Il 2016 sembra destinato, secondo il Def governativo almeno, ad una crescita modesta con il Pil all’1,2% e mai sopra il punto e mezzo per tre anni. Per il Governo evidentemente ora si tratta di essere realisti dopo aver abbondato in ottimismo nei mesi scorsi. La prudenza pare dettata dal confronto con Bruxelles che non sarà facile e dalla bassa congiuntura internazionale nella quale però rischiamo di ribadire la nostra vocazione ad essere fanalino di coda
In questo contesto il movimento sindacale vede alzarsi l’asticella delle sfide che ha di fronte. E’ probabile che nei prossimi mesi ci troveremo di fronte comunque ad un attivismo del Governo dal fisco, agli investimenti (pochi per la verità) e forse anche alla contrattazione nell’intento di smuovere le acque ma probabilmente incurante di quanto chiedono e propongono le forze sociali. Con il rischio che si riproponga la logica di mezze riforme ma non si aggrediscano i nodi di crescenti diseguaglianze e ritardi nei confronti dell’Europa documentati di recente dall’Istat con la fotografia degli italiani nel 2015: un Paese sempre più grigio per età e per questioni irrisolte come il reggersi su quella enorme contraddizione costituita dal fatto che il Pil del sud è poco meno della metà del nord.
E’ indubbio che se questo è lo scenario di fronte al nostro impegno balzano immediatamente agli occhi due esigenze primarie: quella che incoraggia ad investire in confederalità nell’azione sindacale e quella che suggerisce di ritrovare, e rapidamente, le condizioni per agire unitariamente. Confederalità ed unità.
Puntar a ricostruire un orizzonte unitario per il sindacato è già nell’immediato una risposta chiara a quei tentativi di realizzare un sindacato unico che non va oltre la dimensione di azienda o di gruppo, come potrebbe essere il caso di ciò che bolle in pentola in Fca. Un’alternativa cioè ad un processo di polverizzazione corporativa, nella quale la riedizione del sindacato di mestiere seppellisce di fatto il tratto solidale della nostra tradizione, elimina il protagonismo sindacale dalla scena economica e sociale, incoraggia logiche di subordinazione alla controparte che in definitiva finiscono per premiare i più forti ed emarginare i più deboli. E se l’esempio fosse quello del sindacato dell’auto Usa, va ricordato che quel modello prevede momenti di partecipazione, di “scambio”, e un sistema di welfare condiviso che da noi non esiste. Anzi in questo senso si inaridirebbero ulteriormente le ragioni a considerare la partecipazione del sindacato come una delle proposte forti su cui scommettere.
Rimettere in moto un cammino unitario allora vuol dire avere più carte in mano da giocare su vari tavoli decisivi per il futuro economico e sociale: contrastare la stagnazione, condividere piattaforme rivendicative che impediscano alla controparti di scegliere gli interlocutori e imporre la sua di piattaforma. Ma più ancora aggiornare la presenza ed il radicamento del sindacato nei luoghi di lavoro e nel territorio che saranno teatro sempre più importante delle dinamiche sociali.
La prospettiva unitaria non parte da zero: c’è un documento comune sulle relazioni contrattuali che sarà anche il primo banco di prova per la Confindustria del dopo Squinzi, con l’auspicio che il nuovo Presidente adotti una reale discontinuità rispetto all’immobilismo della precedente gestione che ha puntato non sul dialogo ma sul logoramento sindacale.
Una nuova scelta a favore dell’unità insomma si impone e il fai da te in questa direzione, rischia di essere un boomerang per tutto il sindacato. La risposta nella nostra autonomia dovrebbe essere quella di dimostrare che è possibile elevare la qualità del confronto sulle scelte decisive da compiere.