Pubblichiamo il 1° e il 3° capitolo della tesi di dottorato di Federico Micheli “Lavoro, diritti e catene globali del valore. teorie e tecniche di regolazione” discussa presso l’Università degli studi di Brescia. La tesi ha vinto la borsa di studio intitolata a Lauralba Bellardi, scomparsa due anni fa, voluta dalla sua famiglia e dall’Università di Bari.
Lauralba Bellardi per lunghi anni è stata docente alla facoltà di Scienze Politiche presso l’ateneo pugliese e membro della Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, condirettrice del Giornale di Diritto del lavoro e relazioni industriali fondato dal “padre” dello Statuto dei lavoratori, di cui la professoressa Bellardi era stata allieva, e membro del Comitato dei garanti de Il Diario del lavoro.
Capitolo 1
Le catene globali del valore
1. Analisi del fenomeno delle catene globali del valore
1.1 Introduzione
Negli ultimi decenni la globalizzazione ha cambiato radicalmente i modelli organizzativi dell’attività di impresa, incidendo in modo profondo sul mondo del lavoro. I processi di esternalizzazione e di delocalizzazione hanno messo in crisi il fordismo e dato l’avvio ad un’epoca in cui le imprese agiscono in uno spazio globale senza frontiere. Gli storici ci mettono tuttavia in guardia dai rischi di effettuare delle periodizzazioni, invitandoci a guardare non solo agli elementi di cesura tra diverse epoche ma anche allo sviluppo progressivo dei fenomeni che portano all’elaborazione di un nuovo concetto o di un nuovo paradigma interpretativo13. Tale avvertimento è particolarmente pertinente quando si intende utilizzare il termine “globalizzazione”, il cui vasto successo deriva, tra le varie ragioni, anche dall’ampio numero di discipline che investe, tra cui rientrano certamente l’economia, l’informatica, il diritto e in generale tutte le scienze sociali. Va quindi premesso che, nel corso della storia, vi sono stati vari momenti in cui si è assistito a una crescita degli scambi e delle interconnessioni tra gli stati e che, in base al criterio
adottato, ciascuno di questi momenti può essere definito “globalizzazione”14.
Vi è, però, un generale consenso sul fatto che negli ultimi decenni si sia verificata una nuova globalizzazione, che ha portato a una sempre maggior interdipendenza tra le
13 J. OSTERHAMMEL, N.P. PETRSSON, Storia della globalizzazione, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 25-
27.
14 G. THERBORN, Globalisations: Dimentions, Historical Waves, Regional Effects, Normative
Governance, in International Sociology, 15, 2000, p. 151-179.
diverse aree del mondo15. Tradizionalmente, questa integrazione economica, culturale e sociale è stata attribuita all’insieme di vari fattori, tra cui spiccano la liberalizzazione degli scambi internazionali e lo sviluppo di nuove tecnologie di telecomunicazione e di trasporto, insieme a un mutato quadro geopolitico derivante dalla scomparsa della divisione del mondo in due blocchi. Tali fattori, inoltre, sono stati accompagnati da processi di deregolamentazione che hanno favorito la libera circolazione dei capitali16. I mutamenti storici appena descritti hanno reso possibile una sempre maggior integrazione economica tra diversi paesi, offrendo nuove prospettive alle imprese, le quali hanno progressivamente esternalizzato parte delle proprie attività nella ricerca di un modello organizzativo più efficiente, volto anche a sfruttare i vantaggi competitivi offerti dalla delocalizzazione dei processi produttivi in aree del mondo ove era possibile ridurre i costi.
Per buona parte del periodo storico precedente il paradigma economico dominante era stato quello dell’impresa integrata verticalmente, nella quale tutti i passaggi necessari alla produzione di un bene venivano effettuati dalla stessa impresa o, quantomeno, da imprese controllate. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso, invece, molte imprese multinazionali hanno iniziato un’opera di cosiddetta “disintegrazione”, attraverso la quale segmenti sempre più rilevanti del ciclo produttivo sono stati affidati a soggetti esterni, terzi rispetto all’impresa, attraverso relazioni di natura contrattuale. Tale processo ha coinvolto due dimensioni, quella geografica, attraverso le pratiche di delocalizzazione (offshoring), e quella organizzativa, attraverso le pratiche di esternalizzazione (outsourcing)17. Il tratto caratterizzante questa nuova organizzazione dell’impresa è stata la frammentazione dei processi produttivi e la loro ri-articolazione attraverso delle catene globali caratterizzate da relazioni di natura contrattuale18.
15 Cfr. U. BECK, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carrocci Editore, 1999. L. GALLINO, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Bari, 2000. D. RODRIK, La globalizzazione intelligente, Laterza, Bari, 2014.
16 S. RODOTÀ, Diritto e diritti nell’era della globalizzazione, in S. SCARPONI (a cura di),
Globalizzazione e diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2001.
17 K. B. SOBEL-READ, Global Value Chains: A Framework for Analysis, in Transnational Legal Theory, n. 5, 3, 2014, pp. 374-375.
18 V. BORGHI, L. DORIGATTI, L. GRECO, Il lavoro e le catene globali del valore, cit.
Tale evoluzione della struttura delle imprese multinazionali attraverso catene globali che oggi vengono definite “del valore”19 pone innumerevoli interrogativi, anche in relazione al ruolo che il fattore lavoro gioca nell’economia globale. La frammentazione dei processi produttivi, infatti, ha avuto notevoli conseguenze sia sul modello di sviluppo economico intrapreso dai paesi in via di sviluppo che sull’organizzazione del lavoro.
Il fenomeno appena descritto ha assunto una dimensione tale che è stato affermato che il capitalismo contemporaneo stesso “si presenta come una rete di reti quanto mai ampia, articolata e capillare”20. Secondo le stime delle UNCTAD, la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, circa l’80% del commercio internazionale passa attraverso le catene globali del valore e la partecipazione dei paesi in via di sviluppo in queste rappresenta oltre il 23% del loro prodotto interno lordo21. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), nel suo World Employment and Social Outlook del 2015 ha fornito una stima del numero di lavoratori impiegati nelle catene globali del valore22. Tale ricerca, che si basa sui dati forniti dal World Input- Output Database ed è relativa a 40 paesi, evidenzia una rapida ascesa di lavoratori coinvolti nelle catene globali del valore, il cui numero è passato da 296 milioni nel 1995 a 453 milioni nel 2013, che equivalgono a più di un quinto del totale dei lavoratori delle economie analizzate23. Alla luce di un fenomeno di tale portata alcuni studiosi, soprattutto appartenenti alle discipline della sociologia dello sviluppo e alla geografia economica, si sono interrogati sulle opportunità e sui rischi della partecipazione alle catene globali del valore, sia per le nazioni che per i lavoratori coinvolti.
19 Sull’utilizzo dell’espressione “catene globali del valore” si veda il paragrafo 1.2 del presente capitolo.
20 V. BORGHI, L. DORIGATTI, L. GRECO, cit, p. 39.
21 UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development), Global Value Chains and Development. Investment and Value Added Trade in the Global Economy (UNCTAD/DIAE/2013/1), Ginevra, 2013.
22 Tale opera costituisce la stima più recente del numero di lavoratori impiegati nelle catene globali del valore. Esistono altre stime, ancora più recenti, ma di carattere settoriale. Cfr. ILO, World Employment and Social Outlook 2015: The Changing Nature of Jobs, International Labour Office, Ginevra, 2015.
23G. DELAUTRE, Decent Work in Global Supply Chain: an Internal Research Review, ILO Research Department, Working Paper n. 47, 2019. Per una descrizione della metodologia utilizzata si veda: T. KIZU et al., Linking jobs in global supply chains to demand, in International Labour Review, n. 158, 2, 2019, p. 213–244.
1.2 La teoria delle catene globali del valore
A partire dalla prima metà degli anni ’90, alcuni studiosi, prevalentemente afferenti ai campi della sociologia dello sviluppo e della geografia economica, hanno sviluppato quella che oggi viene chiamata teoria delle Catene Globali del Valore (Global Value Chains o GVCs)24 e che precedentemente veniva descritta dagli stessi autori come teoria delle Catene Globali del Prodotto (Global Commodity Chains o GCCs)25. Gli antecedenti teorici di tali teorie sono, da un lato, la teoria della dipendenza e, dall’altro, la teoria del sistema mondo, che ne costituisce una variante. La teoria della dipendenza nasce con l’intento di analizzare la natura delle relazioni tra stati che si trovano al “centro” del sistema economico globale e stati che si trovano in “periferia”, in aperta opposizione a quelle teorie che ritengono che tutte le società progrediscano attraverso fasi di sviluppo simili e che, quindi, il maggior o minor sviluppo di un determinato paese sia determinato da un fattore temporale, come tale recuperabile. Secondo la teoria della dipendenza, pertanto, i paesi che si trovano in “periferia” sono meno sviluppati anche per la natura della relazione che li lega ai paesi maggiormente sviluppati i quali li “spingono a specializzarsi in quelle attività marginali e subalterne che si conciliano con gli interessi del centro”26. La teoria del sistema-mondo, invece, è stata elaborata negli anni ’80 da Immanuel Wallerstein e si pone l’obiettivo di analizzare in ottica storica, a partire dalla nascita del capitalismo moderno nel sedicesimo secolo, lo sviluppo e i mutamenti dell’economia internazionale, in particolare attraverso lo studio della divisione del lavoro e della distribuzione dei ricavi che avviene tra i soggetti coinvolti in una catena di produzione27. Il sistema di produzione di beni e servizi, pertanto, viene
24 L’espressione Global Value Chains può essere tradotta in italiano con catene globali del valore, mentre l’espressione Global Commodity Chains può essere tradotta con catene globali del prodotto. Nel presente lavoro si utilizzeranno anche le abbreviazioni GVCs e GCCs. Per una genealogia della teoria delle GVCs e per un’analisi critica delle sue varie differenziazioni si veda in particolare J. BAIR, Global Commodity Chains: Genealogy and Review in J. BAIR (ed.), Frontiers of Commodity Chain Research, cit.
25 Quando il termine è stato coniato dagli studiosi Terence Hopkins and Immanuel Wallerstein si faceva riferimento unicamente alla teoria della commodity chain. Si veda J. BAIR, Global Commodity Chains: Genealogy and Review, in J. BAIR (ed.), Frontiers of Commodity Chain Research, cit, p. 1.
26 V.BORGHI, L. DORIGATTI, L. GRECO, cit., p. 19.
27T. HOPKINS, I. WALLERSTEIN, Commodoty Chains in the Capitalist World-Economy Prior to 1800, in G. GEREFFI, M. KORZENIEWICZ (ed.), Commodity Chains and Global Capitalism, Praeger, Westport, 1994.
da subito concepito come una catena, i cui snodi sono diversamente collocati geograficamente. In particolare, i soggetti che trattengono la parte maggiore del profitto sono tipicamente collocati nel “centro” mentre i restanti in “periferia” e, sebbene si possano avere dei mutamenti geografici circa la collocazione del “centro” e della “periferia”, le dinamiche di distribuzione diseguale dei benefici rimangono sostanzialmente inalterate28.
Con la pubblicazione dell’opera Commodity Chains and Global Capitalism, avvenuta nel 1995, gli studiosi Gary Gereffi e Miguel Korzeniewicz pongono le basi per la teoria delle Catene Globali del Prodotto, progressivamente differenziandosi dalla teoria del sistema-mondo, dalla quale esplicitamente traggono il proprio impianto teorico di partenza.29 Come evidenziato da Jennifer Bair nella sua opera di analisi sulla genesi della teoria delle Global Commodity Chains, le differenze con le teorie del sistema mondo e della dipendenza riguardano prevalentemente due aspetti fondamentali30. In primo luogo, nella teoria delle GCCs vi è una maggior attenzione al ruolo delle imprese, ed in particolare alle imprese che rivestono una posizione di vertice nelle catene globali contemporanee. In secondo luogo, la teoria delle GCCs presta maggior interesse al ruolo che le catene globali possono giocare nell’industrializzazione e nello sviluppo dei paesi, anche attraverso la formulazione di specifiche politiche di integrazione delle proprie industrie nazionali nelle catene globali31.
Secondo la teoria delle GCCs, vi sono varie dimensioni attraverso cui una catena globale di produzione può essere analizzata: l’insieme di input e output, che costituiscono i processi attraverso i quali si giunge alla creazione di valore aggiunto; la dimensione spaziale della catena; la struttura della governance e il contesto
28 J. BAIR, Global Commodity Chains: Genealogy and Review, in J. BAIR (ed.), Frontiers of Commodity Chain Research, cit., p. 7-8.
29 G. GEREFFI, M. KORZENIEWICZ (ed.), Commodity Chains and Global Capitalism, Praeger, Westport, 1994. Si vedano B. DAVIRON, S. PONTE, The Coffee Paradox: Global Markets, Commodity Trade and the Elusive Promise of Development, Zed Books, 2005 citati in J. BAIR, op. cit., p. 8.
30 J. BAIR, Global Commodity Chains: Genealogy and Review, in J. BAIR (ed.), Frontiers of Commodity Chain Research, cit.
31 Infatti, la teoria delle GCCs si differenza dalla teoria del sistema mondo anche perché per quest’ultima “le influenze internazionali e i fattori esogeni hanno quasi sempre un portato negativo” (Martinelli, citato in V. BORGHI, L. DORIGATTI, L. GRECO, cit., p. 21) e, pertanto, i suoi sostenitori invitano a non cadere nella “illusione dello sviluppo” cfr. ARRIGHI, 1990, citato in S. PONTE, G. GEREFFY, G. RAJ- REICHERT., Introduction to the Handbook on Global Value Chains, in S. PONTE, G. GEREFFY, G. RAJ- REICHERT (ed.), Handbook on Global Value Chains, Edward Elgar Publishing, 2019, p. 8.
istituzionale32. Un elemento chiave di questa teoria è costituito dall’analisi dei processi di riorganizzazione intrapresi a partire dalla fine degli anni Settanta, attraverso i quali le imprese multinazionali hanno esternalizzato molte attività a basso valore aggiunto nei paesi in via di sviluppo, pur mantenendo il controllo sull’intera catena di produzione33. In particolare, il sociologo Gary Gereffi teorizza l’esistenza di due ideal-tipi di catene globali, determinate da diverse strutture di governance. Si tratta delle catene guidate dal produttore (producer-driven) e quelle guidate dal compratore (buy-driven).
