“Una cosa è sicura: sotto la spinta dell’innovazione, il mondo del lavoro è stato investito, e ancor di più lo sarà nei prossimi anni, da quella che ormai molti definiscono come una grande trasformazione. Il problema che ne segue è: cosa bisogna fare per affrontare questa trasformazione in modo costruttivo? La risposta a questa domanda, naturalmente, non è facile. Ma quel che è peggio, per quanto ci riguarda più da vicino, è che in Italia non abbiamo ancora trovato non dico questa risposta, ma, forse, neppure il modo giusto per cercarla.” Parola di Irene Tinagli, parlamentare del Partito Democratico, appartenente alla commissione Lavoro della Camera. Ma, soprattutto, economista dotata di una ricca esperienza internazionale, maturata studiando e insegnando fra Stati Uniti, Svezia e Spagna e collaborando con il Dipartimento per gli affari economici e sociali dell’Onu.
Questa insoddisfazione, per il modo in cui i temi del rapporto fra lavoro e innovazione sono affrontati nel nostro Paese, è stata recentemente espressa dall’on. Tinagli in diverse occasioni, partecipando a convegni e dibattiti, o scrivendo articoli come quello apparso su “La Stampa” del 28 febbraio e significativamente intitolata Superiamo la paura dei robot.
Allora, on. Tinagli, cosa c’è che non va nei termini in cui da noi si discute di innovazione, lavoro e occupazione?
“C’è che il dibattito pubblico, nel nostro Paese, affronta spesso i temi del lavoro e del mercato del lavoro in un modo, o anzi in modi, che non ci aiutano a definire le strategie di cui dobbiamo dotarci.”
In che senso?
“In un duplice senso. Da un lato, si tende a parlare di lavoro sotto l’urto di crisi occupazionali di tipo aziendale o settoriale. In questi casi, lo sguardo è rivolto al passato, alla difesa di assetti precedenti all’insorgere della o delle crisi e, per conseguenza, alla loro gestione attraverso varie forme di ammortizzatori sociali. Il che, nell’immediato, può comprensibilmente rassicurare i lavoratori vittime della crisi, ma non ci consente di fare passi in avanti in un’ottica di prospettiva, che sia capace di guardare al futuro.”
“Dall’altro lato, il dibattito sul mercato del lavoro è segnato da anni dal prevalere di un’impostazione giuslavoristica. Ora non sarò certo io a negare che si debba dare grande attenzione alle norme che regolano il mercato del lavoro. Dico solo che quest’approccio è insufficiente.”
E cosa ci vorrebbe, invece?
“Ci vorrebbe un’ottica economica complessiva che consentisse di analizzare le tendenze di medio e di lungo periodo, collegando la trasformazione del lavoro a fattori di cambiamento quali l’innovazione tecnologica e organizzativa, gli investimenti, l’intreccio di crisi e sviluppo. Se non si adotta quest’approccio economico, la nostra capacità di analizzare ciò che accade nel mercato del lavoro, con le sue diverse evoluzioni, e quindi poi cosa accade all’occupazione, risulta necessariamente limitata.”
E cosa si potrebbe vedere con quest’ottica economica complessiva?
“Beh, innanzitutto un approccio economico alla questione del rapporto fra innovazione e lavoro dovrebbe aiutarci a capire che innovazione è un concetto relativo, che può riguardare fenomeni anche molto diversi. Per esempio, ci sono innovazioni che interferiscono principalmente sui mezzi di produzione, come i robot, e altre che interferiscono di più sull’organizzazione del lavoro, come le piattaforme informatiche. Ciascuna ha un diverso impatto sul mondo del lavoro, e anche all’interno di queste macro categorie si possono identificare sottocategorie con impatti diversi.”
Cioè?
“Prendiamo l’innovazione dei mezzi di produzione, che negli ultimi anni ha riguardato in modo particolare l’automazione e l’introduzione di robot sempre più sofisticati. In alcuni casi si è trattato di un’automazione che ha sostituito completamente il lavoro umano (e questo, forse, è l’aspetto che più ha colpito l’opinione pubblica, ingenerando timori sempre più diffusi). Molto più spesso, si è trattato, però, di innovazioni che hanno sostituito solo alcune mansioni svolte dal lavoratore, lasciando quindi spazio al lavoratore stesso per altre mansioni più sofisticate e aprendo possibilità per un lavoro più gratificante e di migliore qualità.”
