Luca Maria Colonna, segretario nazionale Uilm
Sicuramente è l’argomento più importante dal punto di vista mediatico e simbolico: lo è diventato grazie all’accanimento ideologico di alcuni commentatori, frustrati e quindi ulteriormente inviperiti dalla scelta del Governo di non intervenire sulle pensioni di anzianità, ma nel disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei ministri del 15 novembre, non è soltanto la modifica dell’articolo 18 della legge 300/70 a destare preoccupazione e contrarietà nel fronte sindacale.
Certamente la prospettata esclusione, per quanto sperimentale – definizione che però dovrebbe preoccupare moltissimo, visto, per esempio, quanto è avvenuto per gli esami di maturità – dell’applicazione della reintegrazione del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo nel proprio rapporto di lavoro è giustamente contestata dal sindacato nel suo insieme.
Questa norma è stata sottoposta a referendum in tempi recenti e per quanto non si sia raggiunto il quorum per la validità legale di questa consultazione, l’esito referendario ha chiarito senza dubbi la volontà degli italiani: questa norma deve rimanere così com’è. E’ questo un dato che le forze politiche dovrebbero valutare attentamente, con maggiore attenzione di quella che dedicano ai sondaggi con campioni che superano di poco il migliaio di intervistati.
Nel merito poi, l’ambito dell’esclusione e, in particolare, per quello che la prevede nel caso di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato rischia di essere, da un lato, così ampio da diventare una generalizzazione della norma, in quanto l’accesso al lavoro per i giovani ormai avviene attraverso forme contrattuali flessibili , perpetuando e prolungando la precarietà e quindi una riduzione di diritti di queste persone anche dopo la trasformazione del rapporto in tempo indeterminato. Dall’altro mi fa pensare, con un po’ di malizia, che si sta tentando di disattivare quanto previsto dal recente decreto sui contratti a tempo determinato circa la necessità di un reale motivo (tecnico, organizzativo o produttivo) per l’apposizione di un termine al rapporto di lavoro, norma che, come Uil, abbiamo voluto fortemente, anche a costo di una frattura con la Cgil, e che ci renderà possibile eliminare o almeno ridurre gli abusi che le imprese fanno del contratto a tempo determinato.
Scrivevo all’inizio che non è solo il tema delle modifiche all’articolo 18 che ci preoccupa e ci trova contrari. Ci sono, per la verità, una serie di indicazioni in linea generale condivisibili, anche se da verificare nel merito, come quelle sul collocamento, sul riordino degli ammortizzatori sociali – tema su cui pesano i ritardi del precedente Governo – , sulla certificazione del rapporto di lavoro e sulla possibilità di verificare forme contrattuali che possano coniugare flessibilità nell’utilizzo della manodopera con la tutela e la stabilizzazione del rapporto di lavoro.
Un esempio di come ciò possa essere realizzato può venire riproponendo l’esperimento del “job on call” che abbiamo tentato alla Zanussi e che – ritengo – per la mancata comprensione delle tutele che questo istituto offriva, è stato precipitosamente rifiutato dai lavoratori: il contratto a chiamata , così come definito in quell’ipotesi di accordo, era un contratto a tempo indeterminato, prevedeva interventi formativi e, soprattutto, il diritto del lavoratore a chiamata di trasformare il proprio rapporto in uno a tempo pieno dopo tre anni e in caso di nuove assunzioni. Per il sindacalista la domanda dovrebbe essere: queste tutele sono peggiori di quelle che offre il lavoro interinale?
Due punti della delega, in particolare, mi preoccupano, per gli effetti in sé e perché li ritengo sintomatici di due tendenze assolutamente non condivisibili: si tratta di quanto si intravede al punto d) dell’articolo 7 (riforma del part time) e della possibilità del giudizio secondo equità degli arbitri (punto d), articolo 12).
Sul part time, la norma, così vasta e generica, potrebbe consentire anche di abolire il diritto del lavoratore a part time a richiedere di trasformare il rapporto in lavoro a tempo pieno in caso di nuove assunzioni, richiesta che mi risulta essere stata avanzata da alcuni rappresentanti datoriali nelle discussioni al ministero del Lavoro. Acconsentire a tale richiesta, predisporre la delega in modo da poterlo fare, significa, da un lato, disincentivare il part time, almeno per tutti coloro che hanno un minimo di possibilità di impieghi alternativi, e, dall’altro, aumentare semplicemente il potere discrezionale del datore e quindi aumentare la possibilità di vessazioni nei confronti del dipendente a part time. Non è certo riducendo i diritti che si motivano le risorse umane.
Sull’arbitrato e sulla possibilità di pronunciarsi secondo equità, si riscontra altresì una questione di merito: se facciamo contratti tra noi e le associazioni datoriali è perché siano applicati; potremmo scriverli meglio e con più chiarezza, ma una volta scritti vanno applicati non possono essere disapplicati da un arbitro e lo stesso deve valere per le leggi approvate dal Parlamento. Ma la pressione che la Confindustria esercita da tempo sulla questione dell’arbitrato secondo equità, mi lascia, oltre che contrario, perplesso: infatti, o è divenuta una questione ideologica, una bandiera fondata sull’italica tendenza a prendersela con l’arbitro quando si perde, o sperano sbagliando che gli arbitri siano più sensibili dei giudici alle ragioni dell’impresa.
Questo a prescindere dal fatto che non mi risulta che i giudici siano così particolarmente e pregiudizialmente favorevoli ai dipendenti: si pensi all’ “invenzione” del comporto per sommatoria o a come, di fatto, la normativa sul diritto allo studio nel contratto dei metalmeccanici sia stata fortemente depotenziata dall’ intervento della magistratura. Ma non si capisce perché gli arbitri dovrebbero mostrare un atteggiamento maggiormente pro business . A meno che ma non lo credo neanche io pensino di poterli scegliere loro e da soli.
Vorrei concludere con una riflessione: la Uilm a luglio ha scelto di firmare senza la Fiom il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, proprio perché quella organizzazione ha assunto atteggiamenti di chiusura ideologica che di fatto impedivano il confronto; ho la sensazione che anche in Confindustria, in una parte di essa, vi sia un analogo, speculare atteggiamento. Questo non fa bene alle relazioni industriali, non è utile ai lavoratori né alle imprese, che devono essere messi in condizione di lavorare e produrre con la maggiore serenità possibile; e il contesto economico internazionale, purtroppo, è quello che è.