, infatti, affossata (senza che ci sia più stata una ripresa) qualsiasi prospettiva di rilancio della concertazione sociale.
E in effetti è con i ponti, e non con i muri, che si costruisce la storia dell’umanità.
di Giovanni Pino