Celebrare la giornata internazionale contro la violenza sulle donne significa allargare lo sguardo sulla condizione delle donne lavoratrici e non, non per loro volontà. Dal Report Istat del Novembre 2019 a proposito di conciliazione: in Italia l’ 11,1% è la percentuale di donne con almeno un figlio che non hanno mai lavorato per prendersi cura dei figli mentre è 3,7% la media europea. 38,3% la quota di occupate 18-64enni con figli sotto i 15 anni che hanno modificato aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia e per i padri con le stesse caratteristiche il valore è 11,9%.In Italia i tassi di occupazione più bassi si registrano tra le madri di bambini in età prescolare: 53% per le donne con figli di 0-2 anni e 55,7% per quelle con figli di 3-5 anni. Per il lavoro delle madri è cruciale il titolo di studio: è occupato oltre l’80% delle madri con la laurea contro poco più del 34% di quelle con titolo di studio pari o inferiore alla licenza media. Il divario con le donne senza figli scende da 21 punti percentuali se il titolo di studio è basso a 3,7 punti se pari o superiore alla laurea. Il problema dell’assistenza a familiari malati, disabili o anziani bisognosi di cure è reso sempre più rilevante dall’invecchiamento progressivo della popolazione che interessa il nostro Paese. Nella fascia di età tra i 45 e i 64 anni, in sei casi su dieci sono le donne (un milione 343 mila) ad avere questo tipo di responsabilità: tra queste una su due è occupata (49,7%). Dal confronto con le donne che non hanno questo tipo di responsabilità emerge un divario tra i tassi di occupazione pari a quasi 4 punti percentuali.
L’interruzione lavorativa per chi è occupato o la mancata partecipazione al mercato del lavoro per motivi legati alla cura dei figli riguardano quasi esclusivamente le donne. Nel 2018, tra le donne da 18 a 64 anni che hanno avuto figli nel corso della vita, le occupate o le ex occupate che hanno interrotto l’attività lavorativa per almeno un mese continuativo allo scopo di prendersi cura dei figli piccoli sono quasi il 50%.
Le difficoltà di conciliazione si fanno più evidenti in presenza di bambini molto piccoli, tra 0 e 5 anni. In particolare, tra le donne con bambini in età prescolare (quasi un milione e 300 mila) la quota di quelle che incontrano ostacoli supera il 39%, arrivando al 46,7% tra quelle che lavorano a tempo pieno. Le madri che lavorano part-time hanno problemi di conciliazione in misura minore (27,5% dei casi). Stessa situazione per i padri, ma con percentuali inferiori: fra loro dichiara di avere un problema di conciliazione il 37%, la quota scende al 25,4% tra quelli in part-time. Ha almeno un problema di conciliazione quasi il 42% di coloro che devono prendersi contemporaneamente cura di figli minori di 15 anni e di familiari non autosufficienti, e il 34,4% di coloro che hanno solo responsabilità di cura verso familiari disabili, malati o anziani.
Sono poi soprattutto le donne ad aver modificato qualche aspetto della propria attività lavorativa per meglio combinare il lavoro con le esigenze di cura dei figli: il 38,3% delle madri occupate, oltre un milione, ha dichiarato di aver apportato un cambiamento, contro poco più di mezzo milione di padri (11,9%). La quota è più alta tra le occupate residenti al Centro-nord (41%), tra quelle con due o più figli minori di 15 anni (41,2%) o con figli in età prescolare (42,6%). Tra le occupate a tempo parziale cinque su dieci hanno modificato almeno un aspetto del proprio lavoro, contro tre su dieci di chi ha un lavoro a tempo pieno. Anche tra le indipendenti quasi il 50% ha modificato un aspetto del lavoro, contro il 36,5% delle dipendenti. La quota è superiore alla media tra le donne che svolgono una professione qualificata o impiegatizia (42,1% e 43,5% rispettivamente) mentre è leggermente più bassa tra le addette al commercio e servizi (36,8%). Invece, tra le madri operaie oppure occupate in professioni non qualificate solo una su quattro ha modificato aspetti del proprio lavoro. Le principali modifiche riguardano la riduzione o il cambiamento dell’orario di lavoro. Tra le madri che hanno modificato aspetti del proprio lavoro più di sei su dieci hanno ridotto l’orario e circa due su dieci lo hanno cambiato senza ridurlo. La possibilità di modificare l’orario di inizio o di fine della giornata lavorativa e di assentarsi un’intera giornata per motivi familiari senza dover ricorrere a giornate di ferie, rappresentano importanti strumenti di conciliazione dei tempi vita-lavoro per i dipendenti con responsabilità di cura. Nel 2018 quasi il 39% dei dipendenti tra i 18 e i 64 anni (6 milioni e 862 mila) ha dichiarato di occuparsi di figli con meno di 15 anni o di prendersi regolarmente cura di parenti non autosufficienti di 15 anni e più; tra questi un terzo ha affermato di poter modificare l’orario di inizio o fine della giornata lavorativa ogni volta se ne presenti la necessità mentre il 28,4% solo in casi particolari.
