Le recenti vicende Fiat possono avere ripercussioni sulla contrattazione collettiva e sulla rappresentanza imprenditoriale sulle quali può essere utile soffermarsi.
Dal primo punto di vista, è indicativo il ruolo ‘giocato’ dalle clausole di uscita. Ricordo, in proposito che tali clausole sono state formalizzate per la prima volta nell’Accordo Quadro del gennaio 2009, che ha riconosciuto anzi una facoltà di deroga estremamente ampia, se non indeterminata, sotto ogni profilo: quello delle finalità, degli istituti derogabili, della durata delle deroghe e del livello negoziale al quale possono essere introdotte.
L’Accordo Interconfederale con Confindustria dell’aprile successivo ha opportunamente integrato la disciplina dell’Accordo Quadro ed ha previsto che «la facoltà di modificare è esercitabile solo a livello territoriale sulla base di parametri oggettivi individuati dal ccnl» e, «in ogni caso», con l’approvazione delle intese da parte dei soggetti stipulanti il contratto di categoria.
Si trattava, lo ricordo, delle condizioni più rilevanti che anche la Commissione Giugni aveva indicato non solo per salvaguardare le deroghe che le parti possono ritenere opportune e/o indispensabili – nella prospettiva dell’autonomo ordinamento – al fine di garantire l’adeguamento delle previsioni di livello superiore alle concrete situazioni e interessi da regolare, ma anche per rafforzare il raccordo tra politiche contrattuali di diverso livello, confermando che il ruolo di governo del sistema contrattuale e del decentramento doveva rimanere saldamente affidato ai soggetti negoziali nazionali e, dunque, al contratto nazionale: insomma, per favorire la sperimentazione ‘controllata’ di nuovi assetti normativi e rendere il modello contrattuale più elastico, ma comunque coeso.
Né il ccnl metalmeccanici del 2009, firmato solo da Cisl e Uil, né gli altri contratti nazionali stipulati – tutti unitariamente – dopo l’accordo interconfederale, hanno però dettato una disciplina in materia di clausole di uscita: probabilmente proprio per non aggravare, nel primo caso, e per gestire, negli altri, i problemi connessi alla firma separata degli accordi interconfederali e le prevedibili conseguenze negative che la divisione dei sindacati avrebbe potuto avere sulla gestione e l’efficacia dei contratti di categoria rinnovati.
Questa è la situazione nella quale è stato stipulato l’accordo di Pomigliano: un accordo che ha disatteso del tutto le previsioni dell’Accordo Interconfederale Confindustria e ignorato la mancanza di una disciplina delle clausole di uscita nel contratto nazionale e le sue motivazioni.
In queste condizioni mi è parso subito evidente che l’accordo costituiva uno ‘strappo’ rilevante alla funzione del contratto di categoria e andava ancora oltre, perché equivaleva ad un disconoscimento delle scelte compiute dall’associazione di rappresentanza delle imprese. Insomma Pomigliano pre-annunciava scelte ulteriori, come l’uscita dal contratto nazionale e dal sistema di rappresentanza di Confindustria. Tanto vero che la strada delle deroghe al contratto nazionale, riconfermata ad hoc con una appendice al contratto dei metalmeccanici nel settembre 2010, è stata subito scartata perché, si è detto, era inefficace.
Il primo problema che si pone, quindi, in una fase in cui la globalizzazione apre alle imprese inattese, quanto ampie, opportunità di concorrenza sui livelli salariali e sono assenti politiche industriali pubbliche che ne possano contrastare anche gli effetti economico-sociali, è come si evolverà la struttura della contrattazione collettiva e, in particolare, quale ruolo avrà il contratto nazionale, il cui obiettivo naturale è quello di porre alcuni trattamenti – salariali e normativi – al riparo della concorrenza.
L’ambito nazionale, infatti, non è più vantaggioso per le imprese che competono sul mercato globale, come indica la stipulazione da parte Fiat del contratto di primo livello. La crisi economica e produttiva, d’altra parte, favorisce la diffusione di contratti decentrati in deroga peggiorativa. In entrambi i casi, ne risultano limitati i poteri e le prerogative dei soggetti negoziali nazionali.
Penso, perciò, che i processi economici in atto avranno effetti rilevanti sulla struttura contrattuale dei diversi settori, ma non di tutti i settori e non in misura omogenea. In particolare, non credo che in Italia si possa arrivare ad una totale destrutturazione del sistema contrattuale a due livelli, per diverse ragioni. Innanzitutto, perché la nostra struttura produttiva è composta in larghissima parte da piccole e piccolissime imprese, che non fanno contrattazione aziendale. Poi perché per le imprese – e per le loro organizzazioni – il contratto nazionale è uno strumento ancora insostituibile di prevedibilità dei costi e di stabilità delle relazioni sindacali e perché il sistema contrattuale a due livelli costituisce una risorsa, e non un vincolo, quando si devono realizzare – sotto la pressione del mercato – processi di riorganizzazione e di ristrutturazione. Perché, infine, neanche Cisl e Uil sono disponibili a tale cambiamento.
Nel prossimo futuro, quindi, servirà una dose consistente di innovazione organizzativa e contrattuale delle parti sociali e il recupero della cultura del mestiere sindacale: perché, come ha notato Gian Primo Cella, proprio le vicende Fiat, segnate dall’iniziativa dominante dell’azienda e dall’approssimativa qualità dei metodi negoziali, ne indicano un sostanziale appannamento.
Quanto alle organizzazioni imprenditoriali, come ho accennato all’inizio penso che le vicende Fiat – e la loro ricaduta sul sistema contrattuale – costituiscano una sfida a Confindustria ed al ruolo che svolge nel governo nazionale delle politiche contrattuali e del costo del lavoro e nel sistema di relazioni industriali.
A ridimensionare questo ruolo, peraltro, potrebbero concorrere altre trasformazioni in corso, come la costituzione di “Rete Impresa Italia” da parte delle tre grandi organizzazioni delle imprese artigiane – Confartigianato, CNA e Casartigiani -, di Concommercio e di Confesercenti.
Rete imprese Italia segna una svolta radicale nei criteri di organizzazione delle imprese: fa venir meno, in particolare, quelli legati alla diversa tipologia delle imprese e al loro orientamento politico; rafforza quello legato alle dimensioni delle imprese, quelle piccole e piccolissime, che sono la stragrande maggioranza del nostro tessuto produttivo.
Questa fusione segnala, peraltro, la difficoltà – che coinvolge anche i sindacati dei lavoratori – di mantenere e di far funzionare in modo efficace le organizzazioni a fronte della necessità di contenere i costi e, contemporaneamente, di espandere i servizi agli associati, in modo da conservare o estendere la propria capacità di rappresentanza, che è, invece, tendenzialmente in calo.
E proprio da quest’ultimo punto di vista – considerato che la membership di Rete Impresa Italia è notevolmente più ampia di quella di Confindustria – sarà interessante valutare anche gli effetti della sua costituzione sul ruolo dominante finora svolto da Confindustria nel sistema di relazioni industriali.
Lauralba Bellardi professore ordinario di diritto del Lavoro, Università di Bari