“Altre tipologie di innovazione, come le piattaforme informatiche, hanno portato cambiamenti di natura diversa che riguardano le modalità di organizzazione del lavoro, più che i mezzi di produzione, portando incrementi di produttività e riduzione dei costi. Queste stesse tipologie di innovazione, però – e qui pensiamo ai casi di Uber o di Airbnb -, hanno anche causato riduzioni di guadagni per altri attori economici che prima dominavano un certo settore di mercato. Inoltre, in questa categoria di innovazioni abbiamo avuto esempi di distruzione e contemporanea trasformazione di posti di lavoro. Le piattaforme di commercio elettronico, per esempio, hanno provocato una crisi profonda del commercio tradizionale, ma parallelamente una crescita della logistica.”
“Sono tutti fenomeni che hanno cambiato il mercato del lavoro, provocando la scomparsa di alcune mansioni o la trasformazione di altre, ma anche l’apparizione di nuovi lavori. Ogni caso andrebbe analizzato in profondità, senza fare di tutta l’erba un fascio seminando panico.”
Può darci una visione più ravvicinata di questi fenomeni?
“I processi di innovazione che sostituiscono il lavoro umano sono di due tipi e hanno diverse conseguenze. Da un lato, l’automazione e l’impiego più massiccio di robot nell’industria manifatturiera fanno decrescere la necessità di personale che esegua attività manuali, ripetitive e routinarie che, infatti, sono quelle più facilmente automatizzabili. Dall’altro, nascono nuove mansioni che possono implicare anche competenze più elevate. E ciò proprio perché il lavoro umano, potendo contare sull’integrazione delle nuove tecnologie, si può evolvere e può elevare il proprio valore aggiunto. E questo oggi può accadere non solo nel manifatturiero, ma anche nei lavori ad elevato contenuto professionale, dalla diagnostica medica alle analisi finanziarie, dalle analisi legali fino alla redazione di testi giornalistici.”
“Ma sia nel primo che nel secondo gruppo di casi, non è detto che l’innovazione provochi una sostituzione netta di lavoro umano con i computer e i robot. In realtà, ciò che accade spesso è il cambiamento delle funzioni richieste al lavoro umano che tendono a diventare più complesse.”
“Per fare un esempio, il fatto che oggi gran parte della diagnostica possa essere svolta dai computer anziché da operatori umani, non significa che gli esseri umani scompariranno da questo campo, ma solo che avranno strumenti per lavorare in modo più accurato, efficace ed efficiente. Ci sarà, insomma, una trasformazione delle competenze necessarie per poter assolvere a mansioni più complesse.”
E quindi?
“Quindi alcune indagini, come quella condotta dall’Ocse nel 2016, sostengono che il vero problema non è la rottamazione delle attuali mansioni e, quindi, dei posti di lavoro da esse derivanti, ma la trasformazione delle attività che oggi vengono svolte da molti lavoratori. Per utilizzare appieno le nuove tecnologie in tutte le loro potenzialità, sarà necessario modificare il loro attuale modo di lavorare. E ciò, in linea di massima, facendone crescere i contenuti professionali.”
Insomma, tutto bene?
“Non ho detto questo. Siamo di fronte a processi complessi. Diverse, e anche più diversificate di quanto ho accennato fin qui, possono essere, per esempio, le conseguenze della creazione di piattaforme digitali utilizzabili nell’ambito della cosiddetta sharing economy. L’autista di Uber viene chiamato ‘partner’ da chi organizza la piattaforma, ma non è un imprenditore. In molti casi è uno pseudo-lavoratore dipendente non contrattualizzato, ovvero un lavoratore che ha un rapporto disintermediato con l’organizzazione che gli dà la possibilità di lavorare. E qui siamo di fronte a processi di frantumazione del mercato del lavoro e, quindi, di atomizzazione delle figure dei singoli lavoratori che potrebbero portare ad un peggioramento della qualità del lavoro anziché a un miglioramento.”
“Altro caso è quello di Amazon, dove abbiamo un’impresa, basata sull’impiego di tecnologie digitali, che distrugge posti di lavoro nel settore del commercio al dettaglio, ma – come già accennato – ne crea di nuovi in un altro settore, quello della logistica. Qui non siamo di fronte a un cambio di mansioni, ma alla sostituzione, nel campo del commercio al dettaglio di merci varie, di un sub settore con un altro sub settore.”
“A seguito di questi processi, per fare un esempio, negli ultimi anni, negli Stati Uniti, è cresciuta la richiesta di camionisti. Ma bisogna sapere che la stessa logistica verrà, a sua volta, trasformata da ulteriori fasi di innovazione. Nel nostro caso, dall’avvento di camion senza autista e di droni.”
“Ma proprio questo è il punto. E’ abbastanza facile prevedere quali lavori tenderanno a scomparire. Molto più difficile capire quali nasceranno. Ed è questo che determina la paura che sorge di fronte all’innovazione e alle sue conseguenze. Solo che con la paura del nuovo non si va lontani.”