Tra le madri di figli di 0-14 anni che dichiarano di non utilizzare i servizi circa il 15% ne avrebbe bisogno; tale quota sale al 23,2% per chi ha figli tra 0 e 5 anni, a 19,1% tra le non occupate e al 17,5% per le residenti nel Mezzogiorno. Le motivazioni per le quali non si ricorre all’utilizzo dei servizi sono perché troppo costosi (9,6%) oppure assenti o senza posti disponibili (4,4%). In particolare, lamentano costi troppo alti le madri con figli di 0-5 anni (15,6%) e le non occupate (12,9%), le quote più alte per la mancanza dei servizi sono sempre tra le madri di figli in età prescolare (6%) e le residenti nel Mezzogiorno (5,5%).
Dunque, il problema che ci si trova ancora ad affrontare è quello della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, tenendo conto della società contemporanea in cui è in aumento il numero delle donne che vuole lavorare, è in aumento la popolazione anziana e quindi bisognosa di cure e ci si trova anche di fronte al dato di fatto che molti uomini vogliono partecipare attivamente al lavoro di cura, ma non sono incoraggiati a farlo. Il problema accomuna le donne in tutta Europa però sono differenti tra vari Stati le politiche adottate e ne dimostra la varietà una ricerca comparata interessante compiuta da un gruppo di ricercatori di ANPAL. C’è una stretta connessione tra la distribuzione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e la sotto rappresentazione delle donne nell’occupazione. Le donne sono sempre più qualificate, superando persino gli uomini in termini di risultati scolastici in Europa, ma rimangono notevolmente sottorappresentate nel mondo del lavoro rispetto agli uomini. Nel 2017 il divario occupazionale di genere (età 20-64 anni) nell’UE ha raggiunto 11,5 punti percentuali.
Affrontare il problema della sotto rappresentazione delle donne nel mercato del lavoro, significa affrontare uno dei suoi principali fattori trainanti, che è sicuramente l’ineguale distribuzione delle responsabilità di cura tra donne e uomini. Altri fattori, come i disincentivi economici, compreso il divario di retribuzione tendono a rafforzare lo sbilanciamento dei carichi familiari a svantaggio della componente femminile. La genitorialità e le altre responsabilità di cura sembrano, quindi, essere una delle principali cause delle differenze occupazionali tra donne e uomini Le madri tendono ad essere meno rappresentate sul mercato del lavoro rispetto alle donne senza figli in tutti i livelli di istruzione e in tutti i tipi di famiglia. Il divario occupazionale di genere è particolarmente elevato per le donne poco qualificate e i genitori soli Nel complesso, la quota sproporzionata di responsabilità di cura assunta dalle donne ha come conseguenza che siano più assenti dal posto di lavoro, che prendano con maggior frequenza congedi più lunghi rispetto agli uomini, e siano costrette a ridurre l’orario di lavoro e in alcuni casi ad abbandonare del tutto il mercato del lavoro.
L’elaborazione di politiche di conciliazione vita lavoro può avere un forte impatto nel rafforzare o attenuare l’influenza del lavoro di cura sui risultati occupazionali delle donne. La concessione di congedi retribuiti tende ad aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro consentendo loro di prendersi cura di un figlio o di un parente a carico, rafforzando al tempo stesso il loro rientro nel mercato del lavoro subito dopo la nascita del bambino o diversi anni dopo. Norme minime sulla durata del congedo sono stabilite nelle direttive sul congedo di maternità e sul congedo parentale e, sebbene esistano requisiti minimi in termini di retribuzione per il congedo di maternità, non esistono requisiti per la retribuzione del congedo parentale. Sebbene le modalità di lavoro flessibili, in particolare il telelavoro e lo smart working, siano di più facile fruizione grazie alle moderne tecnologie e abbiano dimostrato di migliorare l’equilibrio globale lavoro-vita privata e la produttività, l’organizzazione del lavoro tende tuttavia a rimanere rigida, ancorata alla presenza sul posto di lavoro sulla base dell’orario di lavoro. Anche le difficoltà di accesso ai servizi formali di custodia dei bambini possono indurre molte donne a ridurre l’orario di lavoro o a ritirarsi dal mercato del lavoro. La disponibilità dei servizi di cura per l’infanzia è un problema, in quanto la domanda di questi servizi supera l’offerta. Inoltre, spesso esiste un ampio divario tra la fine del congedo di maternità/parentale e il momento in cui si rende disponibile per i genitori un posto in un asilo, costringendo i genitori a trovare, ove possibile, soluzioni informali per poter ritornare entrambi nel mercato del lavoro.
