L’emergenza “Covid19” ci ha messi di fronte, senza preavviso, ad uno straordinario scontro tra diritto al lavoro, diritto alla salute negli ambienti di lavoro e diritto alla riservatezza.
E dunque tra diritti di taratura costituzionale, nessuno escluso: articoli 1,3,4,35, 36 della Carta sul versante lavoristico, articolo 32 sul versante della salute, poi declinato all’interno dell’impresa dal d.lgs. n. 81 del 2008, articoli 13,14 e 15 sul versante della riservatezza.
Uno scontro che già si è consumato in passato ma soltanto in parte. Sul terreno dell’Ilva dove si sono sfidati diritto al lavoro e diritto alla salute e non anche quello alla riservatezza, in parte, su quello di Amazon, dove si sono sfidati diritto alla salute e diritto alla riservatezza e non anche quello al lavoro, a causa dei braccialetti elettronici.
Tutti e tre questi diritti sono entrati simultaneamente in conflitto quando l’attuale emergenza ha imposto, ad esempio, la misurazione della temperatura dei dipendenti all’ingresso dello stabilimento.
E dunque di scegliere se far prevalere, a fronte di un livello di essa tale da indicare una probabile infezione da “Covid19”:.il diritto al lavoro consentendo l’ingresso, il diritto alla salute impedendolo, il diritto alla riservatezza che, in teoria, impedisce il trattamento del dato sanitario perché dato sensibile (art. 5 l. 300 del 1970 e Reg. Ue 679 del 2016, c.d. Gdpr).
O ancora, di compiere la stessa scelta di fronte ad un contatto, stretto o meno, tra un lavoratore ed una persona poi risultata positiva, anche senza sintomi, al “Covid19” o semplicemente di ritorno dalle prime zone c.d. “rosse” del Paese, quelle del Nord colpite per prime dalla pandemia.
Soltanto nella prima metà di marzo, del resto, e dunque a distanza di più di un mese dall’impennata del contagio, è intervenuto il “Protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19”, recepito pochi giorni dopo (il 22 marzo) da un Decreto del Presidente del Consiglio.
Che, in via eccezionale, ha sdoganato la possibilità di sottoporre i lavoratori ai controlli sanitari necessari, imposto misure di restrizioni al loro ingresso in azienda nelle ipotesi di sospetto contagio, e quindi, in definitiva, assegnata prevalenza al diritto alla salute, sul diritto al lavoro e alla riservatezza, seppur nel rispetto della dignità del lavoratore.
Ed allora, e’ interessante chiedersi se l’eccezionalità di tale Protocollo ne giustificherà l’efficacia anche nella “Fase 2” quando l’emergenza sarà cessata ma occorrerà restare allerta per scongiurarne il ritorno o se, piuttosto, esistono vie alternative in grado di garantire un miglior, e più ordinato, bilanciamento dei tre diritti fondamentali in gioco.
Un’alternativa c’è e si chiama tecnologia.
Per l’Annuario del lavoro di quest’anno, ho analizzato il conflitto tra diritto alla salute sul lavoro e diritto alla riservatezza che può consumarsi quando “wearable device”, dispositivi tecnologici indossati dal lavoratore, ne misurano la temperatura, la pressione, il battito cardiaco.
L’interrogativo ha riguardato la scelte del datore di lavoro dinanzi ai dati registrati da tali dispositivi e indiziari, ad esempio, di un imminente infarto, di un calo di pressione del lavoratore o di un qualsiasi altro pregiudizio per la sua salute.
Trattare quei dati, anche oltre i divieti sul trattamento di dati sensibili come quello sanitario, (ibidem, art. 5 l. 300 del 1970 e Reg. Ue 679 del 2016, c.d. Gdpr) e bloccare l’attività lavorativa nel rispetto del diritto alla salute del lavoratore; oppure, osservare rigorosamente tali divieti nel rispetto del diritto alla riservatezza e restare inerte con i rischi e le responsabilità che ne derivano?
Rispondevo che una tecnologia come la blockchain, c.d. catena di blocchi, e’ in grado di bilanciare questi due diritti. Grazie ad essa, anche sotto la forma di “smart contracts”, infatti, e’ possibile trattare i dati sanitari captati dai “wearable devices” e quindi evitare al lavoratore i pregiudizi per la sua salute, ma in un perimetro di legittimità: quello tracciato da algoritmi intelligenti, o volendo etici, installati su tali dispositivi.
Ed allora, perché non ricorrere a questa stessa soluzione per la “Fase 2”? Si tratterebbe di un’alternativa alle misure eccezionali previste dal Protocollo del 14 marzo scorso.
Anziché, controlli sanitari a tappeto, tamponi di massa e più in generale misure particolarmente rigide, una semplice tecnologia indossabile in grado di rilevare possibili infezioni da “Covid19”.
Vorrebbe dire riconoscere alla tecnologia l’importante valore che merita. Un “vaccino” in grado di curare il mercato del lavoro più che un “virus” in grado di distruggerlo. Grazie alla sua capacità, da un lato, di risolvere quel conflitto straordinario tra diritti fondamentali, di cui è stata in qualche moda figlia la scelta del lockdown, dall’altro, di consentire un graduale e più sereno ritorno alla normalità o, in una parola sola, il riavvio delle attività economiche.
Ex malo bonum. Dobbiamo ricordarlo.
Ciro Cafiero