La presentazione di un disegno di legge sul salario minimo legale rappresenta un bel successo per le forze di opposizione al governo di Giorgia Meloni. Si sono infatti compattate su un tema serio, e anche abbastanza sentito dagli italiani se il 64% di loro sono d’accordo secondo un’indagine svolta da un istituto demoscopico per conto de la Repubblica. Manca all’appello Italia viva di Matteo Renzi, è vero, ma forse questo non è un difetto, perché può essere che porti un po’ di chiarezza sull’effettiva collocazione di questo partito nello schieramento parlamentare. E comunque gli esponenti di Italia viva sostengono di non essere contrari alla misura, ma solo di vedere degli errori nel disegno di legge presentato in Parlamento, che vorrebbero correggere in sede di discussione. Sta di fatto che, al di là delle assenze, la presentazione di un progetto comune come il salario minimo è certamente un successo, perché l’esistenza di una vera opposizione è fondamentale per il livello di democrazia del paese, che non può esistere senza un contraddittorio tra le diverse realtà politiche che convivono in parlamento.
Ben venga, quindi, una discussione nel merito. Che comunque non sarà agevole per le opposizioni, perché il governo, lo ha detto la Meloni e lo ha ripetuto il ministro Calderone, è decisamente contrario a questa innovazione, ritenendo i danni che ne deriverebbero superiori ai benefici attesi. Tesi peraltro condivisa dalla Cisl. Il sindacato di Luigi Sbarra non ha mai accettato che materie di stretta competenza del sindacato, come è certamente quella della dinamica salariale, sia regolata da una legge, sostenendo che solo con la contrattazione debba essere determinata. Cgil e Uil sono invece d’accordo con Schlein e compagni, anzi spingono con forza per ottenere l’intervento legislativo, il che però si traduce in un avvitamento delle divisioni che già attraversano il mondo sindacale.
Tutto ciò, comunque, ha ben poco a vedere con gli interessi dei lavoratori, o quanto meno della gran parte di loro. Anche se si arrivasse a una legge, gli effetti non ricadrebbero su tutti. Per esempio, non sull’industria: lo ha ribadito recentemente anche Carlo Bonomi, il presidente degli industriali, ricordando che tutti i contratti collettivi nazionali firmati da Confindustria con Cgil, Cisl e Uil prevedono una soglia retributiva minima ben maggiore di quella indicata dal disegno di legge. Ma anche negli altri comparti economici le conseguenze sarebbero poca cosa, perché anche i contratti collettivi nazionali firmati per il terziario, l’agricoltura, la cooperazione, dalle grandi confederazioni datoriali con Cgil, Cisl e Uil, prevedono una soglia retributiva minima più elevata. Esistono certamente alcune categorie che non arrivano ai 9 euro, per esempio i settori delle pulizie e della vigilanza privata, ma si tratta di una percentuale molto contenuta rispetto alla totalità del lavoro dipendente.
Ma allora da dove deriva l’entusiasmo con il quale è stata lanciata questa offensiva contro il lavoro povero? Deriva dal fatto che il lavoro povero certamente esiste. Esiste la povertà, come ha documentato la Caritas, che parla dell’esistenza di 5,5 milioni di poveri in Italia, con una pericolosa tendenza alla crescita, ed esiste il fenomeno del lavoro povero perché, sempre secondo i dati Caritas, di quei poveri il 26% ha un lavoro, e tuttavia non riesce ugualmente ad arrivare alla fine del mese. E non sono nemmeno i meno acculturati a vivere questa tragedia, perché in quel 26% di working poors non mancano i laureati.
Il punto, però, è che il lavoro povero è alimentato da altre e diverse realtà. Perché il lavoro non è uguale per tutti. Ci sono, e sono tanti, coloro che lavorano con contratti regolari ma con orari molto ridotti, per pochi giorni alla settimana. Per l’Istat chi lavora anche solo due giorni al mese è da considerare comunque un lavoratore dipendente, ma se si lavora solo per due giorni e’ evidente che non si hanno i mezzi per campare. Poi ci sono coloro che hanno un contratto di lavoro, ma vecchio, obsoleto, semplicemente perché non viene rinnovato da anni. E sono milioni di persone: solo il contratto del commercio, per dire, si applica a 3 milioni di persone, è scaduto da ben quattro anni e non c’è stato verso di rinnovarlo. Tanto è vero che Confcommercio (che è contraria al salario minimo legale) l’anno passato ha ritenuto opportuno dare comunque ai lavoratori un’una tantum per alleviarne le difficoltà.
Ci sarebbero poi, in questo triste elenco, anche i lavoratori ai quali viene applicato un contratto pirata. Come e’ noto, anche questi contratti sono regolarmente catalogati dal Cnel, ma prevedono minimi salariali molto ridotti rispetto a quelli firmati dai confederali. Le polemiche sui contratti pirata sono sacrosante, se non fosse che tutti sembrano dimenticare che si tratta di contratti applicati complessivamente a poche migliaia di persone, un nulla rispetto alla totalità del lavoro dipendente. Realtà da censurare e abolire, è vero; ma non possono essere i contratti pirata la giustificazione per il salario minimo legale.
A chiudere questo elenco di sofferenze c’è poi il lavoro nero, quello che si svolge al di fuori di qualsiasi legalità. Gli occupati in questo, diciamo cosi, “settore”, sono tantissimi, guadagnano pochi spicci e per lo più sono oggetto di uno sfruttamento indegno di un paese altamente industrializzato. Tutto questo andrebbe combattuto, anche duramente, ma in concreto ben poco si fa per debellare la piaga. Forse l’introduzione di un salario minimo per legge sarebbe un monito per questi sfruttatori, forse. Quindi, che il salario minimo venga pure stabilito per legge, ma non ci si illuda di combattere davvero per questa via la piaga del lavoro povero, realtà che avrebbe bisogno di ben altre misure di interdizione.
Massimo Mascini