Le catene producer-driven sono quelle ad alta intensità di capitale e tecnologia, in cui l’impresa multinazionale controlla le fasi di produzione del prodotto, e sono tipiche della grande impresa manufatturiera di settori come quello automobilistico, quello elettronico e aerospaziale. Sebbene la realizzazione di alcuni componenti, soprattutto quelli ad alta intensità di lavoro, sia esternalizzata, tutta l’attività ad alta intensità di capitale viene mantenuta in capo all’azienda che guida la catena.
Le catene buy-driven, invece, sono quelle in cui l’impresa “guida” è costituita da un grande marchio o un distributore, il quale controlla una catena di produzione molto spesso localizzata in paesi in via di sviluppo. La produzione dei beni finiti (e non di soli parti o componenti), infatti, è integralmente demandata a soggetti terzi che si trovano in paesi dove il costo del lavoro è particolarmente basso. Questo tipo di governance è frequente nei settori dell’abbigliamento, degli articoli sportivi, dei giocattoli e dell’elettronica di consumo. Il ruolo principale dell’impresa che guida la catena è quello di disegnare i prodotti e controllare la catena di produzione, che viene affidata attraverso relazioni contrattuali a dei fornitori. I profitti, quindi, non vengono generati, come nelle catene guidate dal produttore, per via di un vantaggio tecnologico o grazie ad economie di scala, bensì grazie all’attività design, marketing e vendita del prodotto34.
Il framework teorico introdotto da Gereffi ha avuto un grande successo, anche per la sua capacità di offrire diversi livelli di analisi, dal macro al micro a quello di settore.
32 G. GEREFFI, The Organization of Buyer-Driven Global Commodity Chains: How U.S. Retailers Shape Overseas Production Networks, in G. GEREFFI, M. KORZENIEWICZ (ed.), Commodity Chains and Global Capitalism, cit.
33 J. NEILSON et al., Global Value Chains and Global Production Networks in the Changing International Political Economy: An introduction, in Review of International Political Economy, n. 21, 1, 2014, p. 1–8.
34 G. GEREFFI, The Organization of Buyer-Driven Global Commodity Chains: How U.S. Retailers Shape Overseas Production Networks, cit., pp. 97-98.
Esso infatti si presta per essere utilizzato sia da coloro che si occupano di studi sullo sviluppo, e che sono pertanto interessati a capire come determinati paesi possano beneficiare dalla partecipazione all’economia globale, ma anche da coloro i quali sono interessati a studiare l’organizzazione delle imprese che svolgono attività transnazionale. Tuttavia, nel corso degli anni, insieme con l’aumento della letteratura scientifica che ha adottato tale teoria, sono emerse anche alcune critiche e teorie alternative che hanno portato ad una sua parziale riformulazione35. Innanzitutto, vi è stato un cambio dal punto di vista terminologico, con la scomparsa del termine commodity. Infatti, in lingua inglese, tale termine ha il significato di “merce” e viene usato per indicare prevalentemente delle materie prime o beni di basso valore aggiunto. Per tale ragione, si è progressivamente passati all’utilizzo del termine “valore” (value), che viene ritenuto più “inclusivo” e in grado di meglio descrivere anche tutte quelle fasi non propriamente di trasformazione di un prodotto che tuttavia sono ideone a generare valore aggiunto (si pensi alla fase del design, del marketing, della vendita e persino del riciclo)36. Inoltre, nel corso del tempo, per via anche degli studi relativi al settore dell’elettronica, vari autori sono giunti alla consapevolezza che la dicotomia tra catene guidate dal produttore e catene guidate dal compratore non era più in grado di cogliere a pieno la complessità delle dinamiche di coordinamento tra le varie imprese di una catena37. Per tale ragione, lo stesso Gary Gereffi insieme a Timothy Sturgeon e John Humphrey nel 2005 ha proposto un nuovo modello, teorizzando l’esistenza di cinque
35 Si veda, ad esempio, il lavoro di Kaplinsky che, utilizzando parzialmente il framework teorico di Gereffi, unito ad una teoria sulle rendite, si interroga sulle disuguaglianze generate dalla globalizzazione cfr. R. KAPLINSKY, Spreading the Gains from Globalization : What Can Be Learned from Value-Chain Analysis?, in Problems of Economic Transition, 2004, pp. 74-115. Tra le teorie che prendono le mosse dal lavoro di Gereffi pur fornendo rilievi critici, si vedano in particolare i lavori della scuola di geografia economica dell’Università di Manchester: J. HENDERSON et al., Global Production Networks and the Analysis of Economic Development, in Review of International Political Economy, n. 9, 3, 2002, p. 436– 464.
36 Rimane tuttavia aperto il dibatto se il passaggio da Global Commodity Chain a Global Value Chain sia stato solamente terminologico. Se per alcuni i termini sono sostanzialmente interscambiabili, per altri con il passaggio alla teoria delle Global Value Chains vi è una maggior attenzione alla teoria dei costi di transazione. Si veda la ricostruzione effettuata da J. BAIR, Global Commodity Chains: Genealogy and Review, cit., p. 12.
37 Si veda, in particolare: J. HUMPHREY, H. SCHMITZ, ‘Governance and Upgrading: Linking Industrial Cluster and Global Value Chain Research’, IDS Working Paper, 120, Institute of Development Studies, Brighton, 2000; J. HUMPHREY, H. SCHMITZ, How Does Insertion in Global Value Chains Affect Upgrading in Industrial Clusters?, in Regional Studies, 36(9), 2002, 1017–27; T. STURGEON, Modular Production Networks: A New American Model of Industrial Organization, in Industrial and Corporate Change, 11, 2002, p. 451–96.
tipologie di catene, sulla base di tre diverse variabili38. Tali variabili sono costituite da:
- la complessità delle informazioni e delle conoscenze richieste per effettuare le transazioni b) la misura in cui queste informazioni possono essere “codificate” c) la tipologia e le capacità dei fornitori in relazione alle transazioni richieste. Sulla base dell’intensità dei valori richiesti per ciascuna delle variabili indicate, sono state individuate cinque tipologie di modelli governance:
- Markets. In tali catene vi è una bassa necessità di coordinamento tra compratori e fornitori, in quanto le transazioni sono semplici e i fornitori sono autonomamente in grado di produrre i beni richiesti dai Lo scambio di informazioni tra compratori e fornitori si limita alle informazioni sul prezzo di un determinato bene, in una classica dinamica, perlappunto, di mercato.
- Modular. Nelle catene “modulari” vi è un basso grado di coordinamento tra compratori e fornitori, che avviene solitamente attraverso il riferimento a degli standard Sebbene il livello di coordinamento sia superiore rispetto a quello di una semplice transazione di mercato, il ricorso a criteri condivisi già conosciuti da entrambe le parti (gli standard tecnici), fa sì che sia spesso possibile avere relazioni caratterizzate da flessibilità, velocità e intercambiabilità tra compratori e fornitori.
- Relational. Nell’ipotesi in cui, invece, le relazioni tra compratori e fornitori non siano facilmente codificabili e rivestano un certo grado di complessità, le catene del valore assumono una struttura che viene descritta quale “relazionale”. Vi è una situazione di mutua dipendenza, in quanto il compratore è interessato alle capacità del fornitore di realizzare prodotti complessi seguendo le indicazioni del
- Captive. Quando le transazioni sono difficilmente codificabili e i requisiti complessi ma i fornitori hanno scarse competenze, si assiste a catene del valore del tipo captive. In questo caso l’impresa compratrice esercita una forte attività di controllo sul fornitore, il quale molte volte si limita ad eseguire un segmento della lavorazione del prodotto. Poiché il fornitore è fortemente dipendente dalle indicazioni del compratore e soggetto
38 G. GEREFFI et al., The Governance of Global Value Chains, in Review of International Political Economy, n. 12, 1, 2005, p. 78–104.
al suo controllo, si trova in una situazione di particolare debolezza e, pertanto, si suole dire che è “prigioniero” (captive).
- Hierarchy. In questa ipotesi, la complessità dei prodotti e l’assenza di fornitori sufficientemente affidabili, insieme con la necessità di mantenere il controllo sulla proprietà intellettuale, fanno sì che l’impresa compratrice decida di realizzare essa stessa il prodotto attraverso imprese controllate. Pertanto, tale modello coincide con quello dell’impresa integrata verticalmente.
La teoria sulla governance nelle catene globali del valore fornisce un valido strumento analitico per comprendere quali sono le relazioni e le asimmetrie di potere all’interno della struttura del capitalismo contemporaneo39. In particolare, l’utilità della teoria consiste anche nel fatto che le catene del valore vengono considerate per loro stessa natura dinamiche e che, pertanto, si assiste ad una costante rimodulazione del ruolo delle imprese guida e dei fornitori, attraverso processi di rinegoziazione, diminuzione o consolidamento delle posizioni di potere degli uni rispetto agli altri40. Ad esempio, la pandemia da Covid-19 sta causando una parziale riconfigurazione di molte catene del valore, in special modo facendo prestare maggior attenzione alla loro capacità di resistere ad eventi imprevisti41.
39 La teoria delle GVCs, che si rivela particolarmente utile per l’analisi del sistema produttivo contemporaneo, non è tuttavia la prima che si interroga sulle relazioni di potere e i meccanismi istituzionali che contribuiscono a dare forma al sistema economico. Si veda, su questo, la scuola della regolazione francese cfr. R. BOYER, The Regulation School. A Critical Introduction, Columbia University Press, New York, 1990 e, con particolare riguardo ai fenomeni di globalizzazione, R. BOYER, D. DRACHE (ed.), States Against Markets. The Limits of Globalization, Routledge, London, 1996. Oppure, nel campo della sociologia e delle relazioni industriali, W. STREECK, Social Institution and Economic Performance. Studies of Industrial Relations in Advanced Capitalist Economies, Sage, London, 1992.
40 Ad esempio, da ormai alcuni anni si sta assistendo ad un consolidamento, sia geografico che dimensionale, di alcuni fornitori nei paesi in via di sviluppo al quale consegue un loro maggior potere nella struttura delle GVCs. Cfr. G. GEREFFI, Global Value Chains in a post-Washington Consensus World, in Review of International Political Economy, n. 21, 1, 2014, p. 9–37; K. SOBEL-READ, M. MACKENZIE, Law and the Operation of Global Value Chains: Challenges at the Intersection of Systematisation and Flexibility, in J. CONNELL ET AL. (ed.), Global Value Chains, Flexibility and Sustainability, Springer Singapore, Singapore, 2018, p. 63–76.
41 Tale caratteristica viene descritta quale “resilienza” delle catene del valore. Sul concetto di supply chain resilience e sul cambio di prospettiva dettato dalla pandemia da Covid-19 cfr. D. IVANOV, A. DOLGUI, Viability of Intertwined Supply Networks: Extending the Supply Chain Resilience Angles Towards Survivability. A Position Paper Motivated by COVID-19 Outbreak, in International Journal of Production Research, n. 58, 10, 2020, p. 2904–2915; V. H. REMKO, Research Opportunities for a More Resilient Post-COVID-19 Supply Chain. Closing the Gap Between Research Findings and Industry Practice, in International Journal of Operations & Production Management, n. 40, 4, 2020, p. 341–355.
Tuttavia, ai fini del presente lavoro è utile sottolineare come gli studiosi, anche in questo caso prevalentemente i sociologi, abbiano iniziato a interrogarsi criticamente sul rapporto tra la partecipazione di paesi e lavoratori alle catene globali del valore e suoi presunti benefici economici e sociali. A tale fine sono stati coniati i termini di economic upgrading e di social upgrading e sono state indagate le relazioni tra l’uno e l’altro42. Con il primo termine si indica “il processo che consente agli attori economici, principalmente alle imprese, di spostarsi da attività a basso contenuto di valore aggiunto ad attività ad alto contenuto di valore aggiunto”43. Con il secondo termine, invece, si indicano i benefici riguardanti i lavoratori dovuti dalla partecipazione ad una catena globale del valore sia sotto il profilo del miglioramento dell’occupazione attraverso standard misurabili (livello dei salari, regolarità contributiva, rispetto dell’orario di lavoro) che sotto il profilo del riconoscimento di tutele e diritti a livello individuale e collettivo44. La letteratura sociologica, da una decina di anni, ha quindi evidenziato come non sempre ad un miglioramento della posizione di un’impresa nella catena globale del valore corrisponda anche un miglioramento delle condizioni dei lavoratori impiegati45. Gli studi sull’upgrading sociale, pertanto, sono strettamente legati ad una visione “inclusiva” dei processi di globalizzazione e sono volti ad analizzare il ruolo che diversi fattori giocano nel fare sì che i lavoratori siano compartecipi dei benefici derivanti dalla partecipazione ad una catena globale del valore. Tale filone di ricerche è certamente stato favorito anche dall’elaborazione della teoria dei Network Globali di Produzione (Global Production Networks o GPNs) che, pur prendendo le mosse dalla teoria delle Catene Globali del Valore ne propone una parziale riconfigurazione, in particolar modo ritendendo che debba essere prestata maggior attenzione agli aspetti istituzionali,
42 J. SALIDO, T. BELLHOUSE, Economic and Social Upgrading: Definitions, Connections and Exploring Means of Measurement, Economic Commission for Latin America and the Caribbean ECLAC, United Nation Publication, Mexico, 2016.
43 V.BORGHI, L. DORIGATTI, L. GRECO, cit., p. 26. Si veda per una prima teorizzazione del concetto:
- GEREFFI, International Trade and Industrial Upgrading in the Apparel Commodity Chain, in Journal of International Economics, 48, 1999.
44 S. BARRIENTOS et al., Economic and Social Upgrading in Global Production Networks: A New Paradigm for a Changing World, in International Labour Review, n. 150, 3–4, 2011, p. 319–340.
45 Si veda, in particolare, lo studio di Knorringa e Pelger che evidenzia come non vi siano evidenze circa il nesso tra upgrading economico e sociale: P. KNORRINGA, L. PEGLER, Globalisation, Firm Upgrading And Impacts on Labour, in Tijdschrift Voor Economische en Sociale Geografie, n. 97, 5, 2006,
- 470–479. Cfr. anche S. BARRIENTOS et al., Economic and Social Upgrading in Global Production Networks: A New Paradigm for a Changing World, cit.
territoriali e sociali nei quali una catena di produzione è embedded46. Grazie a questi sviluppi nella letteratura, il fattore lavoro, che inizialmente veniva considerato come un fattore esogeno nelle catene globali del valore, ha progressivamente acquistato centralità.
