La fila alle poste è il calvario dei deboli. Anziani con il bastone, vecchine vacillanti, uomini ingrugniti, donne rassegnate, ragazze insofferenti, stranieri incerti. Sotto il sole, uno dietro l’altro, uniti nell’impotente impazienza. La mascherina copre bocche e nasi, la respirazione accentua la fatica, gli occhi cercano conforto nel comune travaglio, l’attesa scandisce come un rosario il susseguirsi di entrate e uscite. Avanti un altro. Ecco la fragilità fatta persona. Ecco il rapporto con lo stato, con il fisco, con le bollette, con le pensioni, con i soldi. Ecco il digital divide, il divario tra chi usa il computer per ogni tipo di esigenza e chi è ancora nella condizione di analfabeta informatico.
La pandemia ha accentuato tutte le differenze. Tecnologiche, di censo, esistenziali. Marco Revelli, sul Manifesto, rimarca, invocando un vero New Deal, l’esistenza di “un’Italia di sotto”, quella che rischia di pagare il prezzo più alto della crisi, dipendenti, disoccupati, cassintegrati. “E dietro di loro, in fitta e dolente schiera, gli invisibili, la galassia gassosa della gig economy, dei lavoretti a giornata, dell’arte di arrangiarsi negli interstizi del capitalismo, nella logistica di periferia, sull’ultimo metro della consegna, o nei servizi alle persone, collaboratrici e collaboratori familiari informali, personal trainer, factotum, dog sitter”.
Vero. Ma parziale. Il disagio sociale si è ormai trasformato in un generale stato d’animo, varcando i confini di classe, espandendosi anche a coloro che hanno minori difficoltà economiche. È come se fossimo tutti precari. Vite tra parentesi. Si vorrebbe tornare ad un impossibile prima senza avere cognizione del possibile dopo. Gli assembramenti, nei parchi, davanti ai locali, sulle spiagge, il rifiuto della mascherina, gli esibiti abbracci, rappresentano una sfida alle regole e alle imposizioni, una negazione della realtà. Il contagio non c’è più, come la pancia in un indimenticabile Carosello.
Un modo per annullare i timori. Una sorta di sabba liberatorio, con valenze magico-scaramantiche. Inutili il ricordo dei morti, gli inviti alla prudenza, i timori di nuovi focolai. I festeggiamenti a Napoli, dopo la conquista della Coppa Italia, sembrano dare valore a questo esorcismo di massa. Quel che è accaduto va dimenticato, solo così non può ripetersi.
Ma negare il problema non è la soluzione. L’insulso e rissoso blaterare dei politici e l’artificioso sensazionalismo dei mass media alimentano questa confusa rimozione. Una generale regressione infantile. Un non voler pensare. Viene il dubbio che molti si sentivano più protetti durante il lockdown. Era qualcun altro a decidere, assumendosi tutte le responsabilità.
Gli psicanalisti Marco Francesconi e Daniela Scotto di Fasano, sull’ultimo numero di MicroMega, invitano a non avere “paura della paura”. Quando si è esposti a cambiamenti di portata planetaria, argomentano, “può manifestarsi un inconscio e imperioso bisogno di un contenitore forte, che rassicuri dall’esterno, un fantasma direttivo e onnipotente”, “quasi si cercasse un buon padre che sa bene, lui, come difenderti”. Nasce così “la ricerca di figure totalitarie e manipolatrici, purtroppo pronte a cogliere al volo l’occasione per irrigidire la propria presa di potere”. I due studiosi, citando Freud, ricordano che la società ha il proprio fondamento nell’ inevitabile scelta di barattare un po’ di libertà con un po’ di sicurezza. Ma lo scambio di tali merci deve essere organizzato con grande misura e attenzione.
Per capire il da farsi, chiedere ai poveracci in coda davanti agli uffici postali. Dovrebbero essere loro la vera task force. Ammettere la paura, per vincerla.
Marco Cianca