“Quando muore un onorevole io dico: ma va a quel paese, è sempre troppo tardi”. Una frase orrifica, colta al volo durante il dialogo in strada tra un signore dai capelli bianchi e un più giovane interlocutore. L’unico parlamentare, o meglio ex, deceduto in questi giorni è stato Gerardo Bianco, uomo mite, sapiente, perbene. Un cattolico popolare, degno di questa espressione, come hanno riconosciuto tutti i commentatori. Persino Wikipedia, tanto per citare una fonte non sospettabile di simpatie democristiane, lo definisce personaggio di “indiscussa moralità” che ha dedicato “l’azione politica e la vita al rispetto delle istituzioni e dell’etica pubblica”.
La macabra invettiva si riferiva a lui? Resta il dubbio, ma di sicuro il livore dell’anziano cittadino aveva un tono di tale sicumera da non risparmiare nessuno, nemmeno il prode Jerry White, come era stato simpaticamente soprannominato. La schiuma sociale tracima dalle fogne del discredito, dell’incultura e dell’ignoranza sommergendo memoria e valori. Un processo non improvviso e non nuovo, incarnato nel tempo dall’Uomo Qualunque e dal Msi, ma che ora è arrivato al potere. Il 16 marzo 1993, durante Tangentopoli, il leghista Luca Leoni Orsenigo sventolò nell’aula di Montecitorio un cappio, evocando la forca per i corrotti. Dal 2018 quello che era il suo partito ha ruoli di governo ma il linguaggio resta lo stesso. E gli eredi di Almirante non sono da meno.
La polemica contro la casta è servita per diventare casta, buttando via il bambino con l’acqua sporca. I partiti che avevano fatto la Repubblica sono morti, la corruzione e il clientelismo sono ancora più diffusi, non come finanziamento della politica ma come vero e proprio sistema di vita, la malavita ha ovunque le mani in pasta, le regole della convivenza civile sono roba da buonisti, l’individuazione di un nemico costituisce un esercizio quotidiano.
“È finita la pacchia per le banche”, ha ghignato un tassista a Silvia Salis, la campionessa olimpionica che voleva pagare la corsa con il bancomat. Padroncini, commercianti ed evasori, oltre che dal linguaggio, si sentono legittimati dalle stesse scelte economiche dell’attuale maggioranza.
Il Censis, descrivendo lo stato d’animo degli italiani tra pandemia, guerra, crisi economica e allarme energetico, usa la parola “malinconia”. Una scelta edulcorata e fuorviante che non mostra i bagliori di rabbioso cinismo e di feroce rivalsa che oscurano il nostro cielo. Il ricercatore Enzo Risso avverte che siamo un Paese fragile, nel quale, il crescente aumento della povertà “rischia di far saltare il banco”.
La panacea di tutti i mali, a detta di chi siede a Palazzo Chigi, sarà il presidenzialismo. Finalmente gli elettori conteranno davvero, è l’ammaliante promessa. In tal modo non si auspica solo un cambiamento istituzionale, che magari può anche essere discusso, ma si getta fango su tutto quello che è accaduto dal 1945 ad oggi. È lo spirito della Resistenza ad essere messo sul banco degli imputati.
“La democrazia, checché possa averne pensato Giuseppe Mazzini, non è regime per i poveri. La democrazia è sistema politico per i grassi epuloni che ispirano i loro programmi alle batterie da cucina e alle salse pastose degli stracotti”. Così scriveva Benito Mussolini il 4 maggio del 1944, parlando di “democrazia dalle pance piene”. Lapidaria la conclusione: “Il popolo italiano non è, e non potrà mai essere, democratico”.
I borborigmi aumentano di giorno in giorno.
Gerardo Bianco, in una delle sue ultime interviste, paventava il rischio di “una svolta autoritaria”.
Ma quando finisce questo incubo?
Marco Cianca