In tempi di liceo Made in Italy e rilancio delle giovani professionalità sembra utile fare un passo indietro e analizzare un fenomeno pervasivo ma misconosciuto, propedeutico a tutte le analisi e le statistiche che riguardano il mercato del lavoro e le quote maschili e femminili impiegate: la segregazione formativa di genere.
In una scelta delicata come quella del percorso di studi di intraprendere, non solo universitario ma anche dell’istruzione superiore di secondo grado, sono molti i fattori che condizionano e indirizzano le studentesse e gli studenti. Quello che è importante mettere in evidenza è quanto queste scelte siano frutto di una risoluzione personale e quanto invece siano condizionate da fattori esogeni: famiglia, cultura, società. Perché è chiaro che l’essere umano è fortemente influenzato dal contesto sociale in cui è inserito ed è particolarmente interessante interpretare i meccanismi di pregiudizio e condizionamento che, catalogabili come fragilità strutturali, incidono sulle scelte personali.
Il nocciolo della questione risiede – ovviamente – nella disparità tra uomo e donna; una disparità che in ambito scolastico è piuttosto marcata sulla linea qualitativa rispetto a quella quantitativa. L’articolo 10 della Cedaw (Convention on the Elimination of all Forms of Discriminazione Against Women), documento risalente al 1979, sottolinea l’importanza dell’educazione per la lotta alle disparità di genere e invita perentoriamente tutti gli Stati a impegnarsi nella «eliminazione di ogni concezione stereotipata dei ruoli dell’uomo e della donna a tutti i livelli e di ogni forma di insegnamento, incoraggiando l’educazione mista e altri tipi di educazione che tendano a realizzare tale obiettivo e, in particolare, rivedendo i testi e i programmi scolastici e adattando i metodi pedagogici in conformità». A questo preziosissimo documento seguiranno altre importanti dichiarazioni d’intenti, come la Convezione di Pechino del 1995, il Vertice del Millennio del 2000 a New York e la quinta Conferenza Mondiale sulle donne , sempre a New York, del 2005. In particolare, durante il “Vertice del Millennio” erano stati fissati alcuni obiettivi da raggiungere entro il 2015, tra i quali «assicurare l’istruzione primaria per tutti e promuovere l’uguaglianza di genere e l’empowerment per le donne», considerati fondamentali per il progresso dell’umanità tutta. Ma, è sotto gli occhi di tutti, i principi sono stati disattesi – o quantomeno disattesi in una certa parte del mondo e mitigati nell’altra – e nel 2015, durante il ventennale della conferenza di Pechino, Phumzile Mlambo-Ngcuka, la sottosegretaria generale della Nazioni unite e direttrice esecutiva di UN Women rimbrottato la platea delle buone intenzioni: «Seppur negli evidenti passi in avanti compiuti nell’ultimo ventennio, ciò che non è ancora stato fatto è cambiare le attitudini che perpetuano una cultura della superiorità maschile e gli stereotipi che diminuiscono le donne».
Anche in Unione Europea le dichiarazioni non sono mancate, ma restano programmatiche e d’intenti, senza una concreta attuazione che non sia ridotta a numericchi da decreto e quote colorate. «I rigidi ruoli di genere – si legge nel Road Map della Commissione Europea relativa al periodo 2010-2015 – possono ostacolare le scelte individuali e limitare il potenziale di donne e uomini. Promuovendo ruoli di genere non discriminatori in tutti i campi di vita, come l’istruzione, la scelta della professione, l’occupazione e lo sport, si contribuisce perciò in modo essenziale alla parità di genere, che richiede il contributo, il sostegno e la partecipazione attiva degli uomini e politiche che affrontino anche le disuguaglianze che riguardano i maschi, bambini o adulti, come il livello di alfabetizzazione, l’abbandono scolastico e la salute sul lavoro». L’assunto promuove una lettura orizzontale dei ruoli di genere ed evidenzia, una volta per tutte, le gabbie culturali che determinano le diseguaglianze tra uomini e donne e costringono quest’ultime a riflettersi in immagini stereotipate, immutabili e per questo divenute invisibili. In buona sostanza, una prassi.
