Nel momento di avventurarmi in una intrapresa risicata, voglio manifestare al paese la mia opinione per combattere la critica del volgo, sempre disposto a far plauso ai vincitori e a maledire i vinti. Carlo Pisacane scriveva così il 24 giugno del 1857 in quello che viene considerato il suo testamento politico. Stava per salpare alla volta di Ponza e di Sapri dove con altri trecento, cantati dalla poetica spigolatrice, avrebbe trovato la morte. Fu accerchiato e assalito da quei contadini ai quali voleva portare un anelito di rivolta. Due Italie, allora come oggi. Una contrapposizione che non è solo Nord e Sud ma che è insita nella storia stessa del nostro Paese, nella sua formazione culturale e composizione sociale.
Una minoranza, attraverso i secoli. Illuminista, risorgimentale, giacobina, mazziniana, garibaldina, massone, anarchica, socialista. Progresso, libertà, uguaglianza. Una maggioranza, attraverso i secoli. Papalina, borbonica, sanfedista, monarchica, reazionaria, fascista, conservatrice. Nazionalismo, ordine, legge. Anche la Resistenza è stata opera di pochi mentre i molti attendevano. Poi i partiti di massa, l’interclassismo, i comunisti e la democrazia cristiana, la divisione ideologica, la ricerca del compromesso. Poi è tutto crollato e la Sinistra non ha capito niente, tanto che dopo la tempesta di Tangentopoli ha vinto Berlusconi ed è nata la Lega. La Destra, a parte la parentesi dell’Ulivo, è tornata vincitrice perché è il popolo ad essere di destra. E non a caso i Cinquestelle mietono un consenso quasi plebiscitario in quel Sud finora incapace di digerire ed elaborare ogni ipotesi riformista.
Mutatis mutandis, da Pisacane a oggi, permane l’ afonia da una parte e la sordità dall’altra. E poi il tradimento delle classi dirigenti, delle élite progressiste chiuse nelle loro torri eburnee, incapaci di leggere i mutamenti sociali ed economici, fino alla cieca e ottusa convinzione che l’immigrazione potesse essere risolta con il buonismo caricato sulle spalle dei ceti più periferici e meno agiati. Altro che contadini con il forcone! E in più la corruzione, i privilegi, la poltrona difesa ad ogni costo, le lotte fratricide per la leadership.
L’inizio dei mali di questa travagliata repubblica può essere situato già nei tempi e nei modi della caduta del governo Parri, triste e mirabile racconto di Carlo Levi. E Norberto Bobbio, il 25 aprile del 1961, accusava: “Il messaggio che ci hanno lasciato i caduti in quei bellissimi documenti che sono le lettere dei condannati a morte della Resistenza, era un messaggio di fede in una riforma della società nella libertà, nella dignità, nella giustizia, nell’odio per i soprusi, nell’amore dei poveri e degli oppressi. Che cosa ne abbiamo fatto di questo messaggio? Abbiamo davanti a noi un’Italia senza fede, incredula, come sempre, in cui dilaga la corruzione, la sfiducia negli ideali, la rassegnazione di fronte al fatto compiuto, la furberia e lo spirito di sopraffazione del più forte sul più debole. Non sono morti per questo coloro che oggi commemoriamo”. E ora, con un governo pentastellato o uno a trazione leghista, che segno avranno le commemorazioni della Liberazione?
Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono. Per fortuna, concludeva Giorgio Gaber. Il dubbio resta, però, legittimo.
Marco Cianca