I lavori cambiano e si diversificano. Questo è certo. E’ invece incerto come cambieranno, se per il meglio o per il peggio. Altrettanto incerto è a chi toccherà il meglio o il peggio. Il caso dei call center è un esempio vistoso di cambiamenti della organizzazione aziendale e dei lavori; come tutti i processi di cambiamento, è controverso e contraddittorio. Lo si vede anche da questo dibattito: da un parte si presentano i call center come l’ultima catena di montaggio (“fabbriche fantasma”, “inferno post moderno”). D’altra parte si invita a non demonizzarli in toto e a considerare anche esempi di call center virtuosi. Per dare un giudizio appropriato non basta basarsi in generale sulle quantità e neppure sui lavori: occorre guardare ai loro contenuti e ai percorsi individuali in cui si collocano.
Analisi simili dovrebbero farsi per valutare i caratteri di tutti i lavori precari. Le ricerche finora fatte mostrano risultati non univoci: i dati Istat indicano che solo il 15% dei contratti precari rimangono in questa situazione per più di tre anni; altre mostrano una precarietà più grave e persistente.
Ora la crisi sta colpendo tutti i lavori, quelli subordinati come i vari tipi di collaborazioni, i lavori a progetto, si aggravano soprattutto le condizioni dei lavori precari: migliaia di giovani anche qualificati sono intrappolati in lavori ripetitivi, spesso di bassissima qualità e non corrispondenti alle loro aspettative e capacità. La pressione dei costi spinge le aziende a decidere esternalizzazioni al ribasso in Italia o all’estero, di cui i call center sono un esempio tipico.
Le modifiche normative introdotte per contrastare il fenomeno sono state parzialmente utili. Tanto più che il sostegno alla regolarizzazione per i collaboratori a progetto presenta nelle aziende è venuto meno, come ricorda Damiano, mettendo in difficoltà proprio le aziende che hanno provveduto a tale regolarizzazione: il caso Teleperformance è stato sollevato di recente, con specifica interrogazione in Senato, ma senza esito.
La verità è che le modifiche normative non bastano a risolvere questi problemi. La distinzione fra attività inbound e outbound, introdotta dalla circolare Damiano per contenere l’uso anomalo dei contratti a progetto utilizzati nei call center, ma non solo, è approssimativa. Anche se lodevole. La definizione di contratto a progetto prevista dalla legge Biagi è più restrittiva delle precedenti, ma non è priva di limiti. Il concetto di progetto è evanescente e purtroppo facilmente eludibile nella pratica.
La verità è che gli abusi di questi contratti cd. di collaborazione hanno avuto in Italia una diffusione anomala, senza riscontro in altri paesi, perché costano di meno dei contratti di lavoro subordinato. Il progressivo innalzamento delle contribuzioni simili dall’originario 10% all’attuale 26,7% ha ridotto i margini di convenienza a utilizzarli fraudolentemente; qualche conseguenza si è vista nel calo del loro numero. Ma il ricorso alla frode si è riprodotto usando, invece dei contratti a progetto, le partite Iva o le associazioni in partecipazione ancora una volta in situazioni che mascherano in realtà forme di lavoro non autonomo ma subordinato.
Questo uso distorto dei tipi negoziali non è un problema di tecnica giuridica, ma di qualità dell’economia delle imprese e qualità del lavoro.
L’abuso dei contratti atipici e la loro cattiva qualità, nei call center come altrove, riflettono realtà aziendali che pensano di competere solo sui bassi costi del lavoro, con cattive retribuzioni ed eludendo gli obblighi sociali. I casi di regolarizzazione di questi contratti, menzionati anche nel dibattito del Diario del lavoro, riguardano grandi aziende ben strutturate che mostrano di voler e poter svilupparsi puntando sul rispetto delle regole e sulla fidelizzazione dei clienti e dei dipendenti.
Una buona politica del lavoro non può rinunciare al rispetto delle regole e delle tutele fondamentali per tutti i lavori, quelli subordinati, quelli parasubordinati atipici fino a quelli autonomi.
In questo senso si dirigono le proposte, avanzate anche da me, che indicano la necessità di prevedere per tutti questi lavori una base di tutele comuni, uno zoccolo sociale che comprenda gli istituti fondamentali del diritto del lavoro e del welfare: da un salario minimo dignitoso, che corrisponda al dettato costituzionale (non certo i due euro all’ora di cui parla nel suo intervento a questo dibattito Luciano Scalia); a pensioni comuni sostenute non solo dai contributi eguali per tutti ma dalla fiscalità generale, come già avviene in altri paesi, ad ammortizzatori sociali per tutti i lavoratori colpiti dalla crisi, accompagnati da politiche attive mirate al reinserimento; a tutele comuni in caso di maternità, malattia, infortuni.
Questo zoccolo sociale di base può garantire le condizioni eque di lavoro per tutti, evitando quella competizione al ribasso, che fa leva su salari iniqui e sui diversi tipi contrattuali, a cominciare dai falsi collaboratori e dalle false partite Iva.
I provvedimenti da introdurre devono differenziare i costi in modo da agevolare i comportamenti virtuosi. In particolare i contratti a tempo indeterminato devono costare meno di quelli a termine perché il rischio della precarietà va pagato. La parificazione dei contributi sociali fra i vari contratti deve avvenire non al 33%, come è oggi per il lavoro subordinato, ma a un livello intermedio (es. al 27-28%). Ma non c’è dubbio che misure del genere alzano il livello della competizione e i costi per le imprese.
Infatti le obiezioni alle nostre proposte non contestano la loro efficacia nel contrastare gli abusi. Rilevano invece che molte aziende non le reggerebbero, potrebbero fallire o entrare nell’economia sommersa, esse potrebbero mettere in crisi non solo aziende private, ma anche tante piccole amministrazioni che esternalizzano le attività di call center e altre lavorazioni puntando solo al ribasso del costo del lavoro. Per questo si propone di abolire o limitare fortemente gli appalti al massimo ribasso: e anche questo è un altro provvedimento che accrescerebbe le difficoltà specie delle realtà marginali e poco produttive. Il problema dunque è di fondo; può risolversi non con misure di aggiustamento ma solo migliorando la competitività del nostro sistema produttivo e delle imprese che vi operano. Se queste continuano a essere precarie, non potranno che produrre lavoro precario, di bassa qualità, come i peggiori call center. Quello che manca non è solo una nuova e più equa regolazione del mercato del lavoro. Manca una politica economica che esca dalla attuale ibernazione e dagli sprechi degli incentivi a pioggia, che promuova più ricerca e più innovazione; che non si limiti al galleggiamento del giorno per giorno, ma punti sulla riqualificazione dei settori e sull’apertura ai settori nuovi, facendo leva sulle risorse imprenditoriali e di lavoro ancora esistenti in Italia.
Tiziano Treu, vice presidente Commissione Lavoro, Senato