Nel suo ultimo editoriale Massimo Mascini ricorda, con parole di rimpianto e analisi attente, l’allontanamento della prospettiva dell’unità sindacale. I sindacati si sono andati distanziando e differenziando, anche nell’ultimo scorcio temporale, e diventa attualmente più difficile immaginare il recupero di una unità possibile ed efficace.
Nelle indagini sul campo, condotte negli ultimi vent’anni, appare evidente per di più una parabola discendente di questo tema anche tra i lavoratori. L’unità, in passato avvertita come un obiettivo di grande portata, nel corso del tempo non risulta più tra le preoccupazioni prioritarie (scalzata da urgenze più immediate) e nell’insieme non scalda più i cuori sul piano ideale.
Intendiamoci: non è che i lavoratori siano divenuti favorevoli alla divisione o alla non unità. Gran parte di loro, pur con tessere sindacali plurali in tasca, non comprende l’utilità di mantenere strutture differenziate e neppure quali siano le concrete distinzioni tra le diverse Confederazioni. Solo che essi avvertono in misura inferiore del passato l’importanza e l’utilità di un balzo in quella direzione .
Eppure, come spiega bene Mascini, proprio in ‘tempi difficili’, nei quali i sindacati debbono lottare per mantenere il loro spazio, l’unità potrebbe – e dovrebbe – essere ancora più importante e necessaria. In effetti più i sindacati sono pressati e indeboliti, più serve l’unità: divisi essi sono ancora più deboli e il loro potere contrattuale tende a decrescere. Quindi il buon senso pratico spinge in direzione di una rivitalizzazione dell’unità.
Nonostante ciò, lo scenario nel quale siamo immersi ci consegna al contrario una divisione crescente che vede spesso su sponde opposte Cgil e Uil da un lato e Cisl dall’altro: in una geografia delle differenze cambiata rispetto ai decenni passati, ma in cui le differenze persistono.
Ma, proprio per la ragione che le Confederazioni hanno posizioni non statiche ed in evoluzione , le quali non si traducono in una mera ripetizione del passato, dovremmo cercare di utilizzare lenti almeno in parte nuove se intendiamo metterle a fuoco.
Nel suo editoriale Mascini cataloga queste differenze. La Cgil – sostiene – “si caratterizza come un sindacato-movimento tendente alla contrapposizione piuttosto che al dialogo “. D’altro canto la Cisl – sempre in questa ricostruzione – “appare disposta al confronto vedendo nella contrattazione il compito principale”.
Non vi è dubbio che questa classificazione colga alcuni elementi del riposizionamento in atto. Pure essa non appare completa e del tutto soddisfacente.
Quanto alla Cisl il suo segretario generale Sbarra, come ha riferito negli scorsi giorni il Diario del lavoro, in una conferenza stampa ha ribadito l’esigenza di un ‘vero fronte riformatore che abbia in mente il bene del Paese”. Ricordando però come tra le Confederazioni vi sono stati distinguo “e non voglio nemmeno chiamarle divisioni”. Il sindacato che ha in mente è centrato su “responsabilità, pragmatismo, autonomia dalla politica, concertazione”.
Insomma mette l’accento su quella che potremmo definire come una ragionevole continuità con il passato, centrata su una riattualizzazione e una declinazione aggiornata del rapporto tra sindacato e interesse generale. Una costante – non va dimenticato – delle ambizioni del ‘sindacato soggetto politico ’, rispetto alle quali anche la Cgil continua ad essere tutt’altro che insensibile. Un sindacato nel quale, per tradizione, la contrattazione occupa uno spazio, anche simbolico, molto importante, ma la cui attività è diventata sempre più varia e complessa: dai rapporti con il sistema istituzionale alla fornitura di tanti servizi e così via.
