Maria Pia Camusi – Responsabile del Settore Lavoro e Rappresentanza Censis
Nel nostro paese la concertazione tripolare è un processo che ha radici lontane: erano i primi anni ’80, quelli in cui Spadolini per la prima volta coinvolse infatti i sindacati al tavolo del Governo per il fronteggiamento della crisi economica, avviando una pratica che pure attraverso pause e ritmi diseguali, non si è interrotta fino al Patto di Natale del governo D’Alema.
Non è un caso che citiamo questo patto come il finale della stagione concertativa, poiché si tratta dell’ultima occasione in cui le parti sociali hanno tutte condiviso la responsabilità di quella scelta, senza alcuna defezione. Ciò che infatti fa una prima differenza fra la citata stagione della regolazione concertativa da quella in corso – che si è concretizzata nel Patto per l’Italia – è che si è persa la unitarietà fra i sindacati dei lavoratori e con essa la loro capacità di partecipare, indirizzandoli, ai processi decisionali e al presidio dei fenomeni socio-economici a questi sottesi.
D’altra parte, la concertazione tripolare cresce di solito quando le relazioni bipolari da sole non bastano a produrre output significativi ed efficienti e quindi si richiede l’intervento dello Stato come regista e/o garante delle intese. Negli anni ’90 i grandi accordi sono stati fortemente stimolati dalle istituzioni centrali, soprattutto perché i governi coinvolti hanno saputo di volta in volta mobilitare le parti sociali sulla gestione dell’emergenza, per superare la quale serviva la raccolta di un consenso sociale più ampio possibile e la limitazione parziale dell’autonomia delle parti stesse.
Se oggi la concertazione è in crisi non dipende quindi soltanto dalla radicalizzazione delle posizioni ideologiche delle organizzazioni degli interessi, ma anche dalla diversa posizione e dalla diversa capacità dell’esecutivo rispetto alla possibilità di coinvolgerle nei processi decisionali.
Certamente, senza accordi interconfederali non sarebbe stato possibile avviare azioni credibili per controllare l’inflazione, congelare la scala mobile, rendere competitiva l’economia per arginare l’indebitamento dello Stato e traghettare (o trascinare) l’Italia nell’economia dell’euro. Ma il carattere di emergenza nazionale attribuito alla concertazione non ha portato alla codificazione di un modello reiterabile, riproponibile a schieramenti politici diversi. Chiedersi di chi sia la responsabilità di questo non aiuta, come non aiutano in ogni caso gli scontri fra le parti sociali, molto più vicini a conflitti ideologici, che a difficili, ma auspicabili impegni di recupero della coesione che alla concertazione si voleva pensare sottesa.
Ciò che serve è ricordare che le relazioni industriali italiane non hanno vissuto e non vivono di soli accordi politici e tripolari. Le soluzioni date ai problemi del lavoro sono state e sono anche altre, accomunate per molto tempo dalla mancanza di codificazione e di formalizzazione: l’unico tentativo di regolazione del sistema e degli assetti contrattuali, infatti, è maturato solo con l’accordo del luglio 1993, di cui si ricorda proprio in questi giorni il peso soprattutto politico-strategico, più che il ruolo di razionalizzazione della materia negoziale
In realtà, in Italia, la contrattazione collettiva, anche in presenza di spinte fortissime verso la individualizzazione e verso la cooperazione deregolata, non ha mai dato cenni pesanti di cedimento, anche se la si pensa come il processo di regolazione del lavoro sotteso alla produzione di contratti.
Alcuni dati interessanti ci sono forniti proprio dalla analisi dell’evoluzione della contrattazione interconfederale, che non è stata interamente assorbita dalla regolazione politica: dal 1983 al 2003 sono state stipulate ben 68 intese di questo genere, stipulate cioè nel 70% circa dei casi fra confederazioni di rappresentanza del lavoro e delle imprese e nel restante 30% anche con la presenza dei governi. Questi 20 accordi tripolari si possono ascrivere, come si è detto, ad una logica spesso al confine fra la concertazione e l’inclusione delle parti sociali all’interno di processi decisionali veri e propri.
In sostanza, il nostro sistema lavoristico, nonostante il declino della concertazione politica, è ancora ad alta intensità di regolazione negoziale e questo gli attribuisce una indiscussa ricchezza, quella che in passato ha alimentato una forte coesione e ha traghettato il mercato del lavoro verso l’acquisizione di livelli crescenti di mutamento evolutivo. Sarebbe un errore pensare che ulteriori soglie di innovazione possano essere soltanto oggetto di normative e di regolamentazioni che non passino anche per il coinvolgimento dei lavoratori e di chi li rappresenta.
D’altra parte, ritrovare la coesione nella gestione del lavoro non può essere fatto guardando all’indietro, pensando cioè che si possa uscire dalle difficoltà economiche e di sviluppo attuali solo tramite grandi intese ancora una volta di emergenza e lasciando agli altri livelli di negoziazione la responsabilità di trovare gli equilibri socio-economici necessari.
Allora, forse, il metodo migliore per rilanciare nuove forme di convergenza sul piano delle relazioni industriali, è quello di orientare i prodotti negoziali a svolgere funzioni di sostegno allo sviluppo dei soggetti rappresentati e delle organizzazioni in cui questi operano. Questo non significa eliminare o dare del tutto per finito un metodo di concertazione pattizio, che proprio per riguardare una generalità di interessi può costituire un punto di convergenza, in particolare per quei soggetti che tutelano le proprie condizioni di lavoro da sé e che non tendono a diminuire. Ma tutti gli sforzi negoziali, anche il contratto decentrato territoriale o aziendale, devono poter intenzionalmente produrre risultati non solo per la collettività ristretta, ma per quella più allargata in cui si inseriscono.
Andrebbe definito un sistema di concertazione a maggiore presa territoriale. Non si tratta di una misura e di un impegno semplice, poiché la concertazione dal basso, dopo la stagione di grande vitalità degli anni ’90, mostra segni di rallentamento, come se la realtà sociale ed economica e quella del lavoro, in particolare, dovessero essere sottratte alla regolazione negoziale.
Se la rivitalizzazione del livello locale nei processi di negoziazione dà la misura di un possibile spazio di riavvio delle convergenze, la comunità di interessi, che trova nelle imprese il suo primo confine, ne rappresenta il riferimento soggettuale. Mentre i vecchi modelli del lavoro fondati sulla verticalità (di competizione, di funzione, di carriera) vanno in crisi, si vanno sostituendo ad essi nuovi riferimenti orizzontali, veri e propri gruppi professionali omogenei che sulla base di questa identità costituiscono la loro identità e le loro domande. La regolazione negoziale non è esclusa dal processo di rappresentanza dei bisogni di questi gruppi, ma certamente deve acquisire una cultura più in sintonia con i loro interessi, che nascono e trovano cittadinanza nel mercato dei saperi e poi nelle organizzazioni che se ne servono.
Lo strumento attraverso il quale è possibile dare significato e operatività ad una dimensione territoriale e a base comunitaria della regolazione del lavoro è il rafforzamento della dimensione partecipativa. Se la concertazione non può più efficacemente dispiegarsi solo nella dimensione macro, è evidente che debba riprendere vigore la dimensione locale e aziendale. Si pensa all’individuazione di formule partecipative contrattuali, che si pongano come obiettivo la qualità del lavoro e lo sviluppo locale e che mettano in collegamento il tessuto dei soggetti intermedi interessati.