La recente decisione di Unicredit di valutare l’ipotesi di distribuire proprie azioni ai dipendenti, insieme alla discussione avviata dalla proposta del governo di mettere sul mercato una quota delle azioni di Poste Italiane S.p.A., sembrerebbero voler riaprire la discussione sul tema dell’azionariato dei dipendenti.
Nel passato ci sono state diverse esperienze in tal senso, basta citare, solo a titolo di esempio, il caso della privatizzazione di Telecom Italia e quello di Alitalia, tuttavia, nessuno ha mai affrontato una questione di fondo che ha caratterizzato queste sperimentazioni.
La questione centrale riguarda il ruolo dei lavoratori in quanto azionisti della propria azienda.
La distribuzione delle azioni ha avuto, nelle diverse esperienze, un elemento in comune: le stesse venivano offerte ai dipendenti con il solo vincolo di non poterle vendere entro i tre anni, decorsi i quali, i dipendenti erano, a tutti gli effetti, dei normali azionisti e come tali guidati unicamente, e giustamente, dalla logica di massimizzare il proprio profitto a breve.
Ciò ha comportato l’assoluta irrilevanza delle quote assegnate ai dipendenti nella compagine azionaria. Queste quote non potevano costituire nessun “nocciolo duro” in grado di, almeno condizionare eventuali decisioni societarie.
In questa logica è del tutto evidente che la stessa partecipazione dei dipendenti negli organismi aziendali (es. Consiglio di Amministrazione) non avrebbe alcun riferimento al peso degli stessi nell’assetto dell’azionariato.
Al di là delle diverse proposte in materia di partecipazione dei dipendenti nelle aziende, come la recente iniziativa di legge popolare promossa dalla CISL, oppure la discussione, sempre latente, di favorire con iniziative legislative specifiche quanto disposto dall’art. 46 della costituzione, varrebbe la pena anche, non invece, di analizzare meglio i limiti della distribuzione delle azioni ai dipendenti nelle forme finora applicate.
Esiste, a mio parere, un limite strutturale nelle sperimentazioni effettuate, il limite riguarda il periodo, quello dei tre anni, durante il quale il lavoratore non può vendere le azioni sul mercato.
Tale orizzonte, è un orizzonte di breve periodo che, di fatto, conduce il dipendente-azionista a ragionare in una logica di massimizzazione del proprio rendimento azionario, senza alcun interessa a condizionare, nel medio-lungo periodo, le decisioni strategiche dell’impresa.
In questa logica la distribuzione delle azioni ai dipendenti, finora, non ha prodotto alcun rilevante risultato in materia di democrazia industriale.
Si potrebbe tentare un’altra strada: considerare le azioni distribuite ai dipendenti incedibili per tutta la durata del rapporto di lavoro.
In questo caso il dipendente potrebbe, se lo ritenesse opportuno, riscuotere il valore delle proprie azioni solo nel momento della cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni, per pensionamento o per licenziamento.
Nella durata del rapporto di lavoro i dipendenti, in quanto soggetto collettivo, manterrebbero una presenza stabile e di lungo periodo nell’assetto societario aziendale, sarebbero interessati a incrementare il valore della società nel lungo periodo, persino a partecipare alla scelta di nuovi azionisti nel caso non fossero soddisfatti della gestione aziendale, ovvero a praticare una politica dei dividendi magari orientata alla massimizzazione del profitto aziendale nel medio-lungo periodo piuttosto che nel breve.
Qualcuno potrebbe eccepire che questo vincolo coincidente con la durata del rapporto di lavoro penalizzerebbe il dipendente-azionista nei confronti di un qualsiasi altro investitore, ma il punto è esattamente questo, i dipendenti non sono azionisti come gli altri, non hanno nessun interesse, in quanto soggetto collettivo, a massimizzare il valore dell’azione nel breve periodo a scapito di una crescita della stessa nel medio-lungo termine, non sono dei “riders” del mercato azionario, sono un soggetto di stabilizzazione dell’assetto azionario.
Tra l’altro, nel tempo, acquisirebbero le competenze necessarie per gestire anche complessi processi strategici aziendali, insomma acquisirebbero una logica d’impresa: produttori e non solo dipendenti.
Cinquanta anni fa, nel 1971, il congresso della confederazione generale dei sindacati svedesi decise di avviare una riflessione ad ampio raggio sulla politica salariale mirante a collegare il salario al contributo del lavoratore alla produzione e non alla capacità o possibilità di pagare dell’impresa. Si costituì un gruppo di lavoro, diretto dall’economista Rudolf Meidner, che cinque anni dopo produsse l’ormai noto “Piano Meidner” Il piano avanzava alcune proposte sull’intreccio tra politiche salariali e partecipazione dei dipendenti ai risultati dell’impresa, sulle quali si discusse e polemizzò molto, non solo in Svezia.
Sarebbe interessante riprendere quella discussione che fu appunto uno dei più avanzati esperimenti di Democrazia Industriale.
Chi teme questi scenari? Solo le forze reazionarie del capitalismo? O forse anche un certo angusto e stantio modo di intendere il conflitto sociale nelle società aperte e avanzate?
Luigi Marelli