Il problema, uno dei problemi, forse il principale della nostra politica è la leadership. Non nel senso del leader, che ce ne sono pure troppi. Ma proprio della capacità di aggregare, di dirigere, di esprimere autorevolezza, insomma di esercitare quell’egemonia di cui parlava Antonio Gramsci un secolo fa. Se scorriamo uno a uno i nomi degli attuali leader dei partiti che rappresentano gli italiani in Parlamento ‑ lasciando fuori quindi il premier Mario Draghi e l’attuale presidente Sergio Mattarella – vediamo che non uno o una di loro ha quella marcia in più che possa convincere l’opinione pubblica e quindi vincere le grandi partite che ci attendono. Dall’elezione del prossimo Capo dello Stato alle elezioni regionali della prossima primavera, fino al voto politico che non si sa ancora quando ci sarà, ma non più tardi del 2023.
Da destra a sinistra, passando per il fantomatico centro o centrino che ancora non si forma, abbiamo Giorgia Meloni e Matteo Salvini che in testa hanno solo qualche slogan sovranista e populista, qualche battuta polemica rivolta a chi gli capita a tiro, e al massimo un paio di ideuzze buone per fare propaganda ma totalmente inapplicabili, del genere “meno tasse per tutti” di berlusconiana memoria. Un progetto per l’Italia del futuro, anche fosse un futuro di qualche anno e non di decenni, non si riesce nemmeno a intravvedere attraverso la nebbia demagogica che questi due personaggi spargono intorno a loro. Accompagnati dal sempre eterno Silvio Berlusconi, che seppur ridipinto con la vernice europeista e draghiana, che gli consente di presentarsi in pubblico come un politico serio e responsabile (facciamo finta di crederci), in realtà sta giocando la sua partita solo per un tornaconto personale. Riuscire a farsi eleggere al Quirinale o almeno (visto che si tratta di una missione impossibile), usare la sua candidatura per ripiazzarsi al centro della scena e dare le carte ai suoi due pseudo alleati di centrodestra. Per fare cosa non si sa, il suo obiettivo è solo quello di esistere nonostante tutto quello che ha fatto in passato e malgrado i suoi 85 anni e uno stato di salute non proprio florido, che gli consiglierebbero di farsi da parte. Ma tant’è, l’uomo non molla mai, piuttosto muore sul campo. Un progetto per l’Italia e una visione di quello che potrebbe essere il Paese, a destra non si vedono. Regna il piccolo calcolo, il tornaconto personale o elettorale, tanto che è arrivato addirittura a elogiare i Cinquestelle dei quali, pochi anni fa, aveva detto che al massimo avrebbero è potuto pulire i bagni di Mediaset. Non c’è leadership neanche in Berlusconi, solo mediocrità.
Che ritroviamo anche spostandoci verso sinistra, fermandoci per un attimo al centro. Un centro piccolo ma affollato di protagonisti, da Renzi a Calenda, da Giovanni Toti a Luigi Brugnaro, fino a quei dirigenti di Forza Italia che mal sopportano il sovranismo di Salvini e Meloni, Mara Carfagna, Maria Stella Gelmini, Renato Brunetta. I due che in questo spazio politico la fanno da padroni sono Matteo Renzi e Carlo Calenda. Nei sondaggi il primo ottiene il due virgola qualcosa per cento e il secondo il 3, sempre virgola qualcosa. Eppure si comportano come se fossero loro due i veri protagonisti della nostra vita politica, “quelli che” senza di noi non si va da nessuna parte (per citare Enzo Iannacci), e in parte hanno anche ragione visto che dispongono di una buona rendita parlamentare (Renzi grazie agli eletti col Pd), di un certo consenso popolare (Calenda alle elezioni comunali di Roma) e di una notevole aggressività che apre loro tutte le porte del circo mediatico (Calenda e Renzi). Non c’è dubbio che nell’anima si sentano entrambi leader, ma da qui a sostenere che riescano ad esercitare una leadership e soprattutto un’egemonia c’è un mare magnum, e non si sa se mai riusciranno mai a traversarlo. Al momento si tratta di due generali senza truppe.
Invece c’è chi le truppe ce le ha ma non sa bene come muoverle sul campo di battaglia, parliamo del segretario del Pd Enrico Letta e del Presidente del M5S Giuseppe Conte. Sono diversi tra loro, molto diversi: il primo è un professionista della politica, il secondo un dilettante. Il primo avrebbe anche un’idea in testa, quella di federare il centrosinistra in una sorta di nuovo Ulivo di prodiana memoria. Il secondo neanche sa se ce l’ha un’idea, si muove a tentoni, un giorno dice una cosa e il giorno dopo il suo contrario, prima Berlusconi era il male assoluto ora è diventato un leader che “ha fatto anche cose buone” (quali?). Voleva candidarsi a Roma nel collegio lasciato libero da Roberto Gualtieri ma è bastato che Calenda lo minacciasse di schierarsi contro di lui che si è subito tirato indietro. Il coraggio gli manca e nessuno glielo può dare. Oltre al fatto che Conte deve fare i conti (scusate il gioco di parole) con quel mondo magmatico che è il “suo” Movimento, nel quale regna sovrana la confusione. Situazione che non promette nulla di buono per il futuro dell’eventuale alleanza proposta da Letta.
Letta, appunto. Anche lui non sembra in grado di esercitare una vera leadership, sia all’interno del suo partito sia nell’opinione pubblica. Ha sbandato vistosamente nella partita della legge Zan (missione fallita), ha vinto le elezioni amministrative ma già non se le ricorda più nessuno, è primo nei sondaggi settimanali ma non sa bene che farsene di questi consensi virtuali visto che il suo “campo largo” si restringe ogni giorno di più. Ormai siamo a un campetto, composto dal Pd (e neanche tutto, visti i malumori degli ex renziani rimasti lì dentro), da quei Cinquestelle che stanno con Conte (ma quanti sono? E che idee hanno?) e dal piccolo partito guidato da Pierluigi Bersani e Roberto Speranza (quante truppe ha Leu?). Insomma, anche qui ci troviamo di fronte a un panorama essenzialmente politicista, un gioco di Palazzo che non appassiona quasi nessuno.
Forse Conte, Letta, Bersani e Speranza credono che presentandosi uniti (ma quanto e quando?) riusciranno a convincere una fetta degli italiani a votarli, ma sarebbe solo un voto “contro” il pericolo della destra e non certo un voto “per” la costruzione di un Paese diverso. Si dirà che evitare il trionfo di Salvini, Meloni e Berlusconi sarebbe un risultato da non sottovalutare. Ma il problema è che se ci si presenta al Paese con un’alleanza costruita a tavolino che non abbia un respiro lungo, quella visione del futuro di cui sopra, che non sia capace insomma di aggregare la maggioranza degli italiani intorno a un progetto valido per gli anni a venire, allora si tratterebbe di semplicemente di un fuoco fatuo. Magari le destre non riuscirebbero a stravincere e il centrosinistra eviterebbe di straperdere, ma il giorno dopo le elezioni ci troveremmo al punto di partenza.
Tutti, destra e sinistra, costretti a rifare un governo di unità nazionale, oppure a dover scendere a patti con i furbetti del centrino calendorenziano.
Riccardo Barenghi