Le politiche di conciliazione tra lavoro e vita privata, se ben concepite e implementate in alcuni stati Europei possono sostenere l’indipendenza economica e il benessere di uomini e donne, in particolare consentendo una più equa ripartizione delle responsabilità di cura. Al contrario la loro mancanza conduce a rafforzare gli stereotipi di genere e ad incrementare le diseguaglianze tra uomini e donne tra lavoro retribuito e lavoro di cura non retribuito. Le politiche assunte da alcuni Paesi relative ai congedi – disposizioni relative al congedo di maternità, al congedo parentale, al congedo di paternità e al congedo per assistenza ai familiari malati o disabili – si concentrano sulla possibilità, per le persone con responsabilità di cura di rimanere nel mondo del lavoro. La loro logica in relazione alla partecipazione femminile al mondo del lavoro è quella di dare alle donne, che spesso si occupano di un’ampia parte dell’assistenza informale, l’opportunità di conciliare l’occupazione con il lavoro di assistenza.
L’impatto potenziale di questa tipologia di politiche dovrebbe essere quello di riequilibrare l’utilizzo dei congedi stessi tra uomini e donne. L’utilizzo dei congedi da parte dei padri è una questione difficile da affrontare, ma vitale sia dal punto di vista culturale che economico: uno dei temi di maggior attenzione è la retribuzione dei congedi che spesso non è sufficiente affinché il padre ne possa usufruire. Dove il lavoro flessibile è attuato come un diritto universale e viene ad essere percepito come reciprocamente vantaggioso per i dipendenti e i datori di lavoro si riesce ad offrire alle famiglie una maggiore flessibilità spostandosi verso un riequilibrio degli impegni lavorativi e familiari non limitati alle donne. Le misure di work life balance hanno dimostrato di essere dirimenti per rimuovere gli ostacoli all’occupazione femminile, anche se a livello europeo sono sempre le donne che usufruiscono in misura maggiore di queste politiche e gli uomini tendono a limitarne l’utilizzo, dei progressi si sono comunque avuti soprattutto nei paesi che hanno coniugato servizi di cura accessibili, convenienti e di qualità.
È noto, inoltre, che la partecipazione delle donne al mercato del lavoro risponde a (dis)incentivi fiscali, per cui la pressione fiscale relativamente più elevata può avere un impatto negativo sproporzionato sui risultati occupazionali. La stragrande maggioranza delle persone che percepisce un secondo reddito in coppia sono per lo più donne. L’introduzione, poi, di misure di flessibilità organizzativa significa introdurre un maggior bilanciamento nella ripartizione dei carichi di cura. L’assenza di queste politiche tende comunque a rafforzare gli stereotipi tradizionali per quanto riguarda i ruoli di genere sul lavoro e a casa e, di conseguenza, ad ostacolare un maggiore coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro. Un tasso di partecipazione femminile più elevato può aumentare la parità di genere, promuovere la crescita economica e contribuire a migliorare la sostenibilità dell’attuale stato sociale, soprattutto alla luce dell’invecchiamento della popolazione. È perciò necessario intervenire con politiche strutturali e innovative – e non disperdere energie e risorse una tantum per niente sistematiche – che seguano il cambiamento sia del mercato del lavoro che l’evolversi della struttura della famiglia.
Bisogna investire su una cultura che consideri la conciliazione vita lavoro non un mero affare femminile, perché è a questo livello che si giocano i diritti dei cittadini europei. Ciò nella consapevolezza che le esperienze qui analizzate mettono in evidenza che permangono sostanziali disuguaglianze di genere nel lavoro retribuito e non retribuito, anche in quei paesi in cui sono state adottate politiche per la famiglia estensive.
Alessandra Servidori