Le relazioni industriali godono di buona salute e anche il sindacato vive un momento tutto compreso abbastanza positivo. Ma la situazione non è affatto stabile, al contrario potrebbe cambiare anche radicalmente in breve tempo, perché siamo alla vigilia di grandi cambiamenti. Stiamo per affrontare, tutte assieme, profonde trasformazioni, con la transizione ambientale, con la transizione digitale, con la transizione demografica. Il nostro futuro dipenderà da come queste sfide saranno affrontate e se saranno superate. Le relazioni industriali non sono marginali in questo divenire, anzi: passa proprio per il sistema della contrattazione la soluzione di alcuni dei nodi di fondo che dobbiamo affrontare. Sarà il confronto tra le parti sociali a cercare di mettere il paese in grado di superare processi di grande spessore come, per esempio, quello della decarbonizzazione. E dipenderà dalle soluzioni che saranno trovate la possibilità di restare nel gioco delle grandi potenze industriali.
Che lo vogliano o meno, le parti sociali saranno dunque chiamate a grandi scelte, perché si tratterà di rifondare le strutture stesse del sistema della produzione. Per capirlo basta concentrarsi sulle modifiche che investiranno, o che già sta profondamente vivendo, il sistema dell’automotive, con il passaggio all’elettrico. Non è solo un salto tecnologico, è una trasformazione profonda, un passaggio che comporterà, tra le altre cose, anche un ridimensionamento della forza lavoro. Il capitale umano, come lo chiamano le aziende, o le persone che lavorano, come preferiscono dire i sindacalisti, differenza lessicale non banale, dovrà avere caratteristiche molto differenti da quelle di prima, e occorrerà dunque un reskilling di grandi dimensioni. Ma soprattutto, le parti sociali dovranno gestire la riduzione della manodopera, trovando il modo di alleggerire, per quanto possibile, il peso della perdita di molti posti di lavoro.
Il problema è che al momento le parti sociali non sembrano avere le capacità tecnologiche e gli strumenti che le mettano in grado di affrontare e gestire questi fenomeni. Il rischio è che i cambiamenti epocali che stiamo per affrontare risultino troppo complessi per essere gestiti con le strutture esistenti. Forse le singole imprese, soprattutto le grandi, quelle abituate al cambiamento perché impegnate alla concorrenza sui mercati internazionali, saranno in grado di gestire modifiche strutturali profonde; ma non lo sono certamente quelle aziende – e sono la gran parte – abituate a muoversi esclusivamente nel mercato interno. Non lo sono le strutture associative datoriali, per lo più abbastanza obsolete, così come non lo sono i sindacati dei lavoratori: abituati a sistemi di contrattazione che non sono cambiati in profondità nel corso degli ultimi decenni, non sembrano oggi preparati a gestire situazioni così diverse.
Questo non significa che le parti sociali debbano arrendersi di fronte alla complessità dell’impegno che sono chiamate a gestire. Al contrario, tutti i soggetti delle relazioni industriali dovranno dotarsi delle capacità necessarie, adottando sistemi di aggiornamento profondo degli strumenti a disposizione. Servirà una “campagna acquisti” di capacità tutte differenti dal passato, e servirà anche una formazione congiunta, perché sempre più le parti sociali possano contare su una capacità di comprensione reciproca, e quindi di disponibilità soggettiva all’intesa, molto più sviluppata di quanto non sia attualmente. Gli strumenti di formazione già esistono, anche se sembrano alquanto polverosi: si tratta di saperli modificare e aggiustare quanto necessario. Ma soprattutto occorre dimostrare una reale disponibilità a usarli, caratteristica oggi difficile da reperire: esistono i fondi interprofessionali, che gestiscono risorse non indifferenti e hanno strutture formative di una certa consistenza, ma l’uso che se ne fa non è all’altezza delle esigenze, in sempre più rapida crescita.
È un discorso antico quello della formazione che non si fa, o che comunque non si fa a sufficienza. Troppo spesso gli imprenditori -non tanto le grandi aziende, ma certamente tantissimi piccoli e medi imprenditori- considerano la formazione un costo, laddove invece rappresenta un investimento spesso strategico. D’altra parte, va detto che anche gli stessi lavoratori guardano alla formazione come un onere, e se possono la evitano. Questa sostanziale sottovalutazione deve però finire: oggi, e sempre più in futuro, occorrono dosi importanti di formazione, e possibilmente congiunta. Occorre la consapevolezza che si tratta – è vero- di uno sforzo costoso da tutti i punti di vista, ma anche assolutamente redditizio: perché è con la formazione che si aiuta la crescita della produttività, e quindi della competitività, delle imprese e delle persone. Se le parti sociali comprenderanno l’urgenza e l’ampiezza di questi processi formativi, si sarà fatto un passo sostanziale anche per affrontare le transizioni che ci attendono.
Massimo Mascini