È lodevole e importante il Manifesto per il lavoro che hanno scritto Giorgio Benvenuto e Marco Cianca e che Il diario del lavoro ha pubblicato questa settimana. Perché il lavoro è sempre meno centrale nell’agenda della politica, ma resta la base della nostra vita e della nostra economia. Accendere i riflettori è azione positiva, può portare risultati concreti. Ma per arrivare all’obiettivo bisogna stare bene attenti al punto dal quale si parte. Per capire cosa occorra fare, è necessario e utile avere chiara la situazione che si vuole modificare.
Benvenuto e Cianca partono da una visione molto negativa dell’esistente. Il loro bicchiere non è mezzo vuoto, è vuoto quasi del tutto. I due autori non vedono un orizzonte vicino, sanno dove si dovrebbe arrivare, ma sembrano scoraggiati, in difficoltà nell’indicare i punti di forza dai quali partire. Nella loro analisi c’è quasi soltanto precarietà, sfruttamento, anche becero, l’immobilità di ogni ascensore sociale, il trionfo dei rentiers. Stiamo tornando, affermano, al primo industrialismo, quello fatto di sopraffazione, di incomprensioni verso le esigenze altrui, di egoismi, che avranno fatto grande l’economia, ma con un prezzo sociale intollerabile.
Io non credo che la realtà sia così dura. La precarietà è un dato di fatto, nessuno lo nega, lo sfruttamento esiste, la marginalità del lavoro è davanti agli occhi di chi li tiene aperti. Tutto questo è vero. Ma esistono anche forti assist sui quali si può far conto in un’azione di riscatto e che nel Manifesto non sono citati. La forte rete della contrattazione, per esempio. Il sindacato confederale, forte di 11 milioni di iscritti. Le grandi imprese, che sono sempre più numerose, e le grandi associazioni datoriali, che dettano l’andamento delle relazioni industriali. La grande capacità di resistenza e resilienza degli italiani, che anche nelle difficoltà più forti sono capaci di trovare la via di uscita che permette la ripresa.
Certo, la politica è per lo più assente nel grande campo del lavoro, i tempi felici del riformismo, che pure c’è stato, sono passati, al momento vince il trasformismo, il disinteresse, la miopia di chi dovrebbe elaborare una strategia, ma non riesce nemmeno a individuare una tattica vincente. Ma la partita non è persa, basta guardare agli ultimi risultati elettorali. E’ vero che alle amministrative ha votato solo poco più del 40% di coloro che ne avevano diritto, ma il sovranismo non ha vinto, tutt’altro. La politica è debole, è vero, tanto che i partiti hanno dovuto ricorrere a Mario Draghi per non disperdere la fortuna in arrivo dall’Europa. Ma, appunto, Draghi c’è, ed è sicuramente per il nostro paese un punto preciso e determinato di riferimento.
Certo, il sindacato si è indebolito, non esistono più i grandi leader del passato, ma è vivo e lotta con tenacia, forte del grande esercito dei suoi delegati, circa centomila persone in tutte le aziende, grandi e piccole che siano, che rappresentano il tessuto connettivo del mondo del lavoro, una forza importantissima per la tenuta della coesione sociale e, quindi, per il livello di democraticità del paese. E lo stesso si può dire per i loro principali interlocutori, le associazioni imprenditoriali, che hanno dimostrato di saper scegliere quando sono state chiamate a prendere decisioni importati per il futuro dell’economia oltre che del lavoro. Ci sarà, c’è senz’altro il piccolo imprenditore un po’ miope, che non riesce a guardare al di là del proprio naso, che non vuole in fabbrica il sindacato, che se può risparmia sui salari. Ma non è questo il tratto distintivo della classe imprenditoriale, che non investe come dovrebbe e come gli converrebbe, ma che certamente è diverso dal suo progenitore, quello dei tempi della prima industrializzazione.
Questi due attori, sindacati e imprenditori, hanno messo in essere una fortissima realtà di relazioni industriali, fatta di contrattazione coraggiosa, densa di capacità inventiva, capace di affrontare e risolvere i piccoli e grandi problemi che tutti i giorni esplodono nel mondo della produzione. La rete degli enti bilaterali e dei grandi contratti nazionali di lavoro testimoniano la forza e la reattività di questo impegno. Si potrebbe obiettare che rappresentano certamente un dato negativo le centinaia di contratti nazionali pirata, nati per soffocare le richieste salariali e i diritti dei lavoratori, mortificando il senso stesso delle relazioni industriali, ma tutto va ridimensionato alla realtà: perché quei contratti, che certamente vanno cancellati e l’impegno a farlo è molto diffuso, quei contratti pirata interessano solo una parte molto marginale di lavoratori. La loro eliminazione resta quindi un impegno del mondo del lavoro, ma non esclusivo e centrale.
Contratti nazionali forti e incisivi e contratti aziendali forse poco diffusi, ma, lì dove esistono, certamente in grado di produrre risultati concreti. Il tratto distintivo di tutta questa contrattazione è la sempre maggiore attenzione che si presta alla persona, alle esigenze dei lavoratori, non solo perché rappresentano un perno fondamentale dell’economia delle singole aziende, ma perché è sempre più diffusa la consapevolezza della necessità di andare incontro alle esigenze, ai desideri, alle necessità delle singole persone. Ne fa fede lo Statuto della persona, messo a punto questo mese da Enel e dai sindacati di settore, che rappresenta certo un passo in avanti in questa direzione, ma che è solo un esempio di questa crescente attenzione alla persona. Ne fa fede, per esempio, l’affermazione del diritto alla formazione continua del lavoratore, non perché questi sia più produttivo nella sua azienda, ma perché abbia maggiori chances quando e se si deve presentare sul mercato del lavoro. Un atto di attenzione, ma anche una precisa risposta alla richiesta che viene dalla società, come dimostra la great resignation, l’ondata di dimissioni che sta crescendo anche in Italia e che risponde proprio a una società che ha esigenze precise e vuole realizzarle col proprio lavoro.
Ben venga quindi il Manifesto del lavoro di Benvenuto e Cianca, perché le storture sono forti e anzi crescono, ma sapendo che ogni azione comunque non partirebbe da zero. Il riformismo non è morto in Italia. Fatica, ma esiste.
Massimo Mascini