Sebbene dagli anni ’70 la tendenza sul grado di istruzione sia stata nettamente invertita e le donne laureate abbiano superato la quota degli uomini laureati (nel 2020 le ragazze di 20-24 anni diplomate o laureate sono a quota 83%, mentre per gli uomini si scende di 10 punti al 74%), non significa che “Il dominio maschile”, per citare il sociologo e antropologo francese Pierre Bordieu, sia stato del tutto scardinato. Se Bordieu, infatti, sosteneva che l’accesso delle donne all’istruzione secondaria e terziaria sarebbe stato il fattore determinante per il percorso di emancipazione delle donne e lo sfondamento del cosiddetto “soffitto di cristallo”, rompendo quindi una volta per tutte – come è accaduto – la segregazione formativa verticale -, tuttavia continua a persistere un altro tipo di segregazione, di tipo orizzontale: rimane una forte disparità nei percorsi di studi universitari scelti, con una sovra-rappresentanza delle donne nelle discipline umanistiche e una sotto-rappresentanza delle stesse nelle discipline STEM (con buona pace dei sovranisti linguistici: science, technology, engineering and math). E anche se negli ultimi anni si è assistito a un incremento del numero di studentesse iscritte alle facoltà STEM, in Italia la percentuale si attesta a un misero 19%, rispetto al 40,1% dei ragazzi (nonostante, repetita iuvant, la maggioranza dei laureati sia donna). Secondo i dati una una ricerca condotta da Ipsos per Save the Children relativa al 2021, le ragazze continuano a sentirsi inadatte alle materie scientifiche, nonostante il 54% delle intervistate siano incuriosite dalle scienze.
Tendenzialmente, quindi, le donne rivolgono i propri interessi a settori come la sanità, il welfare, le materie umanistiche e l’insegnamento. (In particolare per quest’ultimo settore, negli ultimi anni si è assistito al fenomeno della femminilizzazione della classe docente: secondo i dati Eurostat relativi all’anno scolastico 2020/2021, l’83,2% degli insegnanti di ruolo sono donne. Naturalmente, poi, la segregazione formativa si riflette sul profilo retributivo, ma questo fa parte di un passaggio successivo). Il gender equality index stilato annualmente da Eige propone una valutazione dei livelli di segregazione di genere in ambito educativo calcolata attraverso la comparazione tra i dati Eurostat sulla quota di studentesse e studenti di livello terziario iscritti in facoltà attinenti a educazione, salute, welfare, discipline artistiche e umanistiche. Quanto più il dato è basso tra i ragazzi e alto tra le ragazze, maggiore è la potenziale segregazione.
Ma perché questo fenomeno? Quali sono le radici, le ragioni, le cause che mettono in atto una così strisciante forma di discriminazione indotta? L’indice dei colpevoli, se di colpe vogliamo parlare, si perde e confonde con la storia stessa dell’uomo e della civiltà intesa come «forma particolare con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale d’un popolo sia in tutta la durata della sua esistenza sia in un particolare periodo della sua evoluzione storica – o anche la vita di un’età, di un’epoca» [Treccani]. Il problema, quindi, attiene alla rappresentazione del ruolo della donna, alle abitudini e tendenze a essa associate, a quella presunta naturalizzazione del ruolo di cura e accudimento che la induce – non costringe – al recinto della casa e della conservazione della specie. Modelli socialmente assegnati e accettati, stereotipi che condizionano i destini lavorativi, sociali e familiari. Le scienze, quindi, parrebbero non essere una questione per donne.
A incidere in maniera decisiva su questa tendenza ci sono i due principali agenti formativi per i giovani: scuola e famiglia. Ancora una volta interviene Bordieu a darci una mano: «Quando si interrogano delle adolescenti sulla loro esperienza scolastica, si rimane immancabilmente colpiti dal peso esercitato dagli incitamenti e dalle ingiunzioni, positive o negative, dei genitori, degli insegnanti (in particolare del personale addetto all’orientamento) o dei condiscepoli, sempre pronti a richiamarle in modo tacito o esplicito al destino che è loro assegnato dal principio di divisione tradizionale. Così, molte ragazze osservano che i professori delle materie scientifiche sollecitano e incoraggiano i maschi più delle femmine e che i genitori le sconsigliano, nel loro interesse, di affrontare certe carriere considerate maschili» [Il dominio maschile]. In particolare, nella scuola esistono due tipi di curricula: uno visibile, identico per maschi e femmine, e un altro invisibile, in cui agiscono in sinergia messaggi, valori e idee che contrastano con gli obiettivi educativi di neutralità propri delle mura scolastiche. Vengono così veicolate immagini di studenti e studentesse, di uomini e donne, che afferiscono a una sfera alinea da quella del sapere e invece relativa alle aspettative della società, che influenzano fortemente l’immagine di sé stessi nel presente e nel futuro (rispetto alle rappresentazioni professionali e ai ruoli sociali).
Nella psicologia comportamentista si parla di “rinforzo” come conseguenza che, se applicata al comportamento di un organismo, rafforzerà il suo comportamento futuro ogni volta che esso è preceduto da uno specifico stimolo antecedente. Quindi, se alle ragazze viene suggerito di approfondire una presunta inclinazione naturale e sono proprio scuola e famiglia a incentivare questa “non scelta”, c’è da meravigliarsi dinanzi a questi “luoghi meno comuni e più feroci” in un’epoca di urgenze su tutti i fronti dei diritti. Anche questi, in qualche modo, sono diritti negati, e viene da pensare che ci sia poco di autentico in questa schiera di donne concentrate solo in alcuni settori della conoscenza e della produzione, materiale e immateriale, che possiamo leggere infine come una sorta di autosegregazione.
Elettra Raffaela Melucci