Riassumendo?
“Direi che l’impatto dell’innovazione sul mondo del lavoro produce conseguenze diverse. Da un punto di vista qualitativo, in certi casi ci può essere una perdita di professionalità, in altri una crescita, in altri ancora lo spostamento da un settore a un altro. Mentre, da un punto di vista quantitativo, l’impatto occupazionale di un dato tipo di innovazione non può essere misurato solo nell’ambito in cui questa innovazione sorge, ma nell’insieme del sistema economico.”
“Infatti, se nuovi investimenti e nuove tecnologie consentono a un’impresa di accrescere la propria produttività, e se la struttura fiscale incentiva il reinvestimento dei profitti così realizzati in ulteriori attività produttive, vi sarà ancora una correlazione positiva fra investimenti e occupazione. Ma non è detto che ciò sia verificabile nei confini dell’impresa stessa: l’impresa potrebbe reinvestire i profitti in un allargamento della sua capacità produttiva, oppure in maggiori servizi o in nuovi settori di attività: in questi ultimi due casi l’occupazione che si andrà a creare sarà in settori diversi da quello originario.”
Stante tutto quello che ha detto sin qui sul piano dell’analisi, quale dovrebbe essere la via per affrontare in modo costruttivo le conseguenze dei processi in corso?
“Come ho già ricordato, nel dibattito pubblico italiano, quando si parla della trasformazione del lavoro si pensa subito, come per un riflesso condizionato, agli ammortizzatori sociali, ai sussidi di disoccupazione. Ma la questione vera non è come fronteggiare la disoccupazione, ma come evitarla. Ora io penso che solo un processo di formazione professionale continua può aiutare i lavoratori ad affrontare il mutamento in corso e, quindi, a impadronirsi di nuove mansioni.”
“La formazione è la chiave che può aprire a molti lavoratori la porta del futuro. Purtroppo, però, questo è uno dei problemi rispetto alla cui soluzione, in Italia, siamo più carenti. Nel discorso pubblico del nostro Paese, quando si parla di formazione si pensa subito alla scuola. Ma un conto è la formazione di base, quella che dà la capacità di apprendere e che spetta primariamente alla scuola. Altra cosa è la formazione continua dei lavoratori, ovvero una formazione che è assolutamente necessaria in un mondo che macina innovazioni a ritmi talvolta impressionanti. Bisogna dunque impegnarsi per studiare quali siano le direzioni assunte dai processi di innovazione in corso e anticipare, o quantomeno accompagnare, le nuove competenze che via, via vengono richieste ai lavoratori.”
E se non a scuola, dov’è che va fatta questa formazione professionale?
“Bisogna rafforzare la formazione effettuata dalle imprese nei confronti dei propri dipendenti. Infatti, nessuno meglio delle imprese può cogliere con rapidità il mutare delle competenze necessarie a chi per esse lavora. E ciò sia per rendere i lavoratori più attrezzati per affrontare, in prospettiva, ciò che potrà essere loro richiesto dai processi di innovazione tecnologica, sia per alzare fin da subito la capacità complessiva delle imprese stesse di reggere alla competizione globale grazie alla qualità delle proprie produzioni. E credo vada sottolineato che questa esigenza formativa non deve coinvolgere solo i dipendenti già dotati di un’istruzione universitaria, come gli ingegneri, ma tutti i dipendenti, compresi quelli attualmente addetti a mansioni meno qualificate.”
Ma lei pensa che questo basti a risolvere i problemi della cosiddetta disoccupazione tecnologica?
“Ovviamente la formazione professionale, da sola, non basta. Durante il Governo Renzi, ad esempio, Parlamento e Governo si sono posti il problema di ripensare alle forme di intervento pratico dello Stato sui processi in corso, a partire dalla creazione dell’Anpal, l’Agenzia nazionale politiche attive del lavoro. Un’agenzia che ha, fra i propri scopi, quello di accompagnare chi ha perso il precedente lavoro, attraverso opportuni percorsi formativi, nella ricerca di una nuova occupazione.”
“Credo però che la cosa importante sia quella di suscitare una visione complessiva di questa problematica in cui i poteri pubblici si assumano un ruolo di indirizzo, e anche di intervento sulle dinamiche del mercato del lavoro. E in cui, d’altra parte, le parti sociali si facciano carico, nella loro autonomia, di questa stessa problematica. Da questo punto di vista, considero come un esempio virtuoso il fatto che il contratto dei metalmeccanici, recentemente rinnovato, abbia stabilito la formazione professionale come un diritto soggettivo dei lavoratori.”
@Fernando_Liuzzi