Dopo aver descritto le principali caratteristiche delle teorie citate, si rende opportuna una precisazione sulla terminologia adottata nel presente lavoro. Infatti, sebbene la teoria dei Global Production Networks ponga maggior attenzione ai fattori socio-economici delle varie zone ove le catene globali si sviluppano, questo lavoro adotterà la terminologia delle Global Value Chains, per diversi ordini di ragioni. Il primo è che, quanto alla descrizione del fenomeno socio-economico del capitalismo “reticolare”, le due teorie offrono analisi che per ampi tratti si sovrappongono e, pertanto, la preferenza per l’una o per l’altra terminologia deve essere ricercata altrove. La terminologia delle Catene Globali del Valore, in questo caso, viene preferita in quanto la genesi stessa del termine è stata adottata con l’intento di essere il più “inclusiva” possibile e di rendere possibile un’analisi multidisciplinare del fenomeno47. Inoltre, la particolare attenzione posta dalla teoria delle GVCs ai meccanismi di governance delle catene consente di mettere meglio a fuoco il ruolo giocato dalla regolazione, anche giuslavoristica, nei processi di sviluppo delle catene del valore. Tale scelta, tuttavia, non vuole trascurare l’importate portato della teoria dei Network Globali di Produzione, il cui accento sugli elementi socio-culturali dei territori certamente riveste grande utilità analitica soprattutto per le ricerche che analizzano specifici settori o adottano una metodologia fondata anche su casi-studio. Tuttavia, poiché nel presente lavoro si adotterà, come illustrato più avanti, una metodologia diversa, si ritiene preferibile utilizzare la terminologia delle Global Value Chains. Infine, occorre precisare il significato dell’espressione Global Supply Chain, che viene usata con grande frequenza, anche da parte della letteratura giuridica,
46 Per la teoria dei Global Production Network, infatti, è di centrale importanza il concetto di embeddedness, secondo il quale per poter comprendere pienamente le specificità di ciascuna catena di produzione è necessario indagare il contesto istituzionale e sociale entro cui si sviluppa. Cfr. J. HENDERSON et al., Global production networks and the analysis of economic development, cit. J. NEILSON et al., Global value chains and global production networks in the changing international political economy: An introduction, cit.
47 J. BAIR, Global Commodity Chains: Genealogy and Review, cit., p. 6.
ma non sempre con altrettanto rigore scientifico. Essa è stata coniata quale approccio integrato nella gestione degli aspetti logistici e informativi da parte delle imprese, nell’ottica di considerare le catene di fornitura quale un’unica entità e migliorarne l’efficienza e semplificarne la gestione. Pertanto, il campo di utilizzo specifico di tale espressione è quello degli studi manageriali del cd. supply chain management48. Sebbene venga genericamente utilizzato anche per indicare le catene di fornitura in altri settori disciplinari, essa rimane un’espressione che fa riferimento ad una particolare disciplina e che, per tale ragione, ha un significato limitato agli aspetti logistico-gestionali del fenomeno. Come detto, invece, l’espressione “Catene Globali del Valore” descrive il fenomeno indagato anche nelle sue implicazioni sociali oltre che economiche e pertanto si ritiene preferibile il suo utilizzo.
1.3 Il successo della teoria delle catene globali del valore
Come si è visto nel paragrafo precedente, la teoria delle GVCs nasce e si sviluppa al di fuori del campo di studi dell’economia tradizionale sulla globalizzazione, che ha quale oggetto di analisi principale quello degli scambi commerciali tra gli stati49. Gli studiosi che adottano il paradigma delle GVCs appartengono invece, almeno inizialmente, ai campi della sociologia economica, della geografia economica e dell’economia politica internazionale, i quali prestano maggior attenzione alle dinamiche relative allo sviluppo dei paesi. Nonostante questa genesi “eterodossa”, la teoria delle GVCs ha avuto ampio successo, non solo accademico, ed è stata progressivamente adottata, in varia misura e con varie tempistiche, da pressoché tutte le organizzazioni internazionali50. Tra le prime a intraprendere studi che hanno adottato tale prospettiva vi è stata l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), mossa dall’interesse a comprendere come i mutamenti nell’organizzazione delle imprese multinazionali si ripercuotano sul mondo del lavoro51 e l’Organizzazione delle Nazioni
48 Ibidem.
49 Cfr. G. GEREFFI, Global Value Chains in a post-Washington Consensus World, cit.
50 F. MAYER, G. GEREFFI, International Development Organizations and Global Value Chains, in
Handbook on Global Value Chains, Edward Elgar Publishing, 2019, p. 570–584.
51 Per avere un’idea della portata di tale paradigma, si tenga presente che tra il 2014 e il 2019 l’OIL ha pubblicato 150 studi che hanno adottato un approccio basato sulle GVCs o sui GPNs. Si veda: D.
Unite per lo Sviluppo Industriale (UNIDO), il cui mandato è quello di promuovere uno sviluppo industriale sostenibile e inclusivo. Secondo Gereffi, non è casuale che queste due organizzazioni siano state le prime ad avere adottato il paradigma delle GVCs, in quanto sono quelle che, più di altre, hanno provato a resistere al modello di sviluppo sintetizzato con espressione Washington Consensus, quell’insieme di politiche di stampo neoliberista adottate da parte di alcune organizzazioni internazionali nei confronti dei paesi in via di sviluppo52. Inoltre, anche istituzioni non governative hanno iniziato a adottare la prospettiva delle GVCs, in particolar modo per costruire delle campagne pubbliche nei confronti delle imprese guida delle catene di produzione53.
Tuttavia, nel periodo successivo alla crisi economica globale degli anni 2008-2009, contemporaneamente ad una progressiva messa in discussione di alcuni assunti del modello neoliberista, anche altre organizzazioni internazionali hanno adottato in vario modo una prospettiva basata sulla teoria delle GVCs tra le quali: l’Organizzazione Mondiale del Commercio54, il Forum Economico Mondiale55, il Fondo Monetario Internazionale56, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico57, la Banca Mondiale58.
GUILLAUME, Decent Work in Global Supply Chains. An Internal Review Research, Working paper n. 47, International Labour Office, 2019.
52 Per Washington Consensus si fa generalmente riferimento all’insieme di politiche di stampo neoliberista adottate da istituzioni internazionali quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il Dipartimento del Tesoro statunitense e rivolte ai paesi in via di sviluppo, in particolare quelli dell’America Latina. Il termine è stato coniato dall’economista John Williamson nel 1989, quando propose un pacchetto di misure di politica economica per i paesi in via di sviluppo che si trovavano in crisi. Cfr. J. STIGLITZ, La Globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino, 2002, p. 14 e ss. G. GEREFFI, Global Value Chains in a Post-Washington Consensus World, cit.
53 Si veda, in particolare il report di Kate Raworth realizzato per Oxfam: K. RAWORTH, Trading Away Our Rights: Women Working in Global Supply Chains, Oxfam international, Oxford, 2004.
54 Per una rassegna delle numerose pubblicazioni sulle GVCs effettuate dall’Organizzazione Mondiale del Commercio si veda il sito di tale istituzione, alla pagina: https://www.wto.org/english/res_e/publications_e/gvcd_report_17_e.htm
55 Ad esempio, il Forum Economico Mondiale ha ormai un programma di ricerche che adotta la prospettiva delle GVCs. Cfr. S. DOHERTY, A. VERGHESE, Global Value Chain Policy Series: Introduction, World Economic Forum, 2018.
56 Anche il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato un numero sempre crescente di ricerche che adotta la prospettiva delle GVCs. Si veda, tra i tanti: D. BODDIN, The Role of Newly Industrialized Economies in Global Value Chains, IMF Working Paper No. 16/207, 2016. A. IGNATENKO et al., Global Value Chains: What are the Benefits and Why Do Countries Participate, IMF Working Paper 19/18, 2019.
57 Le pubblicazioni effettuate dall’OCSE sul tema si possono trovare sul sito dell’istituzionale alla pagina: https://www.oecd.org/sti/ind/global-value-chains.htm (ultimo accesso: 21 luglio 2020).
58 L’adozione da parte della Banca Mondiale del framework delle GVCs viene generalmente fatta risalire alla pubblicazione, avvenuta nel 2010, del report dal titolo Global Value Chains in a Postcrisis
Va sottolineato che il mandato e gli obiettivi delle istituzioni internazionali citate sono molto diversi tra loro e, pertanto, anche l’utilizzo che è stato fatto della chiave di lettura dell’economia globale proposta dalla teoria GVCs è variegato. Senza entrare nel dettaglio dell’utilizzo che le varie organizzazioni internazionali hanno fatto del concetto di catena globale del valore che, come visto nel paragrafo precedente, si presta per analisi a vari livelli (marco, micro, di settore, etc.), ciò che rileva è che vi sia stata una generale convergenza su come l’economia globale sia cambiata negli ultimi decenni. Tale constatazione consente di poter fondare il presente lavoro su una lettura delle dinamiche di regolazione del capitalismo globale che poggia le proprie basi su una teoria ampiamente condivisa circa il ruolo delle imprese multinazionali e il modo in cui operano a livello transazionale.
2. Il diritto e le catene globali del valore
Come si è visto nei capitoli precedenti, la teoria delle GVCs nasce e si sviluppa in ambito sociologico ed economico. Anche per tale ragione, il diritto non ha mai rivestito l’oggetto principale dello studio delle catene globali del valore, essendo stato solitamente trattato come un fattore esogeno. Tuttavia, in tempi recenti parte della dottrina – non solo giuridica – ha evidenziato come il diritto in realtà giochi un ruolo fondamentale nelle dinamiche di controllo e di coordinamento delle catene del valore nonché nella creazione delle strutture di potere che determinano la distribuzione del valore generato da una catena59.
World: A Development Perspective, curata da O. Cattaneo, G. Gereffi e C. Staritz. Per una ricognizione critica circa l’utilizzo della teoria delle GVCs da parte di Organizzazioni Internazionali si veda F. MAYER-
- GEREFFI, International Development Organizations and Global Value Chains, cit.
59 In particolare, un gruppo di lavoro dell’Institute for Global Law and Policy (IGLP) dell’Università di Harvard, dopo aver constatato che manca, tra i giuristi, una approfondita teorizzazione del tema, ha cercato di mettere al centro dell’agenda di ricerca il ruolo del diritto nelle catene globali del valore. Cfr. THE IGPL GLOBAL PRODUCTION WORKING GROUP, The role of law in global value chains: a research manifesto, in London Review of International Law, n. 4, 1, 2016, p. 57–79. Sul tema del diritto (in particolare, ma non solo, del lavoro) e le catene globali del valore si segnalano le seguenti recenti opere:
- SANGUINETI RAYMOND, Le catene globali di produzione e la costruzione di un diritto del lavoro senza frontiere, cit.; V. BRINO, Lavoro dignitoso e catene globali del valore: uno scenario (ancora) in via di costruzione, in Lavoro e diritto, 3, 2019, pp. 553–570 e della stessa autrice la recente monografia V. BRINO, Diritto del lavoro e catene globali del valore. La regolazione dei rapporti di lavoro tra globalizzazione e localismo, Giappichelli, Torino, 2020. Si veda inoltre la recente special issue dedicata dall’European Review of Contract Law (vol. 16, 2020) alle catene globali del valore, che testimonia la crescente attenzione al tema da parte della dottrina giuridica.
Preliminarmente, infatti, è necessario evidenziare che è il diritto stesso che rende possibile gli scambi commerciali, predisponendo “l’infrastruttura” (diritto di proprietà, dei contratti, del commercio internazionale, etc.) che consente di effettuare transazioni attraverso diverse giurisdizioni. Il diritto, inoltre, determina le modalità con le quali le transazioni possono avvenire: l’applicazione di un determinato corpus di regole (quello dei contratti) o di un altro (quello del diritto societario) comporta notevoli conseguenze, influenzando le scelte delle imprese multinazionali come quelle relative all’operare tramite soggetti terzi oppure tramite società controllate. Ad esempio, come evidenziato da Kevin Sobel-Read, la scelta di integrarsi verticalmente garantisce alle imprese guida un forte controllo sulle operazioni ma anche una maggior responsabilità legale per le azioni delle società controllate; al contrario, la scelta di operare tramite relazioni di natura contrattuale con soggetti terzi garantisce minori possibilità di essere chiamati a rispondere delle azioni del proprio fornitore e maggior flessibilità60.
Tuttavia, è opportuno non considerare il ruolo del diritto nelle GVCs solamente come quello di un elemento che genera un quadro legale all’interno del quale si muovono le imprese. È necessario spingersi oltre, interrogandosi sulla portata costitutiva del diritto, ovverosia su come esso “costruisca le relazioni di potere tra gli attori che danno luogo ad una particolare forma di governance e generano particolari effetti distributivi”61. Significa, in altri termini, indagare quali siano le dinamiche sottostanti la produzione del contesto normativo che rende possibile determinati processi lungo le catene globali del valore, considerando il diritto un elemento dinamico, che influenza ed è a sua volta influenzato dalle catene globali del valore. Ciò anche in quanto le catene globali del valore sono composte da soggetti molto diversi tra di loro, i quali sono titolari di diverse posizioni giuridiche che contribuiscono a determinarne il potere negoziale e le possibilità di azione. Così, ad esempio, le imprese multinazionali che si trovano al vertice di una catena, in base al luogo in cui operano sono in una certa misura in grado
60 Sebbene tale distinzione sia sempre più sfumata a causa dei tentativi di attribuire delle forme di responsabilità anche ai soggetti che operano tramite relazioni di natura contrattuale. Si veda meglio, sul punto, il capitolo 4 e K. SOBEL-READ, M. MACKENZIE, Law and the Operation of Global Value Chains: Challenges at the Intersection of Systematisation and Flexibility, in J. CONNELL, R. AGARWAL, SUSHIL,
- DHIR (ed.), Global Value Chains, Flexibility and Sustainability, cit., p. 69.
61 Come suggerito da THE IGPL GLOBAL PRODUCTION WORKING GROUP, The role of law in global value chains: a research manifesto, cit. p. 5, T.d.A.
di influenzarne l’ordinamento giuridico, anche attraverso l’interlocuzione o pressioni di varia natura sul regolatore, oppure sono in grado di porsi esse stesse quali regolatori ed introdurre, ove lo reputino necessario, degli standard di natura privatistica che si differenzino dai requisiti imposti dalle norme statali62. Le imprese, inoltre, come osservato da Vardaro, attraverso un uso consapevole della funzione costitutiva della personalità giuridica sono in grado di operare uno “sfruttamento sociale dell’autonomia del sistema giuridico”, creando delle reti di soggetti giuridici ai quali vengono garantiti “immunità e privilegi”63.
