Prima della fermata di agosto il paese era preoccupato. Si mischiava assieme il dispiacere di vedere allontanato un premier che stava funzionando, soprattutto pesava la prospettiva di vivere una campagna elettorale sotto l’ombrellone mentre le difficoltà materiali crescevano paurosamente. Non era facile trovare la serenità. Adesso però la situazione è peggiorata. Il paese ora è proprio impaurito. E’ arrivata la nuova variante del Covid, che ancora non si è diffusa, ma si teme che ciò accada, così come è avvenuto negli anni passati non appena spariva il caldo. Intanto è salita l’inflazione, che già la faceva da padrona, ma adesso punta decisa verso le due cifre e questo non può non provocare timori.
Noi la conosciamo bene la febbre dell’inflazione, l’abbiamo combattuta e vinta, ma è stata una guerra, nemmeno una battaglia, che ha lasciato sul campo morti e feriti e che è durata moltissimo, anni. E, come se questo non bastasse, l’industria è adesso costretta ad affrontare una congiuntura terribile a causa dell’impennata dei prezzi dell’energia. Più che un’impennata, perché i prezzi si sono moltiplicati per dieci. Una situazione insostenibile in tante realtà. E infatti le aziende reagiscono nel peggiore dei modi, chiudono i battenti se hanno continuato a lavorare, se hanno fatto una pausa in agosto non riaprono nemmeno. Carlo Bonomi lo aveva detto a giugno, il 15% delle imprese ha rallentato la produzione, aveva ammonito, un altro 40% si appresta a farlo. Non ha trovato molta audience. Il rischio adesso è un tracollo generale. Il governo sta cercando di trovare una via per sostenere le aziende in difficoltà, ma è difficile ed è molto dispendioso, perché le imprese in difficoltà sono tante e i costi sono cresciuti in maniera incredibile, appunto del dieci per cento.
Insomma, motivi per disperarsi ce ne sono, veramente troppi. Ma la cosa che più spaventa è il pensiero di cosa potrà accadere tra poche settimane. Le previsioni danno come più che probabile un cambio di vertice, che poi tanto cambio non è: il centrodestra, o forse è meglio dire la destra, perché da quella parte di centro è rimasto ben poco, al posto della maxi alleanza che, fino a luglio, ha sostenuto il governo Draghi. Ora cosa voglia fare e cosa saprebbe fare la destra al governo è un mistero, perché di economia, di politica industriale, di politica sociale nessuno per il momento parla, ed è da credere che non lo farà certo nelle prossime tre settimane che si preannunciano attente al dato politico, anzi elettorale e a null’altro. Progetti, piani, programmi, indicazioni su cosa si deve fare e si farà: non c’è traccia di tutto ciò, i politici che pure dovrebbero e vorrebbero apprestarsi a governare sono impegnati in altre faccende e non vogliono essere disturbati.
La destra, ma la sinistra non è messa certo meglio. Anche qui l’attenzione è stata diretta tutta prima a cercare disperatamente alleanze, nuove o vecchie, poi a riempire le liste di nomi accettabili, poi a propagandarle in giro. Anche qui non risulta che si stiano facendo grandi progetti per la governabilità del paese. Certo, da quest’altra parte si è più preparati, perché la permanenza nelle stanze in cui si decide è stata più lunga, ma questo non rasserena più di tanto. Anche perché i compiti che aspettano i partiti che formeranno il governo, quali che essi siano, sono molto complessi. A cominciare dalla messa a punto della legge di bilancio, l’atto che indica gli interventi, macro, ma anche micro, che dovranno essere messi in campo nell’anno a venire. Insomma, sarà lì che dovranno essere indicate le linee portanti della politica economica, della politica industriale e della politica sociale per far fronte a quelle difficoltà di cui dicevamo: il Covid risorgente, l’inflazione impazzita, la crisi energetica, le difficoltà della povera gente, alla quale forse verrà anche tolto il reddito di cittadinanza, che sarà stato anche sbagliato e in qualche modo anche ingiusto, ma qualche sollievo a chi ha meno in questi due anni ha portato.
La parte politica non sembra attenta a questi temi generali, che sono però quelli che affliggono gli italiani. Una disattenzione pericolosa perché in questa congiuntura sbagliare una mossa, delineare i contorni di un piano economico in modo errato può provocare davvero disastri. Ma forse non è nemmeno questo il pericolo più forte che corre il nostro paese, che dovrebbe prestare molta più attenzione soprattutto al programma di attuazione del Pnrr, che così intensamente ha impegnato il governo. Il lavoro svolto da Draghi è stato impressionante. Dall’insediamento sono stati emanati 1.260 decreti attuativi, ne restano per quest’anno ancora 406, di cui 243 entro ottobre. Su questo non c’è da avere troppe paure, l’esecutivo in carica, anche se solo per gli affari correnti, ha mostrato una capacità incredibile e proseguirà a farlo e Draghi ha strigliato i ministri perché non si rilassino. Il problema è cosa accadrà dopo, perché il progetto deve continuare a lungo per portare a termine le riforme che sono state richieste e all’attuazione delle quali è stato legata strettamente l’emanazione delle risorse che ci sono state promesse. Già a Bruxelles si parla in maniera molto concreta della possibilità di una riassegnazione delle quote, perché la crescita dell’economia italiana è stata molto elevata e altri paesi non aspettano che prendersi una quota delle risorse che ci sono state assegnate. E se da parte nostra dovesse intervenire un rallentamento qualche punizione scatterebbe senz’altro, è già tutto scritto. Ma l’Italia non può permettersi di perdere questo treno, che rappresenta forse l’ultima occasione per crescere e recuperare il ruolo che le spetta. Le forze politiche che ci governeranno, quali che saranno, devono saperlo bene, se dovessimo perdere quei miliardi loro per primi pagherebbero un prezzo altissimo in termini di consenso. Ma, appunto, non basta sapere che una cosa va fatta, bisogna farla e farla bene.
Massimo Mascini