Se poi diamo uno sguardo alle posizioni della Cgil, troviamo come “la Stampa” del 15 settembre (a firma di Paolo Griseri) titoli “il Landini equidistante”. E ci racconta che appunto il segretario generale della Cgil ha dichiarato che “dopo le elezioni tratterà con qualunque governo si formi dopo il libero giudizio degli elettori”. Inoltre Il segretario della Cgil non fa appelli per uno schieramento politico, prendendo atto del pluralismo ormai consolidato delle scelte dei lavoratori: senza dimenticare però che anche alle ultime elezioni politiche del 2018 gli iscritti alla Cgil hanno continuato a votare – unici – in prevalenza per i partiti di centro sinistra (ma stavolta vedremo cosa succederà). Ma soprattutto viene ricordato da Landini che “c’è una rottura tra politica e mondo del lavoro”, da cui consegue che noi “vogliamo poter dire la nostra nelle scelte del Paese. Non staremo zitti e non delegheremo nessuno”.
Insomma una orgogliosa rivendicazione – anche in questo caso – del ruolo politico del sindacato. Condita da una novità, forse implicita negli ultimi tempi, ma alfine esplicitata. Non esiste più nessun apparentamento con la sinistra tradizionale, anche in virtù della sparizione sostanziale di questa dal campo di gioco del lavoro. E una disponibilità a confrontarsi con tutti, non dissimile da quella dichiarata dalla Cisl. In questo caso la novità è maggiore, in quanto non è stato questo l’atteggiamento della Cgil verso i precedenti governi di centro-destra, i quali peraltro lo hanno spesso ricambiato affettuosamente mediante una sorta di conventio ad excludendum.
Dunque l’itinerario della Cgil appare diverso da quello della Cisl (e dovremmo interrogarci anche sulla Uil). Ma gli approdi appaiono abbastanza simili. Tradotti in sostanza in una disponibilità a confrontarsi con tutti gli attori politici di governo, anche sulla base del sano realismo che – come sappiamo – la maggioranza dei lavoratori si sta apprestando a votare per la destra. Nel caso della Cgil si rintraccia certo l’eco di una forte vocazione interventista nella sfera politica, condita di quella salsa movimentista cui accenna Mascini, e rafforzata anche dalla consapevolezza di una maggiore latitudine di manovra oltre che di una necessaria maggiore di autosufficienza nell’epoca della latitanza della sinistra politica.
Insomma per tirare le somme, e sulla base di quanto si può dedurre, da queste dichiarazioni (certo frammentarie e da sviluppare) la Cgil sembra piuttosto collocarsi lungo un asse di ragionevole discontinuità rispetto ai precedenti storici. Una discontinuità, aggiungo io, che trova larghi fondamenti nel diffuso disagio sociale che caratterizza la nostra realtà. Un disagio più ampio e trasversale rispetto alla sola crescita della precarietà, che pure ne costituisce uno dei punti di caduta più rilevanti. Un disagio poco rappresentato e senza voce politica, che responsabilizza i sindacati, e che ci ricorda nel contempo come la strada per ridare valore al lavoro continua ad essere più lunga ed accidentata rispetto a molte tesi rassicuranti.
Volendo dunque tirare delle somme provvisorie – e che richiedono diversi approfondimenti – cosa si può dire?
Intanto che le posizioni di assestamento delle Confederazioni risultano meno distanti rispetto al punto di partenza da cui ci eravamo mossi. Le differenze di sensibilità esistono e riguardano in modo particolare se fare ricorso o meno allo strumento della concertazione o dei patti sociali, su cui l’attuale Cgil – a differenza di quella di Cofferati – appare più fredda: anche se va osservato come concludere o non concludere tali patti dipende molto più dall’orientamento dei governi che dalla volontà dei sindacati.
Ma le due anime in cui abbiamo racchiuso le tre Confederazioni e che abbiamo dipinto (provvisoriamente) come ‘ragionevole continuità’ e come ‘ragionevole discontinuità’ appaiono entrambe necessarie al futuro dei sindacati: a rafforzare il radicamento tra i più deboli ed esclusi e nello stesso tempo a gettare un ponte verso altri interessi e verso un’idea più generale di società. L’importanza di entrambe queste due anime milita a sua volta in favore del rilancio di una qualche forma di unità.
Dunque le differenze esistono e sono difficilmente eliminabili, ma allo stesso tempo la divisione non è un esito necessario.
Mimmo Carrieri