Allo stesso modo, le possibilità di azione dei lavoratori che operano lungo le catene globali del valore sono in parte determinate dalla posizione giuridica che gli viene riconosciuta collettivamente: una maggior libertà di associazione garantita dallo stato ove operano favorirà la possibilità di organizzarsi ed eventualmente influenzare il processo politico e la produzione normativa64. Il diritto, quindi, oltre che contribuire a determinare la struttura delle catene globali del valore, è anche uno strumento che viene utilizzato dai vari soggetti coinvolti nelle GVCs (gli stati, le imprese, gli attori sociali, etc.) per provare a modificarne la struttura e renderla rispondente ai propri interessi.
Infine, è utile evidenziare che l’analisi delle catene globali del valore, data la complessità del fenomeno socio-economico, investe necessariamente diversi settori del diritto. Tra le tante, si pongono questioni attinenti alla territorialità del diritto, alla legge applicabile, alla personalità giuridica, al ruolo della sovranità statale e a quello della produzione normativa privata, alle interazioni tra meccanismi di hard law e soft law. Si può quindi concordare con chi ritiene che le GVCs siano un punto di osservazione
62 Si veda, sul punto, D. DANIELSEN, How Corporations Governs: Taking Corporate Power Seriously in Transnational Regulation and Governance, in Harvard Journal of International Law, 46, 2, 2005, p. 411; L. CATA BACKER, Economic Globalization and the Rise of Efficient Systems of Global Private Lawmaking: Wal-Mart as Global Legislator, in University of Connecticut Law Review, 39, 4, 2007. O ancora, J. Arato, che sostiene che le imprese multinazionali abbiano ormai assunto il ruolo di veri e propri legislatori del diritto internazionale, determinando il contenuto delle norme a cui sono soggette: J. ARATO, Corporations as Lawmakers, in Harvard International Law Journal, n. 56, 2015.
63 Studiando le imprese di gruppo, Vardaro infatti osserva come alcune entità possono esistere “non solo in senso giuridico ma anche in senso sociale, soltanto perché il diritto le osserva come autonoma persona giuridica”. G. VARDARO, Prima e dopo la persona giuridica: sindacati, imprese di gruppo e relazioni industriali, in Itinerari, L. GAETA, A.R. MARCHITIELLO, P. PASCUCCI (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1989, p. 345.
64 Si veda l’analisi di Anner, il quale evidenzia come diversi regimi di controllo delle organizzazioni sindacali diano luogo a pratiche di resistenza diverse: M. ANNER, Labor Control Regimes and Worker Resistance in Global Supply Chains, in Labor History, n. 56, 3, 2015, p. 292–307.
privilegiato che consente di riflettere sui confini stessi delle varie discipline giuridiche e metterli in discussione65. Tenendo a mente queste considerazioni, il successivo paragrafo avrà ad oggetto il ruolo del lavoro e le problematiche attinenti alla regolazione lavoristica lungo le catene globali del valore.
3. Il lavoro e le catene globali del valore: tendenze e problematiche della regolazione
Come si è visto nei paragrafi precedenti, lo sviluppo delle catene globali del valore ha portato a dei cambiamenti strutturali nel modo in cui i beni sono realizzati e distribuiti a livello globale. Vi è tuttavia ampio dibattito su come tali cambiamenti abbiano inciso sul mondo del lavoro. È stato più volte evidenziato, infatti, che le catene globali del valore hanno certamente contribuito a creare numerosi posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo ma che, al tempo stesso, hanno contribuito anche alla crescita di violazioni di diritti fondamentali del lavoro di vario tipo66. La letteratura pone l’accento su come “l’effetto redistributivo dell’occupazione a scala globale si scontra con le pressioni al ribasso esercitate sui nodi più periferici della catena produttiva”67. Tali pressioni “al ribasso”, generate dalla struttura stessa delle catene globali e dal ruolo delle imprese multinazionali, sono in grado di riflettersi negativamente sui lavoratori che si trovano nelle aree più marginali del mondo e che molto spesso costituiscono forza-lavoro flessibile e a basso prezzo. Grazie alla struttura reticolare, che attraversa varie giurisdizioni, le imprese multinazionali sono quindi in grado di trasferire le incertezze e i rischi sui fornitori, i quali a loro volta li trasferiscono sui gruppi più vulnerabili di lavoratori68.
65 THE IGPL GLOBAL PRODUCTION WORKING GROUP, The Role of Law in Global Value Chains: a Research Manifesto, cit. p. 6. Vi è anche chi ritiene che, data l’importanza delle GVCs, esse devono costituire l’unità di analisi principale di una specifica disciplina giuridica e non limitarsi ad essere l’oggetto di analisi delle varie discipline (diritto internazionale, dei contratti, societario, del lavoro, etc. etc.). Si veda, sul punto, K. B. SOBEL-READ, Global Value Chains: A Framework for Analysis, cit., p. 366 ss.
66 S. BARRIENTOS et al., Decent Work in Global Production Networks: Framing the Policy Debate,
cit.
67 V.BORGHI, L. DORIGATTI, L. GRECO, cit., p. 98.
68 J. LEE, Global Supply Chain Dynamics and Labour Governance: Implications for Social
Upgrading, ILO Research Paper n. 14, International Labour Office, 2016.
Nell’effettuare tale operazione di trasferimento dei rischi sui gruppi più vulnerabili, alcune catene globali del lavoro si sono dimostrate inoltre particolarmente abili nello sfruttare fattori quali il genere o l’etnia per includere nella propria forza lavoro gruppi di soggetti che garantiscono costi più bassi e maggior flessibilità69. Anche per tale ragione, molti studi hanno posto l’attenzione sulle pratiche delle imprese che occupano una posizione di vertice nelle catene, ritenendole responsabili dei meccanismi che generano condizioni di lavoro non dignitose70.
Il crescente successo del modello organizzativo del cd. fast-fashion fornisce un esempio paradigmatico di come il loro ruolo determini le condizioni di lavoro lungo tutta la catena di produzione: l’attuale strategia di molti marchi globali della moda è quella ridurre gli inventari, disegnare e far produrre un alto numero di capi di abbigliamento, i quali vengono sostituiti di frequente dall’introduzione di una nuova collezione71. Queste pratiche mettono una considerevole pressione sui fornitori, i quali devono essere in grado di rispondere in breve tempo ad un volume variabile di ordini. Come dimostrato da studi empirici sul settore tessile, la necessità di operare velocemente e con poca programmazione spinge quindi tali fornitori a fare ricorso a lavoratori a termine, all’orario straordinario ben oltre i limiti legali, al lavoro informale e a sub-appaltare parte delle ordinazioni ad altri fornitori, spesso ancor meno rispettosi delle norme sul lavoro, incluse quelle sulla salute e sicurezza72. Il settore tessile è uno di quelli ove si sono
69 Si vedano, in particolare, gli studi di Barrientos sulle dinamiche di genere nelle GVCs e sui possibili rimedi cfr. S. BARRIENTOS et al., Gender and Governance of Global Value Chains: Promoting the Rights of Women Workers, in International Labour Review, n. 158, 4, 2019, p. 729–752. Tra gli altri, sul tema delle migrazioni e del lavoro forzato nelle GVCs si veda: J. ALLAIN, A. CRANE, G. LEBARON, L. BEHBAHANI, Forced Labour’s Business Models and Supply Chains, Joseph Rountree Foundation, 2013; AA.VV., Migrant and Child Labour in Thailand’s Shrimp and Other Seafood Supply Chains: Labour Conditions and the Decision to Study or Work, The Asia Foundation and International Labour Organization, Bangkok, 2015.
70 K. PARELLA, Outsourcing Corporate Accountability, in Washington Law Review, n. 89, 2014; M. ANNER, CSR Participation Committees, Wildcat Strikes and the Sourcing Squeeze in Global Supply Chains, in British Journal of Industrial Relations, n. 56, 1, 2018, pp. 75–98; G. D’ONOFRIO, Firms, labor, migrations and unions within tomato value chain in Southern Italy, Ledizioni, Milano, 2020.
71 J. LEE, Global Supply Chain Dynamics and Labour Governance: Implications for Social Upgrading, cit., p. 4.
72 M. ANNER, Squeezing Workers’ Rights in Global Supply Chains: Purchasing Practices in The Bangladesh Garment Export Sector in Comparative Perspective, in Review of International Political Economy, n. 27, 2, 2020, p. 320–347; S. NOVA-C. WEGEMER, Outsourcing Horror: Why Apparel Workers Are Still Dying, One Hundred Years after Triangle Shirtwaist, in R. APPELBAUM, N. LICHTENSTEIN (ed.), Achieving Workers’ Rights in the Global Economy, Cornell University Press, Ithaca, NY, 2017, p. 17– 31.
verificate le peggiori tragedie della storia industriale recente, ma non è l’unico settore dove la pressione “al ribasso” esercitata dall’impresa guida comporta gravi ripercussioni sulla condizione dei lavoratori73. Infatti, sono state evidenziate dinamiche comparabili in praticamente tutti i settori coinvolti dal fenomeno delle catene globali del valore. Così, ad esempio, fenomeni di sfruttamento lavorativo sono presenti in agricoltura, dove spesso la pressione sugli agricoltori fa sì che questi ricorrano a pratiche di intermediazione di manodopera74; nella pesca, che è uno dei settori a maggior rischio di lavoro forzato e traffico di essere umani75; nella produzione di giocattoli e nella manifattura 76 e perfino in settori creativi come in quello delle animazioni e del design77. Anche il settore dell’elettronica, che per l’alta intensità di capitale e innovazione potrebbe a prima vista essere considerato meno a rischio di deficit di lavoro dignitoso, in realtà è anch’esso investito dalle dinamiche di esternalizzazione e delocalizzazione, con gravi conseguenze per i lavoratori coinvolti. Infatti, le imprese “guida”, che progettano e vendono i prodotti elettronici, attuano pratiche di acquisto tali da riversare una grande pressione sui fornitori in quanto caratterizzate da grande volatilità negli ordini e da una costante ricerca di tempi rapidi e prezzi sempre più bassi. In conseguenza di tali richieste, i fornitori fanno ricorso a lavoro precario, temporaneo e spesso utilizzano lavoratori migranti. Il fenomeno ha assunto dimensioni preoccupanti, tanto che una ricerca dell’OIL sul settore dell’elettronica ha dimostrato come, nei paesi
73 Tra gli episodi più noti nel settore tessile vi sono il crollo del Rana Plaza, in Bangladesh, dove persero la vita 1.129 lavoratori e l’incendio dell’Ali Enterprises, in Pakistan, dove persero la vita 289 lavoratori. Si vedano: ILO, The Rana Plaza Accident and its Aftermath, disponibile all’indirizzo http://www.oit.org/global/topics/geip/WCMS_614394/lang–en/index.htm e WRC Factory Investigation
– Ali Enterprises disponibile all’indirizzo https://www.workersrights.org/factory-investigation/ali- enterprises/
74 L’agricoltura è stata definita dall’ILO uno dei settori più pericolosi per quanto riguarda la salute e sicurezza sul lavoro, cfr. ILO, Code of Practice on Safety and Health in Agriculture, Geneva, 2010, p. 5.
- BARRIENTOS, «Labour chains»: Analyzing the Role of Labour Contractors in Global Production Networks, BWPI Working Paper 153, 2011.
75 ILO Report, Caught at Sea: Forced Labour and Trafficking in Fisheries, Ginevra, 2013. IOM, Report on Human Trafficking, Forced Labour and Fisheries Crime in the Indonesian Fishing Industry, 2016.
76 N. LIN-HI, I. BLUMBERG, The Power(lessness) of Industry Self-regulation to Promote Responsible Labor Standards: Insights from the Chinese Toy Industry, in Journal of Business Ethics, n. 143, 4, 2017,
- 789–805; CHINA LABOR WATCH, A Nightmare for Workers: Appalling Conditions in Toy Factories Persist, 2018.
77 D. HESMONDHALGH, S. BAKER: ‘A Very Complicated Version of Freedom’: Conditions and Experiences of Creative Labour in three Cultural Industries, in Poetics, 38, 2010, pp. 4–20; H. YOON, Promoting Decent Work in Global Supply Chains: The Animation/VFX Industry, ILO Sectoral Studies on Decent Work in Global Supply Chains, Ginevra, 2016.
analizzati, nei periodi di picco della produzione il numero di lavoratori precari raggiunga percentuali dell’80 e 90 per cento78. Come evidenziato dagli studi empirici di Richard Locke e altri, queste pratiche, inoltre, spingono i fornitori a fare ricorso al lavoro straordinario oltre i limiti legali e spesso sono causa di violazioni delle norme sulla salute e sicurezza sul lavoro79. Cosa questo significhi per le vite dei lavoratori coinvolti è esemplificato dal caso della Foxconn, il più grande fornitore al mondo nel settore dell’elettronica che assembla prevalentemente i prodotti del marchio Apple. La Foxconn è stata fondata a Taiwan ma ha la maggior parte dei propri stabilimenti in Cina e impiega un gran numero di giovani lavoratori migranti provenienti dalle aree più rurali del paese. Inoltre, è nota per avere un sistema di controllo della forza lavoro particolarmente repressivo80. Ricerche empiriche hanno dimostrato come le condizioni di prezzi e tempi dettate dai compratori dei prodotti assemblati alla Foxconn hanno spinto progressivamente l’azienda ad intensificare i ritmi di lavoro, con turni eccessivi e un sistema di monitoraggio della produttività volto a spremere i lavoratori fino al loro limite di sopportazione fisica81.
I casi citati sono quindi rappresentativi di un fenomeno globale, diffuso in vari settori, e tutt’altro che episodico. Le situazioni di deficit di lavoro dignitoso lungo le catene globali del valore sono endemiche in quanto causate dall’assenza di opportuni meccanismi che controbilancino le spinte del sistema produttivo globale a “scaricare” i rischi e le incertezze sui soggetti più deboli e periferici.
78 La ricerca ha coinvolto cinque paesi, la Cina, il Messico, il Giappone, la Malesia e l’Ungheria: ILO, Ups and Downs in the Electronics Industry: Fluctuating Production and the Use of Temporary and Other Forms of Employment, Issues paper for discussion at the Global Dialogue Forum on the Adaptability of Companies to Deal with Fluctuating Demands and the Incidence of Temporary and Other Forms of Employment in Electronics, Geneva, 2014 citato in R. MCFALLS, The Impact of Procurement Practices in The Electronics Sector on Labour Rights and Temporary and Other Forms of Employment, Working Paper 313, International Labour Office, Ginevra, 2016.
