Il welfare contrattuale si sta sempre più affermando come tema centrale di tutte le politiche di contrattazione, e sempre più lo sarà in futuro. Per questo sarebbe il caso, per i sindacati, di occuparsene seriamente. Non che fin qui Cgil, Cisl e Uil abbiano scherzato: ma sta di fatto che, per ora, le organizzazioni dei lavoratori si sono più che altro lasciate portare dalla corrente, e di fronte alle aziende che proponevano pacchetti welfare già pre-confezionati di varia natura (fin troppo varia, da quel che risulta), non hanno ancora avuto la capacità di avanzare le proprie controproposte. Rassegnandosi, in sostanza, a prendere quel che veniva loro offerto. Il problema e’ che quel che viene loro offerto, per l’appunto, e’ sostanzialmente salario dei lavoratori, sia pure erogato ‘’in natura’’; e dunque, occorre sapere con certezza quanto vale realmente, e che vantaggi porta, sia nell’immediato, sia in futuro.
Nel corso dell’ultima Assemblea nazionale della Cgil, per esempio, Susanna Camusso ha dedicato parte della sua relazione introduttiva proprio al welfare contrattuale, proponendo, tra l’altro, l’istituzione di una Authority specifica che regoli e controlli la materia, sul modello di quella che già esiste per i fondi pensione (Covip), in modo da avere alcune garanzie sulla qualità e la gestione dei vari sistemi di welfare che si andranno creando. Tanto più nel momento in cui, come e’ ormai chiaro, il welfare contrattuale si sta indirizzando con decisione verso la sanità integrativa. In questo senso si muove anche la discussione in corso tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria sulle nuove relazioni industriali.
Nell’incontro del 4 luglio scorso tra Vincenzo Boccia e i tre leader sindacali e’ emersa appunto l’ipotesi di costituire un grande fondo sanitario unico per i contratti dell’industria. Nulla di nuovo, peraltro: la Confcommercio, per esempio, da anni gestisce il piu’ consistente fondo sanitario integrativo nazionale, con un milione 600 mila iscritti tra i dipendenti del terziario. I quali, con una spesa molto contenuta (144 euro all’anno) dispongono di prestazioni aggiuntive importanti. La massa critica e’ infatti indispensabile per dare valore al fondo, e questo potrebbe giocare a favore dell’iniziativa allo studio di Confindustria e sindacati. Ma anche qui c’e’ un rischio da tenere presente: la proliferazione di grossi fondi sanitari integrativi, se non gestita con attenzione, rischia di minare alle radici il gia’ pericolante servizio sanitario nazionale, sottraendo risorse e indirizzandole sul privato. I paletti che dovrebbero essere piantati e difesi sono in questo caso molto semplici: va bene la sanità integrativa, se e’ per l’appunto, tale, ovvero se offre prestazioni che non sono comprese nel Servizio Sanitario Nazionale; no, invece, se e’ considerata ‘’sostitutiva’’, ovvero se si limita a sostituire la prestazione pubblica con quella privata.
Infine, c’e’ un ultimo importantissimo aspetto da considerare quando si parla di boom del welfare contrattuale, ed e’ legato alle pensioni future. Se gli aumenti retributivi sono – e sempre più saranno- corrisposti anziché in denaro in ‘’beni e servizi’’ (molto appetibili anche perché detassati), con quali risorse verrà alimentata la pensione dei lavoratori? Esempio concreto: se con l’ultimo contratto dei metalmeccanici l’aumento medio lordo in busta paga per il 2017 ammonta a 1,70 euro (un euro e 70 centesimi), mentre il grosso, e cioè 100 euro, viene erogato in buoni spesa, ai fini della pensione i contributi si calcoleranno solo su 1,70 euro. Ovvio che in un sistema ormai totalmente basato sulla contribuzione effettivamente versata, questo non potrà non influire non solo sull’assegno previdenziale del lavoratore interessato, ma anche, in prospettiva, sulla tenuta del sistema pensionistico nel suo complesso.
Concludendo: e’ probabile che dal welfare contrattuale non si tornerà indietro, per vari motivi, non ultimo quello che e’ molto gradito ai lavoratori. Tuttavia, proprio perché destinato ad espandersi, prima di trasformarsi in un ingovernabile far west il sistema richiede regole e confini, che sta innanzi tutto alle parti sociali definire. Ma senza dimenticare che anche il caro, vecchio aumento salariale ‘’cash’’ non ha perso la sua ragione di essere, anzi: quando i dati dell’Istat sulla povertà ci dicono che negli ultimi anni si e’ impoverito ‘’anche’’ chi ha un lavoro, e non solo chi lo ha perduto, ci dicono, in altre parole, che in questo paese c’e’ (anche) un problema di retribuzioni troppo basse. Se la soglia di povertà (altro dato Istat) si aggira al centro-nord sugli 800 euro di capacità di spesa mensile, non può sfuggire che questa cifra e’ pericolosamente sovrapponibile alla ‘’retribuzione’’ (chiamiamola così) di una gran parte di persone, e in particolare di quei giovani che, sempre l’Istat, ci indica come i nuovi arruolati in massa nelle file della povertà. Dunque, ferma restando l’utilità di istituire forme pubbliche di sostegno alla povertà, forse sarebbe il caso di pensare anche a una politica salariale più incisiva, rispetto a quella che si e’ svolta negli ultimi anni della crisi.
Nunzia Penelope