La lettura dell’editoriale di Massimo Mascini (“Il malessere del sindacato”) mi ha stimolato a scrivere la mia opinione su di un tema che ha fatto parte degli anni migliori della mia vita. Massimo ed io abbiamo conosciuto altre stagioni del sindacato sia pure da angoli di visuale diversi. Da giornalista di vaglia Mascini “seguiva” le vicende sindacali per conto di un grande quotidiano economico. Allora andava così: l’attività sindacale era giudicata meritevole di un interesse costante, se non addirittura quotidiano, da parte di professionisti d’antan, con esperienza, conoscenze, frequentazioni e collegamenti. Un po’ come avviene da decenni per i colleghi che si occupano di cronaca giudiziaria, i quali lavorano in simbiosi con le procure e ne diventano troppo spesso degli esecutori dei processi mediatici. I cronisti del “sindacale” come Mascini garantivano un’autonomia di giudizio, anche critico, che a volte mancava ai loro colleghi dei giornali di partito, benché alcuni di loro fossero dei monumenti viventi (penso soprattutto a Giorgio Lauzi dell’Avanti e a Bruno Ugolini dell’Unità) nella narrazione riguardante i sindacati e il lavoro. Scherzando io avevo definito il trio più autorevole dei miei tempi (quando ero un dirigente sindacale, magari di seconda fila) Vittoria Sivo di Repubblica, Marco Cianca del Corriere della Sera e Mascini per il Sole-24ore, come se fossero la “cupola” del giornalismo sindacale. Allora a questi amici – che seguivano puntualmente le iniziative dei sindacati ovunque si svolgessero – capitava anche di beccarsi, per le loro cronache, un titolo di apertura o almeno un occhiello in prima pagina. Oggi se si vogliono seguire le vicende delle organizzazioni sindacali e delle associazioni datoriali occorre leggere “Il Diario del Lavoro” che resta – meritoriamente – il più importante osservatorio su quel mondo, che stenta a far parlare di sé altrove. Tutto ciò premesso trovo che Massimo abbia rimediato ad un giudizio, in taluni passaggi, ingeneroso con le considerazioni che chiudono l’editoriale: “Paradossalmente è il sindacato che sta meglio, o meno peggio. Perché può contare sulla forza della grande rete dei suoi delegati, centinaia di migliaia di persone presenti in tutti i posti di lavoro, anche quelli più piccoli, e che restano a contatto con i lavoratori. Un esercito che ha retto negli anni”. Mascini riconosce (potrei dirlo anch’io) che non saprebbe declinare i nomi degli attuali componenti delle segreterie confederali, compresi quelli della stessa Cgil. Ma se si concentra a ricordare gli verrà in mente che anche nelle segreterie del passato, insieme ai grandi leader che sono passati alla storia, vi erano persone che non solo sono state dimenticate, ma che non “brillavano di luce propria” anche allora. Massimo non ha certo dimenticato (senza fare nomi) la crisi che attraversò la Cgil tra il 1986 e il 1988 nel periodo di transizione tra la segreteria di Luciano Lama e quella di Bruno Trentin. Ma voglio andare più indietro nella storia della Cgil, che è stata la mia organizzazione. Dopo i fatti di Ungheria del 1956 Di Vittorio, per le posizioni che assunse, non aveva un buon rapporto col Pci di Palmiro Togliatti. Il successore designato era Secondo Pessi, già membro della segreteria confederale, nobile figura di antifascista e di capo partigiano, che era arrivato al vertice della Cgil direttamente dalla direzione del partito in Liguria. Chiamato a svolgere una relazione ad un Congresso che doveva lanciarlo verso la segreteria generale si rivelò del tutto inadeguato a quel ruolo. E nel 1957, alla morte di Di Vittorio, fu Agostino Novella a succedergli. Mascini potrebbe dirmi (e io sarei d’accordo con lui) che comunque non vi sarebbe confronto tra i sindacalisti di allora e quelli di adesso. Ma nessuno può essere trascinato fuori dal suo contesto ed accusato di non essere un gigante in un mondo politico di nani; di non essere un’aquila e nemmeno un falco tra il gracchiare dei corvi. Certo, non ci sono più i Bruno Storti, i Luciano Lama, i Fernando Santi, i Pierre Carniti, i Giorgio Benvenuto, gli Agostino Marianetti e tanti altri come loro. Senza far torto a nessuno dove stanno gli Alcide De Gasperi, i Luigi Einaudi, i Palmiro Togliatti, i Pietro Nenni, i Bettino Craxi, gli Enrico Berlinguer, i Giulio Andreotti, gli Aldo Moro, i Guido Carli, gli Ugo La Malfa, i Giuseppe Saragat, i Riccardo Lombardi e tanti altri – ancora viventi e in buona salute – come Romano Prodi, Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Claudio Martelli, che – nel bene come nel male – sapevano quel che stavano facendo? Se Luigi Di Maio può essere ministro degli Esteri chi può trovare da ridire su Carmelo Barbagallo a lungo al vertice della Uil? In un paio di anni siamo riusciti a far interpretare ad un avvocato venuto dal nulla un ruolo di statura mondiale. I partiti al cui interno si formava la classe dirigente che noi, Massimo, abbiamo conosciuto, sono scomparsi o si sono liquefatti. Nel Pci i capi corrente (anche se questa parola non si poteva usare) erano Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. Oggi il leader di una delle cordate più importanti del Pd si chiama Luca Lotti. E se un ragazzotto senza arte né parte come Alessandro Di Battista rilascia una dichiarazione farlocca, le sue parole bizzarre finiscono come prima notizia nei tg della sera. E i talk show ne parlano per settimane. Credimi, Massimo, ha ragione il Candide di Voltaire quando dopo tante peripezie il protagonista si convince che si vive sempre nel migliore dei mondi possibili. È una considerazione che vale anche per il sindacato e i suoi dirigenti. Meglio uno, cento, mille Landini.
Giuliano Cazzola