79 R. LOCKE et al., Production Goes Global, Compliance Stays Local: Private Regulation in the Global Electronics Industry, in Regulation & Governance, n. 9, 3, 2015, pp. 224–242.
80 J. CHAN et al., Apple, Foxconn, and China’s New Working Class, in R. APPELBAUM, N. LICHTENSTEIN (ed.), Achieving Workers’ Rights in the Global Economy, Cornell University Press, Ithaca, NY, 2017, p. 173–189.
81 P. NGAI, J. CHAN, Global Capital, the State, and Chinese Workers: The Foxconn Experience, in Modern China, 38, 4, 2012. Tale contesto lavorativo, unito a dormitori e condizioni di vita che non garantiscono la socialità, ha spinto nel solo 2010 ben 18 giovani lavoratori a tentare il suicidio. La contromisura presa dall’azienda è stata quella di installare delle reti protettive per evitare che i lavoratori si gettino dalle finestre dei campus, cfr: THE GUARDIAN, Life and Death in Apple’s Forbidden City, 2017 disponibile all’indirizzo: https://www.theguardian.com/technology/2017/jun/18/foxconn-life-death- forbidden-city-longhua-suicide-apple-iphone-brian-merchant-one-device-extract
Il progressivo peggioramento della condizione dei lavoratori è messo in luce anche da lavori empirici che tengono conto delle tendenze a livello globale. Come evidenziato dal Hendrickx e altri, un lavoro per il World Development Report del 2013 relativo agli anni dal 1985 al 2002 ha rilevato che “non solo la maggior parte delle regioni non mostra alcun miglioramento nel tempo relativamente al rispetto delle norme sul lavoro, ma molte realizzano una performance peggiore nel 2002 che nel 1985”82. Anche un lavoro del 2016 di Kucera e Sari ha registrato un peggioramento degli indicatori relativi al rispetto della libertà di associazione e di contrattazione collettiva negli anni che vanno dal 2000 al 2015, almeno per quanto riguarda le violazioni “in diritto”, definite come la mancanza di conformità delle norme nazionali rispetto agli standard internazionali83. In conclusione, è stato messo in evidenza come l’attuale struttura del sistema produttivo globale sia idonea a creare delle condizioni di lavoro non dignitose, soprattutto – ma non solo – nei settori più periferici delle catene del valore. I rischi insiti in tale modello di sviluppo, per la verità, sono stati segnalati da molto tempo. Gli economisti, da un lato, hanno messo l’accento sul ruolo delle istituzioni economiche internazionali “troppo allineate agli interessi commerciali e finanziari dei paesi industrializzati”84; gli studiosi di diritto del lavoro, dall’altro, si sono preoccupati dei comportamenti delle imprese multinazionali che, grazie all’estrema mobilità dei capitali, possono “scegliere il diritto del lavoro che vogliono” mentre i lavoratori non possono che “difendere quello che hanno”85. L’assetto delle istituzioni internazionali e il comportamento delle imprese multinazionali spingono quindi ad una riflessione sui deficit di governance generati dai
82 M. LEVI ET AL. Aligning Rights and Interests: Why, When and How to Uphold Labor Standards, Background Paper for World Development Report 2013, Washington, DC, World Bank, 2012, citato in
- HENDRICKX et al., The Architecture of Global Labour Governance, in International Labour Review, n. 155, 3, 2016, p. 339, T.d.A.
83 D. KUCERA, D. SARI, New Labour Rights Indicators: Method and Trends for 2000–15, in
International Labour Review, n. 158, 3, 2019, p. 419–446.
84 Come affermava Joseph Stiglitz già quasi due decenni fa in J. STIGLITZ, La globalizzazione e i suoi oppositori, cit., p. 18.
85 M. BARBERA, Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali n. 126, 2010, p. 243. Sul tema degli effetti della globalizzazione sul diritto di lavoro si veda anche M. NAPOLI (a cura di), Globalizzazione e rapporti di lavoro, Vita e Pensiero, Milano, 2006; R. PESSI, Dumping sociale e diritto del lavoro, in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, 3, 2011; A. PERULLI, Globalizzazione e dumping sociale: quali rimedi?, in Lavoro e Diritto, 1, 2011; V. BRINO, Imprese multinazionali e diritti dei lavoratori tra profili di criticità e nuovi “esperimenti” regolativi, in Diritto delle Relazioni Industriali, 1, 2018.
processi di globalizzazione e sui possibili rimedi offerti dagli strumenti di regolazione di natura pubblica, privata o ibrida che sono stati messi in campo quale risposta.
- Deficit di governance e regolazione lavoristica
Come si è visto, negli ultimi decenni la struttura del sistema produttivo globale è cambiata molto velocemente, soprattutto per via dei processi di delocalizzazione ed esternalizzazione che hanno accompagnato l’aumento degli scambi internazionali. A fronte di tali cambiamenti, tuttavia, è opinione condivisa che non abbia fatto seguito con altrettanta rapidità lo sviluppo di un apparato istituzionale adeguato a rispondere alle nuove esigenze di regolamentazione86. I fenomeni descritti, infatti, hanno prodotto quello che è stato definito un “deficit di governance”, ovverosia una situazione in cui le esigenze di regolamentazione dettate dalla nuova struttura del sistema produttivo globale non trovano un’adeguata risposta nelle istituzioni e negli strumenti esistenti87.
Tale deficit coinvolge tre dimensioni. La prima dimensione è quella degli stati nazionali, i quali hanno perso parte della propria capacità regolativa in conseguenza dei fenomeni di delocalizzazione; molte attività economiche, infatti, si svolgono nei paesi in via di sviluppo e non possono più essere oggetto della loro attività di regolazione. Tale fenomeno è stato efficacemente descritto dalla parole di Arthus, secondo il quale gli stati “soffrono a causa della manca di volontà: temono di alienarsi le imprese multinazionali rischiando di perdere gli investimenti, il gettito fiscale, e i posti di lavoro; oppure soffrono a causa della mancanza di immaginazione: non sono in grado di ipotizzare come regolamentare in modo più aggressivo l’attività delle imprese multinazionali, in quanto molti degli attori e delle attività si trovano al di fuori del loro spazio giuridico”88. Inoltre, la pressione esercitata dalle delocalizzazioni (o anche solo
86 Si vedano, tra i molti, A. BLACKETT, Global Governance, Legal Pluralism and the Decentered State: A Labor Law Critique of Codes of Corporate Conduct, in Indiana Journal of Global Legal Studies,
- 8, 2001, p. 479 ss.; K. KOLBEN, Transnational Labor Regulation and the Limits of Governance, in Theoretical Inquiries in Law, n. 12, 2, 2011; J. LEE, Global Supply Chain Dynamics and Labour Governance: Implications for Social Upgrading, cit.
87 G. GEREFFI, F. MAYER, Globalization and the Demand for Governance, in The New Offshoring Of Jobs and Global Development, 39, 2005, p. 48-49.
88 H. W. ARTHURS, Private Ordering and Workers Rights in the Global Economy: Corporate Codes of Conduct as a Regime of Labour Market Regulation, in J. CONAGHAN et al. (ed.), Labour Law in an Era of GlobalizationTransformative Practices and Possibilities, Oxford University Press, 2004, p. 471, T.d.A.
dalla minaccia delle delocalizzazioni) e l’aumentata libertà di circolazione del capitale ha generato fenomeni di competizione tra sistemi di regolazione89. Come evidenziato da Baccaro e Howell, soprattutto nei paesi sviluppati questa pressione ha portato all’approvazione di una serie di riforme volte a ridurre il costo del lavoro e del sistema di protezione sociale, nell’intento di diminuire lo svantaggio competitivo con i paesi ove il livello dei salari è più basso90. Una delle più rilevanti conseguenze dei processi descritti è stata la progressiva erosione della capacità redistributiva degli stati.
La seconda dimensione ove si è verificato il deficit di governance è quella delle istituzioni internazionali, che non sono state in grado di tenere il ritmo dei cambiamenti dell’economia globale e la cui capacità di regolazione è limitata. Come noto, l’agenzia delle Nazioni Unite deputata alla regolamentazione internazionale del lavoro è l’OIL, fondata nel 1919 quando già vi era la consapevolezza della necessità stabilire degli standard comuni a livello internazionale91. Tuttavia, la sua funzione normativa viene esercitata attraverso l’adozione di Convenzioni, che costituiscono veri e propri trattati di diritto internazionale i quali necessitano di essere ratificati dagli Stati e poi trasposti nei loro ordinamenti. Ciò significa che l’attuazione del diritto internazionale del lavoro e il controllo sul suo rispetto è demandata interamente agli Stati, senza che l’OIL disponga
89 Il dibattito sugli effetti dei movimenti di capitale e di merci sui sistemi di regolazione è molto vivace e le evidenze empiriche sono contrastanti. Se dai più viene affermata l’esistenza di una corsa al ribasso, altri negano che vi siano prove di tale fenomeno. Vi è inoltre chi ritiene opportuno “scorporare” le questioni e, così facendo, affermare che una maggior apertura dei mercati e rapporti di natura contrattuale hanno generalmente effetti negativi sulle condizioni di lavoro mentre un aumento degli investimenti diretti esteri può avere effetti positivi. Si veda, sul punto: J. LEE, Global Supply Chain Dynamics and Labour Governance: Implications for Social Upgrading, cit., p. 3 e gli studi di L. MOSLEY, Labor Rights and Multinational Production, Cambridge University Press, 2010; L. RONCONI, Globalization, Domestic Institutions, and Enforcement of Labor Law: Evidence from Latin America, in Industrial Relations: A Journal of Economy and Society, 51, 2012, pp. 89-105.
90 L. BACCARO, C. HOWELL, A Common Neoliberal Trajectory: The Transformation of Industrial Relations in Advanced Capitalism, in Politics & Society, n. 39, 4, 2011, pp. 521–563, citato in V. BORGHI,
- DORIGATTI E L. GRECO, Il lavoro e le catene globali, cit., p. 109. Nel contesto dell’Unione Europea vi sono stati tentativi di coordinare le politiche sociali, anche in funzione anti-dumping, in particolare tramite strumenti di soft law quali il metodo aperto di coordinamento, con esiti tuttavia non sempre soddisfacenti. Cfr. F. RAVELLI, Il metodo aperto di coordinamento da Lisbona 2000 a Europa 2020, tra promesse mantenute e promesse mancate, in M. RANIERI (a cura di), Le fonti del diritto del lavoro tra ordinamento sovranazionale e ordinamento interno, Giappichelli, 2015.
91 In particolare, nel Preambolo alla Costituzione dell’OIL viene affermato che “la mancata adozione, da parte di uno Stato qualsiasi, di un regime di lavoro veramente umano ostacola gli sforzi degli altri, che desiderano migliorare la sorte dei lavoratori nei propri paesi”. Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Disponibile all’indirizzo: https://www.fedlex.admin.ch/eli/cc/1948/915_891_861/it#ani1
di poteri sanzionatori effettivi92. Anche il tentativo di ricercare strumenti di tutela più effettivi in seno al WTO attraverso l’inserimento nei trattati di libero scambio di clausole sociali relative al rispetto di norme internazionali sul lavoro, per varie ragioni, ha avuto un bilancio diverso da quello auspicato. I paesi in via di sviluppo si sono sempre opposti all’inserimento di tali clausole, ritenendole uno strumento che celasse il rischio di comportamenti protezionistici e considerando l’OIL quale sede istituzionale competente per le discussioni relative al rispetto degli standard sul lavoro93. Anche nel caso di trattati di libero scambio bilaterali o multilaterali, gli esiti sono alquanti incerti e “risentono dei rapporti politici ed economici dei paesi coinvolti”94.
La terza dimensione è quella dei paesi in via di sviluppo, i quali hanno una capacità molto limitata di regolare i meccanismi di mercato e delle politiche sociali. Come evidenziato da Gereffi “quando hanno effettuato la transizione verso economie di mercato, i paesi in via di sviluppo generalmente non disponevano delle robuste istituzioni con funzioni regolatrici e distributive proprie delle economie industrializzate”95. Ciò vale sia per il settore pubblico, con la sua mancanza di capacità di monitoraggio e sanzionatoria delle norme esistenti, sia per il settore privato, spesso caratterizzato dall’assenza di una robusta società civile derivante anche dagli stravolgimenti sociali dovuti alle esperienze coloniali96. A tali fattori se ne aggiungono
92 L’OIL dispone tuttavia di un sistema di sorveglianza, volto a monitorare il rispetto delle Convenzioni già ratificate, che si basa su due comitati: il comitato di esperti sull’applicazione delle convenzioni e raccomandazioni (CEACR) e il comitato per l’applicazione delle norme (CAS), i quali tuttavia operano prevalentemente attraverso la redazione di osservazioni. Cfr. C. KILPATRICK, L’Europa della crisi si rivolge all’OIL: come è cambiata la mobilitazione sui diritti sociali e del lavoro, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1, 2019, pp. 147-185; S. BORRELLI, S. CAPPUCCIO, Chi monitora e come? Appunti sui meccanismi di supervisione dell’OIL, in Lavoro e Diritto, 3, 2019. Sui meccanismi e le problematiche relative alla trasposizione e all’applicazione delle Convenzioni negli ordinamenti nazionali si veda: C. ALESSI, L’OIL e la tutela contro il licenziamento illegittimo, in Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro, 3, 2019.
93 K. KOLBEN, Private Labor Regulation and the Global Supply Chain: A Bridge to the State?, Talk prepared for Michigan Symposium on Global Human Rights & Labor Standards, University of Michigan, Ann Arbor, MI, Oct 10, 2014. La prospettiva dei paesi in via di sviluppo è ben illustrata da J. M. SALAZAR- XIRINACHS, The Trade-labor Nexus: Developing Countries’ Perspectives, in Journal of International Economic Law, 2000, pp. 377 – 385.
94 T. TREU, Labour Law and Sustainable Development, Working Papaer CSDLE “Massimo D’Antona” n. 133, 2017, p. 28.
95 G. GEREFFI, F. MAYER, Globalization And The Demand For Governance, cit., p. 49
96 A. SALVINI, La società incompiuta. Teoria sociale e sviluppo nel socialismo africano, Franco Angeli, 2001. Per un’analisi di come le potenze coloniali europee abbiano influenzato il successivo sviluppo degli stati si veda: M. BERNHARD et al., The Legacy of Western Overseas Colonialism on Democratic Survival, in International Studies Quarterly, n. 48, 1, 2004, p. 225–250.
altri, quali, ad esempio, l’assenza di volontà di dare attuazione alle norme sul lavoro per non perdere un vantaggio competitivo. Da questo punto di vista, la creazione delle “Zone di Trasformazione per l’Esportazione” (Export Processing Zone – EPZ) è emblematica della volontà di alcuni paesi di integrarsi nell’economia globale proprio attraverso la creazione di luoghi dove le norme fiscali, ambientali e lavoristiche subiscono delle deroghe a favore delle imprese che ivi operano97. Questo terzo deficit di governance che coinvolge i paesi in via di sviluppo è particolarmente problematico per la regolazione lavoristica, la quale ha fatto storicamente affidamento in modo prioritario sugli stati, sia per la definizione del contenuto delle norme sul lavoro che soprattutto sulla loro capacità di darvi attuazione98.
L’esistenza di tali deficit nei sistemi di governance ha quindi dato spazio alla crescita degli strumenti di diritto transnazionale del lavoro (Transnational Labour Regulation), come tali intendendosi, seguendo la definizione di Bob Hepple “le norme e le procedure, siano esse hard o soft, che trovano applicazione oltre i confini degli stati, e cioè in più di una giurisdizione e che possono essere di natura unilaterale […], bilaterale […] o multilaterale […] ed essere rivolte nei confronti di stati, imprese o individui” 99.
Prima di procedere ad una analisi dei presupposti teorici dei vari strumenti del diritto transnazionale del lavoro occorre, tuttavia, sgombrare il campo da un possibile equivoco. Infatti, l’esistenza di quelli che sono stati definiti deficit di governance non deve far
97 Sul fenomeno delle EZPs si vedano, tra gli altri: J. K MCCALLUM, Export Processing Zones: Comparative Data from China, Honduras, Nicaragua, and South Africa, International Labour Office, Geneva, 2011 e W. MILBERG, M., AMENGUAL, Economic Development and Working Conditions in Export Processing Zones: A Survey of Trends, International Labour Office, Geneva, 2008. Per quanto riguarda le limitazioni e le difficoltà dell’attività sindacale nelle EPZs si veda: ILO – BUREAU FOR WORKERS’ ACTIVITIES, Trade Union Manual on Export Processing Zones, Ginevra, 2014. Per una recente revisione della letteratura: X. CIRERA-R. W. D. LAKSHMAN, The Impact of Export Processing Zones on Employment, Wages and Labour Conditions in Developing Countries: Systematic Review, in Journal of Development Effectiveness, n. 9, 3, 2017, p. 344–360.
98 K. KOLBEN, Transnational Labor Regulation and the Limits of Governance, cit.
99 B. A. HEPPLE, Labour Laws and Global Trade, Hart Publishing, 2005, p. 4, T.d.A. Esistono tuttavia anche altre definizioni di diritto transnazionale del lavoro che, sebbene formulate in modo diverso, finiscono per includere i medesimi strumenti. Si veda, per una discussione sulla definizione di diritto transnazionale del lavoro: A. O. AVILÉS, Cos’è il diritto transnazionale del lavoro? in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 162, 2, 2019, p. 398; G. FONSECCHI, Percorso di lettura sul concetto di “diritto transnazionale del lavoro”, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 153, 2017; A. BLACKETT, A. TREBILCOCK, Conceptualizing Transnational Labour Law, in Research Handbook on Transnational Labour Law, A. BLACKETT, A. TREBILCOCK (ed.), Edward Elgar Publishing, 2015.
ritenere che lungo le catene globali del valore si assista ad un vuoto di governance o ad una assenza di regolazione. Come evidenziato da Tim Bartley, infatti, tutte le nazioni che sono inserite nei sistemi di produzione globale dispongono di un proprio corpus di norme che “possono essere insufficienti o contradditorie o contrarie agli obiettivi di coloro che propongono delle regolamentazioni a livello transnazionale, ma sono comunque in grado di determinare le aspettative dei lavoratori e dei datori di lavoro, contribuendo a rafforzare un particolare modello di produzione”100. Il diritto transnazionale del lavoro, quindi, si inserisce sempre in un contesto già “occupato” da regole e attori, i quali sono fondamentali nel determinare come il diritto transazionale del lavoro viene interpretato e applicato. Tenendo a mente tali premesse, nei successivi paragrafi si cercherà di dare conto dell’ascesa del diritto transnazionale del lavoro, analizzando dapprima gli strumenti di matrice privatistica e successivamente volgendo l’attenzione alle più recenti forme di regolazione pubblica e ibrida che si stanno sviluppando.
3.2 Il diritto transnazionale del lavoro privato: strumenti e limiti
Negli ultimi decenni è stata dedicata grande attenzione agli strumenti di regolazione del lavoro di carattere privato messi in atto da attori non statali, nella convinzione che questi potessero supplire alle carenze del sistema di regolazione istituzionale. Tale attenzione è stata certamente favorita dal nuovo ruolo delle imprese multinazionali le quali, come evidenziato da Wilfredo Sanguineti, hanno operato una “assunzione spontanea di competenze normative su scala transnazionale” 101, che si è manifestata principalmente nell’adozione unilaterale di codici di condotta e nella creazione di sistemi di monitoraggio. L’ascesa degli strumenti di natura privata, inoltre, è avvenuta contemporaneamente allo sviluppo di un filone dottrinale relativo alle teorie della
100 T. BARTLEY, Rules Without Rights: Land, Labor, and Private Authority in the Global Economy, Oxford University Press, Oxford, 2018, p. 43, T.d.A.
101 Così W. SANGUINETI RAYMOND, Le catene globali di produzione e la costruzione di un diritto del lavoro senza frontiere, cit.; Sul punto si veda anche S. SCARPONI., Imprese multinazionali e autoregolamentazione transnazionale in materia di lavoro, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, 2, 2018.
regolazione che, in varia misura, descrive e talvolta sostiene il decentramento e il disaccoppiamento dell’autorità regolativa dallo stato102.
A oltre due decenni dalle prime significative esperienze di “auto-regolazione” adottate dalle imprese multinazionali, è possibile fornire una prima valutazione sui successi e i limiti di tali strumenti. Tale valutazione si rende necessaria per comprendere i più recenti sviluppi del diritto transnazionale del lavoro, i quali in parte prendono le mosse dai fallimenti di un approccio puramente volontaristico alla regolazione lavoristica.
L’adozione dei primi codici di condotta risale agli inizi degli anni Novanta, quando le condizioni di lavoro presenti nelle imprese fornitrici dei brand globali sono state portate all’attenzione dell’opinione pubblica e, conseguentemente, le imprese multinazionali sono state costrette a correre al riparo per tutelare la loro reputazione103. Nel corso degli anni, anche in risposta al crescente movimento anti-sweatshop, gli impegni unilateralmente assunti dalle imprese multinazionali sono diventati sempre maggiori e hanno rivestito diverse forme104. In molti casi, le imprese hanno adottato
102 Per una declinazione di tali teorie nel campo del diritto del lavoro si veda: C. ESTLUND, Regoverning the Workplace: From Self-Regulation to Co-Regulation, Yale University Press, New Haven, 2010 o R. ROGOWSKI, Reflexive Labour Law in the World Society, Edward Elgar Publishing, 2013. Per una critica all’applicazione di tali teorie al diritto del lavoro transnazionale si veda invece: K. KOLBEN, Transnational Labor Regulation and the Limits of Governance, cit. e, più in generale sui limiti degli strumenti volontaristici nell’ambito del diritto del lavoro G. DAVIDOV, The Enforcement Crisis in Labour Law and the Fallacy of Voluntarist Solutions, in The International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations, 26, 1, 2010, pp. 61-81. Sulle teorie della governance in generale si veda: M. R. FERRARESE, La governance tra politica e diritto, Il Mulino, Bologna, 2010.
103 Per una ricostruzione dei primi episodi di gravi violazioni dei diritti sul lavoro che sono giunti all’attenzione dell’opinione pubblica globale si veda la ricostruzione offerta da R. P. APPELBAUM, From Public Regulation to Private Enforcement: How CSR Became Managerial Orthodoxy, in R. APPELBAUM,
- LICHTENSTEIN (a cura di), Achieving Workers’ Rights in the Global Economy, Cornell University Press, Ithaca, 2017, p. 32–50.
104 Il movimento anti-sweatshop è nato nei campus universitari statunitensi agli inizi degli anni Novanta con l’obiettivo di spingere le imprese multinazionali a farsi carico delle condizioni di lavoro presenti nelle fabbriche presso cui avevano esternalizzato la produzione. Sulla storia del movimento anti- sweatshop e sui suoi risultati si veda: T. BARTLEY, C. CHILD, Movements, Markets and Fields: The Effects of Anti-Sweatshop Campaigns on U.S. Firms, 1993-2000, in Social Forces, n. 90, 2, 2011, p. 425–451;
- J. CRAVEY, Students and the Anti-Sweatshop Movement, in Antipode, n. 36, 2, 2004, p. 203–208; R. ARMBRUSTER-SANDOVAL, Workers of the World Unite? The Contemporary Anti-Sweatshop Movement and the Struggle for Social Justice in the Americas, in Work and Occupations, n. 32, 4, 2005, p. 464–485. Una delle opere che ha avuto maggior influenza sul movimento, come noto, è rappresentata da: N. KLEIN, No Logo, Knopf Canada, Toronto, 2000. Per una discussione sulle più recenti strategie del movimento si veda: M. S. WILLIAMS, Strategic innovation in US Anti-sweatshop Movement, in Social Movement Studies, n. 15, 3, 2016, p. 277–289; M. S. WILLIAMS, Global Solidarity, Global Worker Empowerment, and Global Strategy in the Anti-sweatshop Movement, in Labor Studies Journal, n. 4, 45, 2020, p. 394- 420.
codici di condotta contenenti degli standard elaborati dalle imprese stesse o, soprattutto in tempi più recenti, facendo riferimento a standard internazionali e in particolare alla dichiarazione OIL del 1998 sui principi e i diritti fondamentali del lavoro. In altri casi, l’adozione di un codice di condotta è stata accompagnata dalla creazione di un sistema di monitoraggio e verifica, attraverso il quale i fornitori sono stati periodicamente ispezionati da soggetti terzi per controllare il rispetto dei codici di condotta. In altri casi ancora, coalizioni o gruppi di più soggetti hanno elaborato dei sistemi di certificazione attraverso i quali garantire ai consumatori che determinati prodotti siano stati realizzati senza sfruttamento né discriminazioni sul lavoro. La premessa alla base del funzionamento di tali strumenti, che vengono adottati nell’ambito di politiche di responsabilità sociale d’impresa, è che l’impresa multinazionale che occupa il vertice di una catena globale del valore possa sfruttare la propria posizione e, pertanto, il proprio potere economico e contrattuale, per imporre il rispetto di determinati standard minimi nei confronti dei fornitori105.
Nonostante la loro grande varietà, gli strumenti di regolazione di matrice privatistica hanno evidenziato, complessivamente considerati, limiti tali da farli ritenere scarsamente efficaci, se non un vero e proprio fallimento106. A prescindere dalle singole modalità di organizzazione e di funzionamento, che sono state oggetto di vivaci dibattiti,
105 Per una riflessione sulle possibili declinazioni del concetto di impresa, inclusa quella socially embedded, si veda: M. BARBERA., L’idea di impresa. Un dialogo con la giovane dottrina, in A. PERULLI (a cura di), L’idea di diritto del lavoro, oggi, Wolters Kluwer-Cedam, Padova, 2016, p. 671. Sulla responsabilità sociale di impresa e, in particolare, il diritto del lavoro si vedano A. PERULLI (a cura di), La responsabilità sociale dell’impresa: idee e prassi, Il Mulino, Bologna, 2013 e G. JACKSON, V. DOELLGAST, L. BACCARO, Corporate Social Responsibility and Labour Standards: Bridging Business Management and Employment Relations Perspectives: Corporate Social Responsibility and Labour Standards, in British Journal of Industrial Relations, 56, 1, 2018, pp. 3–13.
106 Si vedano, sul punto, l’opera di R. M. LOCKE, The Promise and Limits of Private Power. Promoting Labour Standards in a Global Economy, Cambridge University Press, Cambridge, 2013, p. 12; le opinioni di I. DAUGAREILH, Introduction, in I. DAUGAREILH (a cura di), La responsabilitè sociale de l’entreprise, vecteur d’un droit de la mondialisation?, Bruylant, Bruxelles, 2017 e di W. Sanguineti che, in relazione alla regolazione privatistica, parla di “bilancio limitato, se non mediocre” sia per quanto riguarda l’eliminazione di pratiche abusive che nella promozione di migliori condizioni di lavoro, in W. SANGUINETI RAYMOND, Le catene globali di produzione e la costruzione di un diritto del lavoro senza frontiere, cit. o Vania Brino che ritiene che tali strumenti abbiano “limiti importanti sul piano dell’efficacia e dell’effettività” tali da “indurre a ritenere che per tentare di colmare i vuoti regolativi che affliggono le GVCs sia comunque necessario andare alla ricerca di strumenti di hard law” in V. BRINO, Diritto del lavoro e catene globali del valore. La regolazione dei rapporti di lavoro tra globalizzazione e localismo, cit., pag. 41.
ci sono infatti alcune caratteristiche di fondo che ne limitano l’efficacia in ambito lavoristico107.
Preliminarmente occorre sottolineare la specificità della regolazione lavoristica transnazionale, inquadrandola nel più ampio contesto dell’elaborazione e dell’attuazione di norme e standard privati. Seguendo le orme di Tim Bartley è possibile distinguere, nel panorama della regolazione privatistica, tra norme che hanno la funzione di coordinamento del mercato (market-coordinating) e norme che hanno la funzione di limitare il mercato (market-restricting)108.
Le norme private che hanno la funzione di coordinare i mercati hanno grande importanza nel sistema produttivo globalizzato, in quanto favoriscono l’armonizzazione di determinati settori, definendo degli standard tecnici comuni o dei requisiti qualitativi condivisi. Esse, quindi, favoriscono gli scambi commerciali e l’integrazione economica, facilitando la comunicazione tra imprese che operano in ordinamenti diversi.
Le norme private che hanno la funzione di limitare il mercato, invece, impongono delle restrizioni nei confronti delle attività delle imprese. Tali restrizioni, che possono avere un impatto economico negativo, servono per tutelare i consumatori o i lavoratori da determinati rischi o, in genere, per preservare determinati beni collettivi quali l’ambiente. Le norme lavoristiche, insieme con quelle ambientali e quelle relative alla sicurezza dei prodotti, rientrano in questa seconda categoria.
Già da questa prima distinzione emergono le diverse motivazioni che possono spingere le imprese a adottare e rispettare le diverse tipologie di norme: le norme market coordinating sono necessarie ad un miglior funzionamento delle dinamiche di mercato e di interazione tra imprese. Si può quindi dire che l’interesse a rispettarle, in molti casi, coincida con l’interesse stesso dell’impresa a perseguire una maggior efficienza e
107 Nel corso degli anni è sorto un vivace dibattito nei confronti di tali strumenti e, di volta in volta, sulle caratteristiche degli stessi. Ad esempio, sono sorti dibattiti sul modo in cui sono strutturati i programmi di monitoraggio; sul contenuto dei codici di condotta e sul loro campo di applicazione; su come vengono assunti e formati gli ispettori; su come viene gestita la governance delle coalizioni che gestiscono i sistemi di certificazione. Cfr. R. M. LOCKE, The Promise and Limits of Private Power, cit.,
- 12. Per una analisi critica sull’effettività dei sistemi di monitoraggio si veda: A. MARX, J. WOUTERS, Redesigning Enforcement In Private Labour Regulation: Will it Work?, in International Labour Review, 155, 3, 2016, p. 435–459. Per una riconsiderazione del ruolo degli enti ispettivi privati si veda: C. TERWINDT, A. ARMSTRONG, Oversight and Accountability in the Social Auditing Industry: the Role of Social Compliance Initiatives, in International Labour Review, n. 158, 2, 2019, p. 245–272.
108 Secondo le definizioni elaborate da T. BARTLEY, Rules Without Rights: Land, Labor, and Private Authority in the Global Economy, cit. p. 65-67.
maggiori profitti. Per quanto riguarda le norme market-restricting, invece, la motivazione a rispettarle solitamente deriva da una strategia di gestione del rischio reputazionale e da politiche di responsabilità sociale.
Inoltre, sempre secondo Bartley, è possibile operare un’ulteriore distinzione tra le norme che riguardano i prodotti (product-focused) e le norme che riguardano i processi di produzione (process-focused). Tra le prime rientrano, ad esempio, quelle relative agli standard di sicurezza dei prodotti, mentre tra le seconde figurano quasi tutte le norme lavoristiche e ambientali.
Anche la differenza tra queste due tipologie di norme è significativa perché “determina il luogo ove il rischio del mancato rispetto delle norme viene sentito maggiormente”109. Il mancato rispetto di norme riguardanti il prodotto, infatti, “viaggia” con esso e viene in rilievo quando un determinato prodotto entra in commercio e viene utilizzato dai consumatori. In queste circostanze, i consumatori possono facilmente associarlo al brand che lo ha progettato e venduto, creando un collegamento immediato e diretto che è in grado di avere conseguenze negative sulla reputazione. Nel caso, invece, di norme riguardanti i metodi di produzione, ivi incluso il rispetto delle norme sul lavoro, il mancato rispetto di determinati standard non viene “trasportato” con il prodotto finale e rimane confinato nel paese di produzione ove, molto spesso, non viene in rilievo e conseguentemente non genera alcuna conseguenza reputazionale. Questo comporta che le motivazioni per le imprese guida di una catena del valore nel dare piena attuazione agli standard privati siano più stringenti nelle ipotesi di norme che riguardano i prodotti rispetto a quelle di norme che riguardano i modi di produzione: nel primo caso il danno reputazionale generato dal mancato rispetto è diretto ed immediato, mentre nel secondo è solo eventuale110.
109 Ibidem., p. 66, T.d.A.
110 È vero che, nel caso di scandali di grandi dimensioni, anche una violazione di standard relativi ai diritti sul lavoro è in grado di generare un danno reputazionale significativo, ma in generale il nesso con l’impresa guida di una catena globale del valore è meno diretto e facilmente identificabile rispetto alla violazione di una norma che, ad esempio, incide sulle caratteristiche e sulla sicurezza di prodotto. Per un’analisi del possibile ruolo dei consumatori nella governance del diritto del lavoro transnazionale si veda: J. DONAGHEY et al., From Employment Relations to Consumption Relations: Balancing Labor Governance in Global Supply Chains: From Employment Relations to Consumption Relations, in Human Resource Management, n. 53, 2, 2014, p. 229–252. Sul ruolo dei consumatori-cittadini e il diritto transnazionale del lavoro privato si veda inoltre K. KOLBEN, Transnational Private Labour Regulation, Consumer-Citizenship and the Consumer Imaginary, in A. BLACKETT, A. TREBILCOCK (ed.), Research Handbook on Transnational Labour Law, cit. Vi è anche chi ritiene quello del consumatore etico un vero
Queste prime distinzioni consentono di collocare gli strumenti sul rispetto dei diritti fondamentali del lavoro, in quanto market-restricting e proccess-focused, nell’ambito di quella tipologia di norme private nei confronti delle quali le imprese guida hanno motivazioni relativamente basse quanto al loro scrupoloso rispetto. Bisogna evidenziare che si stratta pur sempre di impegni assunti unilateralmente da parte delle imprese guida delle catene globali del valore e che, pertanto, la loro attuazione dipende dalle risorse, dalla costanza e dalle motivazioni con le quali vengono perseguite politiche di responsabilità sociale.
Nonostante
e proprio mito: T. M. DEVINNEY, P. AUGER, G. M. ECKHARDT, The Myth of the Ethical Consumer, Cambridge University Press, Cambridge, 2010. Non si può negare, tuttavia, che a prescindere dall’effettivo peso degli aspetti etici e sociali nelle politiche di acquisto dei consumatori, i meccanismi reputazionali siano stati il principale elemento che ha portato alla nascita e allo sviluppo di strumenti quali i codici di condotta.
111 Tra gli interessi contrastanti vi sono, ad esempio, quelli delle imprese, che ambiscono ad ottenere prodotti di alta qualità, in tempi brevi e al prezzo più basso possibile, contestualmente richiedendo ai fornitori di rispettare i loro codici di condotta ma senza tuttavia essere disposte a pagare prezzi più alti; e quelli dei fornitori, che hanno interesse ad accaparrarsi ordini sempre maggiori, che siano in grado di impegnarli per un tempo più lungo possibile e che per tale ragione sono disposti ad offrire tariffe sempre più basse. Queste pratiche, tuttavia, ad avviso di Locke spingono i fornitori a tenere bassi i salari tali premesse, ci si potrebbe aspettare che, quantomeno nel contesto di sistemi di monitoraggio ben strutturati in cui le imprese guida hanno investito considerevoli risorse, si assista ad un significativo miglioramento delle condizioni di lavoro presenti nelle imprese fornitrici. Purtroppo, invece, numerosi studi empirici hanno smentito tali previsioni. Anche nei casi più virtuosi, è stato rilevato che gli strumenti privatistici possono portare solo a dei miglioramenti temporanei e relativi unicamente ad alcuni aspetti delle condizioni di lavoro. Particolarmente significativi, in questo senso, sono gli studi di Richard Locke, il quale ha dedicato molti anni a studiare i sistemi di monitoraggio di imprese quali Nike e Hewlett-Packard, partendo da una posizione di fiducia nei confronti delle capacità degli strumenti di regolazione privata per poi concludere che “a prescindere dal tipo di obiettivi, organizzazione, leadership e perfino dalle risorse sottostanti queste iniziative di carattere privato, tutte inevitabilmente producono risultati limitati o contradditori, perché tutte devono affrontare la fondamentale questione di riconciliare i diversi e contrastanti interessi dei principali attori coinvolti nelle catene globali del prodotto”111.
, ad abusare del lavoro straordinario e di quello precario oltre che a non investire in salute e sicurezza. R. M. LOCKE, The Promise and Limits of Private Power, cit., p. 12, T.d.A.
Una delle maggiori criticità emerse nel corso degli studi sull’applicazione dei codici di condotta è quindi quella relativa alle pratiche di approvvigionamento delle imprese- guida, che molto spesso minano alle base gli sforzi di garantire condizioni di lavoro dignitose lungo le catene del valore. Come già evidenziato nei paragrafi precedenti, la richiesta di rispettare determinati codici di condotta non riesce a controbilanciare la pressione generata dalla richiesta, proveniente sempre dalle imprese leader, di fornire prodotti di alta qualità, in tempi brevi e a prezzi sempre più bassi112.
Un ulteriore profilo problematico, emerso da numerosi studi empirci relativi agli strumenti di responsabilità sociale, attiene alla loro “selettività” in ordine ai diritti che vengono tutelati113. Molto spesso i codici di condotta adottati dalle imprese multinazionali prestano attenzione a determinati standard quali quelli relativi all’orario di lavoro, al salario minimo, al divieto di lavoro forzato e minorile o a quelli sulla salute e la sicurezza sul lavoro; al tempo stesso, tuttavia, i medesimi codici di condotta trascurano le questioni connesse alla libertà di associazione114. Le ragioni di tale selettività sono plurime: da un lato, le violazioni riguardanti gli standard menzionati sono in grado di generare un danno reputazionale particolarmente grave e le imprese multinazionali hanno interesse ad adottare politiche che mettano in luce le azioni
112 In relazione agli effetti delle pratiche di approvvigionamento nel settore tessile si veda: M. ANNER, Squeezing Workers’ Rights in Global Supply Chains: Purchasing Practices in the Bangladesh Garment Export Sector in Comparative Perspective, cit. Inoltre, si veda anche il sondaggio condotto dall’International Labour Office nell’ambito del programma “Labour Standards in Global Supply Chains” dal quale emerge, tra le altre cose, che nel campione considerato il 75 % dei committenti non è disponibile ad accettare un aumento dei prezzi concordati derivante dall’aumento del salario minimo legale nel paese ove ha sede il fornitore: ILO, Purchasing Practices and Working Conditions in Global Supply Chains: Global Survey Results, Inwork Issue Brief n. 10, 2017, disponibile all’indirizzo: https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_protect/—protrav/— travail/documents/publication/wcms_556336.pdf
113 Si vedano, sul punto, gli studi di M. ANNER, Corporate Social Responsibility and Freedom of Association Rights: The Precarious Quest for Legitimacy and Control in Global Supply Chains, in Politics and Society, 40, 2012, pp. 609-644 oltre che dei già citati K. KOLBEN, Transnational Labor Regulation and the Limits of Governance, cit., p. 407 e R. M. LOCKE, The Promise and Limits of Private Power, cit., p. 174, W. SANGUINETI RAYMOND, Le catene globali di produzione e la costruzione di un diritto del lavoro senza frontiere, cit., p. 204.
114 In particolare Maayan Menashe mostra come i soggetti privati, nei processi di redazione ed elaborazione degli strumenti di diritto transnazionale del lavoro, abbiano un’influenza negativa sul tenore delle disposizioni relative alla libertà di associazione, limitandone la portata rispetto a quella comunemente fatta propria dagli strumenti di diritto internazionale pubblico. Tale influenza negativa viene meno quando nel processo di redazione degli strumenti di diritto transnazionale del lavoro sono presenti altri soggetti e, in particolar modo, quelli pubblici. M. MENASHE, Private Actors as Transnational Regulators: The Case of Freedom of Association, in Industrial Law Journal, 49, 1, 2020.
intraprese su tali questioni; dall’altro lato, agisce spesso la convinzione che il riconoscimento di diritti collettivi consenta ai lavoratori di rinegoziare le proprie condizioni di lavoro, alterando i rapporti di forza esistenti con i datori di lavoro e potenzialmente diminuendo il controllo dell’impresa guida sia sulla gestione che sui costi della propria catena del valore.
La questione della selettività dei diritti riconosciuti dai codici di condotta consente di introdurre un ulteriore profilo critico degli strumenti di matrice privatistica, quello attinente al loro deficit di legittimazione. Tali strumenti, infatti, sono frutto di un approccio top-down, manageriale e privato, che necessariamente riflette l’ideologia e gli interessi di chi lo pone in essere115. Pertanto, i lavoratori non vengono necessariamente coinvolti né nella definizione dei diritti loro riconosciuti né nei meccanismi di attuazione116.
Infine, per completare il discorso sugli strumenti di regolazione privatistica, è opportuno svolgere alcune considerazioni con specifico riferimento alle iniziative multi- stakeholder quali i sistemi di certificazione che, soprattutto nel settore lavoristico, non sono stati in grado di produrre risultati complessivamente soddisfacenti. Gli studi comparati condotti sulle certificazioni in materia sociale e in materia ambientale consentono di mettere in luce le caratteristiche strutturali che contribuiscono a rendere particolarmente difficoltoso il funzionamento delle prime117. Innanzitutto, beni ambientali quali le foreste sono visibili ed immobili e ciò favorisce l’opera dei certificatori che, attraverso audit periodici, possono direttamente osservare i progressi o le criticità dei siti oggetto di ispezione. Per la stessa ragione, alcuni aspetti di tali siti possono essere direttamente controllati da soggetti esterni quali le organizzazioni della società civile e le comunità locali. Il fatto, poi, che tali beni si trovino solamente in
115 Sul fatto che gli strumenti di matrice privatistica riflettano la visione, la cultura e gli obiettivi del soggetto che vi dà attuazione si veda in particolare M. BARENBERG, Toward a Democratic Model of Transnational Labour Monitoring?, in C. ESTLUND AND B. BERCUSSON (ed.), Regulating Labour in the Wake of Globalisation: New Challenges, New Institutions, Hart Publishing, 2007. Sul deficit di legittimazione degli strumenti privatistici si veda invece K. KOLBEN, Dialogic Labor Regulation in the Global Supply Chain, in Michigan Journal of International Law, n. 36, 2015, p. 438.
116 W. SANGUINETI RAYMOND, Le catene globali di produzione e la costruzione di un diritto del lavoro senza frontiere, cit., p. 203.
117 Si veda in particolare il lavoro di Bartley svolto in Indonesia e Cina sulle certificazioni riguardanti l’uso sostenibile delle foreste e la certificazione SA8000 in materia sociale – cfr. T. BARTLEY, Rules Without Rights: Land, Labor, and Private Authority in the Global Economy, cit., p. 68-75.
determinati luoghi del pianeta favorisce la costruzione di relazioni di lunga durata tra i fornitori, le imprese guida e gli ispettori. Al contrario, gli audit relativi alla verifica delle condizioni di lavoro si sono rivelati più difficili, in quanto relativi a condizioni meno immediatamente visibili. Pertanto, essi sono spesso basati su documentazione fornita da parte dei datori di lavoro o su interviste ai lavoratori i quali, tuttavia, vengono molte volte “istruiti” su come rispondere nel modo richiesto118. Inoltre, soprattutto in settori industriali a bassa intensità di capitale, spostare la produzione da un fornitore ad un altro o addirittura in un diverso paese si è rilevata un’operazione non particolarmente complessa per le imprese guida, con conseguente pregiudizio sulla possibilità di costruire relazioni di fiducia e di lungo termine con i fornitori. Vi è poi un’ulteriore considerazione da svolgere: negli enti certificatori in materia ambientale il ruolo della società civile e delle organizzazioni non governative è particolarmente marcato. Nel mondo delle certificazioni in materia lavoristica, invece, al netto di qualche limitata eccezione, gli enti sono prevalentemente controllati dalle associazioni rappresentative del mondo imprenditoriale119.
Un esempio delle criticità legate alle certificazioni in materia sociale è rappresentato dal caso dello standard SA8000, uno dei più diffusi. Ebbene, è stato evidenziato che in alcuni Stati, come la Cina, le condizioni complessive delle imprese che hanno ottenuto la certificazione e di quelle che sono sprovviste non sono significativamente diverse120. Per ottenere la certificazione SA8000, infatti, sono sufficienti in genere solo alcuni mesi, un tempo di gran lunga inferiore rispetto agli anni di sforzi e adeguamenti richiesti per alcune certificazioni ambientali121. Il noto episodio dell’incendio dell’Ali Enterprises, nel quale persero la vita 258 lavoratori tessili a Karachi, in Pakistan, è emblematico delle
118 È vero tuttavia che alcuni aspetti, come la presenza di uscite di sicurezza o di estintori, possono essere oggetto di osservazione diretta da parte degli ispettori. Non a caso, le questioni attinenti alla salute e sicurezza sono tra quelle che più di altre hanno subito miglioramenti a seguito dell’inclusione di determinate industrie nei sistemi di monitoraggio e verifica cfr. ILO, Occupational Safety and Health in Global Value Chains – Starterkit, Assessment of Drivers and Constraints for OSH Improvement in Global Value Chains and Intervention Design, Ginevra, 2018.
119 Si veda in particolare la genesi della Fair Labour Association, in cui molte sigle sindacali e ONG, dopo aver perso la battaglia sul significato della libertà di associazione, abbandonarono il progetto R. P. APPELBAUM, From Public Regulation to Private Enforcement: How CSR Became Managerial Orthodoxy, cit.
120 T. BARTLEY, Rules Without Rights: Land, Labor, and Private Authority in the Global Economy, cit., p. 68.
121 Ibidem.
criticità dei sistemi di certificazione: tale fabbrica, infatti, era stata ispezionata poco tempo prima e aveva appena ricevuto la certificazione SA8000 da parte dell’impresa italiana RINA122. Quando scoppiò l’incendio, tuttavia, i lavoratori non riuscirono a salvarsi anche perché le uscite di emergenza e le finestre erano sbarrate. A pochi mesi di distanza, a Dhaka, in Bangladesh, un’altra tragedia ha dimostrato l’inefficacia degli audit. Come tristemente noto, il 24 aprile del 2013 l’edificio denominato Rana Plaza è crollato uccidendo più di 1.130 lavoratori e ferendone oltre 2.500, nonostante due delle imprese che avevano sede al suo interno fossero state da poco ispezionate123.
Alla luce di quanto detto fino ad ora è possibile concludere che gli strumenti di regolazione del lavoro di matrice privatistica, se considerati isolatamente, hanno dimostrato di essere inidonei a risolvere i problemi di sfruttamento lavorativo presenti lungo le catene globali del valore. Le gravi criticità strutturali dei sistemi di regolazione privatistica riguardano infatti la loro effettività, la loro sostenibilità, la loro selettività e la loro legittimazione e compromettono qualsiasi pretesa teorica o pratica di autosufficienza. Da tali considerazioni discende la necessità di considerare il diritto transnazionale del lavoro privato all’interno di un approccio più ampio, che riconsideri il ruolo della regolazione pubblica e la sua capacità di bilanciare interessi contrapposti e garantire l’applicazione uniforme delle norme.
3.3 Verso un approccio integrato alla regolazione delle catene globali del valore
Viste le carenze della regolazione privatistica, negli ultimi anni si è assistito ad alcuni tentativi di colmare i deficit di regolazione presenti lungo le catene globali del valore attraverso un approccio più ampio, perseguito in particolare grazie ad una rinnovata centralità delle istituzioni pubbliche, sia nazionali che internazionali. Si tratta
122 Per una ricostruzione del controverso ruolo dell’impresa certificatrice RINA si veda: F. GUARRIELLO, L. NOGLER, Violazioni extraterritoriali dei diritti umani sul lavoro: un itinerario di ricerca tra rimedi nazionali e contrattazione collettiva transnazionale, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 166, 2020, p. 177-178.
123 C. TERWINDT, G.BURCKHARDT, Social Audits in the Textile Industry: How to Control the Controllers?, in Business and Human Rights Resource Centre – Beyond Social Auditing Blog, 2019, disponibile all’indirizzo https://www.business-humanrights.org/en/blog/social-audits-in-the-textile- industry-how-to-control-the-controllers/
di un approccio maggiormente orientato al ricorso regolazione eteronoma e agli strumenti di hard law, che tuttavia non rinuncia al contributo degli strumenti privatistici. In tale ottica, l’efficacia degli strumenti adottati volontariamente viene valuta anche sulla base della loro capacità di interagire con i sistemi di regolazione pubblici e di creare dinamiche di cooperazione e rafforzamento reciproco, specialmente nei paesi in via di sviluppo124.
Da un punto di vista teorico, quindi, si è cercato di costruire una “teoria integrata della regolazione”125 che possa colmare le lacune relative alla regolazione privatistica, nella prospettiva “della combinazione o ibridazione di sfere di intervento, lavorativa e economica, e di strumenti normativi, pubblici e privati”126. Tale tentativo è stato accompagnato, sempre sul piano teorico, dall’elaborazione di una nuova concezione della responsabilità per le violazioni dei diritti fondamentali sul lavoro, che tiene in considerazione tutti i soggetti coinvolti nelle catene del valore. Si tratta cioè di modelli regolativi ideali di “responsabilità condivisa” volti ad attribuire una porzione di responsabilità – morale prima che giuridica – a tutti i soggetti che partecipano o beneficiano delle attività delle catene del valore127. La crescente consapevolezza dell’inidoneità del sistema regolativo globale a porre rimedio alle persistenti violazioni dei diritti fondamentali del lavoro lungo le catene del valore si è pertanto tradotta in alcuni significativi cambiamenti, sia a livello politico che a livello giuridico. Si assiste, in particolare, ad un cambio di paradigma nell’atteggiamento delle istituzioni internazionali, dei governi nazionali e della società civile, i quali sembrano maggiormente consapevoli dell’impossibilità che il sistema economico globale si “auto- regoli” sulla base di impegni di carattere puramente volontaristico e, pertanto, mettono in atto delle strategie volte ad introdurre nuove forme di responsabilità nei confronti dei
124 K. KOLBEN, Dialogic Labor Regulation in the Global Supply Chain, cit.
125 W. SANGUINETI RAYMOND, Le catene globali di produzione e la costruzione di un diritto del lavoro senza frontiere, cit., p. 207.
126 Ibidem.
127 Ad esempio Dahan, Lerner e Milman-Sivan hanno proposto di attribuire la responsabilità per le condizioni di lavoro lungo le catene del valore sulla base di criteri relativi a connectedness, capacity, benefit and contribution, concludendo che attualmente esiste un gap tra le responsabilità assegnate dall’attuale sistema istituzionale e normativo e quelle che determinati soggetti dovrebbero avere, in particolare le imprese multinazionali e gli stati ove queste hanno la propria sede. Y DAHAN, H. LERNER,
- MILMAN-SIVAN, Shared Responsibility and the International Labor Organization, in Michigan Journal of International Law, 34, 2013.
soggetti coinvolti nelle GVCs o ad introdurre obblighi di trasparenza o di diligenza. I successivi capitoli analizzano le più interessanti iniziative che si muovono in tale direzione, con particolare attenzione alle tecniche di regolazione utilizzate e alla loro efficacia.
Capitolo 3
La regolazione negoziata delle catene globali del valore: gli accordi quadro, le iniziative multistakeholder e il ruolo delle istituzioni
1. Introduzione
Come visto nei capitoli precedenti, nelle prime fasi di sviluppo delle catene del valore la presenza di deficit di governance ha comportato che le imprese multinazionali si siano poste quali soggetti promotori di nuove forme di regolazione. Si è trattato, principalmente, di forme di regolazione unilaterale, che si sono tradotte nell’adozione di codici di condotta e nella creazione di sistemi di audit e certificazioni. Tali sistemi di regolazione o, meglio, di auto-regolazione, si sono tuttavia rivelati incapaci di contribuire ad un miglioramento significativo delle condizioni di lavoro nelle catene globali del valore, per ragioni che sono già state evidenziate382. Nello scenario descritto, vari soggetti, tra cui le organizzazioni sindacali, stanno da tempo cercando di superare il paradigma dell’unilateralità per giungere ad una regolazione il più possibile “negoziata” delle condizioni di lavoro lungo le catene del valore. Tale tentativo può
382 Si veda in particolare il capitolo 1. Sul punto cfr. anche: R. M. LOCKE, The Promise and Limits of Private Power, cit. S. KURUVILLA, Private Regulation of Labor Standards in Global Supply Chains: Problems, Progress, and Prospects, Cornell University Press, 2021. T. BARTLEY, S. KOOKS, H. SAMEL,
- SETRINI, N. SUMMERS, Looking Behind the Label: Global Industries and the Conscientious Consumer, Indiana University Press, 2015.
essere visto come un vero e proprio contro-movimento, attraverso il quale diverse parti della società reagiscono all’impatto negativo generato dall’azione del mercato. Il concetto di contro-movimento, come noto, è stato elaborato dallo studioso ungherese Karl Polanyi in un diverso periodo storico rispetto a quello attuale, ma può offrire un’interessante chiave di lettura anche per le dinamiche contemporanee che riguardano la regolazione delle catene globali del valore383. Infatti, per Polanyi il contro-movimento può essere “variamente articolato al suo interno, non univoco, cui partecipano attori diversi a partire da esigenze diverse, non pianificato né pianificabile a priori”384 e costituisce una reazione della società tesa “ad affermare i limiti sociali dell’espansione del mercato”385. Ebbene, anche nell’attuale contesto delle catene globali del valore è possibile assistere all’azione di un ampio ventaglio di soggetti (sindacati, ong, movimenti ambientalisti, consumatori) che si oppongono agli effetti negativi, sia sociali che ambientali, generati dall’assenza di vincoli alle dinamiche di mercato di carattere transnazionale. Tali soggetti sono in grado di formare alleanze di varia natura che, tra le altre cose, possono culminare in iniziative multistakeholder che hanno l’obiettivo di regolare l’attuale organizzazione delle attività produttive. Il presente capitolo indaga le prospettive, i metodi e gli strumenti che si muovono nella direzione di una regolazione “negoziata” delle catene del valore, con particolare riferimento agli aspetti relativi alle condizioni di lavoro.
2. La libertà di associazione e di contrattazione collettiva nelle catene globali del valore
Un’indagine sulle pratiche di regolazione negoziata delle catene del valore non può che iniziare da alcune considerazioni sulla libertà di associazione e di contrattazione collettiva, in quanto tali diritti costituiscono per il diritto del lavoro i c.d. “enabling rights” per antonomasia, il cui riconoscimento è necessario e strumentale al
383 K. POLANYI, La grande trasformazione,. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino, 1974, p. 170.
384 V. BORGHI, L. DORIGATTI, L. GRECO, Il lavoro e le catene globali del valore, cit., p. 77.
385 Ibidem, p. 77.
conseguimento di altri diritti e tutele386. La Dichiarazione OIL del 1998 afferma che la garanzia della libertà di associazione e di contrattazione collettiva, insieme con gli altri diritti fondamentali, riveste un significato particolare proprio perché “fornisce agli interessati la possibilità di rivendicare liberamente e con pari opportunità la loro giusta partecipazione alla ricchezza che essi stessi hanno contribuito a creare, nonché di realizzare pienamente il loro potenziale umano”387. La libertà di associazione, come noto, è riconosciuta anche in altri importanti strumenti internazionali, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (art. 23) al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (art. 22) al Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali del 1966 (art. 8)388.
Nonostante il suo status di diritto fondamentale, tuttavia, il riconoscimento della libertà di associazione e di contrattazione collettiva nel contesto delle catene globali del valore è incompleto, contestato e costantemente messo in discussione389. La maggior parte delle imprese multinazionali, d’altronde, ha delocalizzato la produzione in zone in cui il livello di libertà sindacale è particolarmente basso390. Nella fabbrica del mondo, la Cina, esiste un sindacato unico dipendente dal potere politico e la stessa situazione è presente anche in Vietnam, mentre altri paesi del sud-est asiatico, come il Bangladesh, sono caratterizzati da governi che in vario modo ostacolano e reprimono le attività delle organizzazioni sindacali. Nell’America Latina, in paesi quali l’Honduras, El Salvador, il Guatemala e la Colombia, si registra un alto tasso di violenza nei confronti dei
386 Sul concetto di enabling rights si veda: M. BORZAGA, L’offensiva contro il diritto di sciopero e il sistema di monitoraggio dell’OIL, in Lavoro e Diritto, 2015, p. 458.
387 Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro e suoi seguiti, adottata dalla Conferenza internazionale del Lavoro nella sua 86° sessione, Ginevra, 18 giugno 1998. Il testo della dichiarazione è disponibile all’indirizzo: https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—europe/—ro-geneva/—ilo- rome/documents/publication/wcms_151918.pdf
388 Per una più generale ricostruzione del ruolo ricoperto dal lavoro negli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani si veda: M. CORTI (a cura di), Il lavoro nelle carte internazionali, Vita e Pensiero, Milano, 2016.
389 J. MORRIS et al., Uneven Development, Uneven Response: The Relentless Search for Meaningful Regulation of GVCs, cit.
390 Sul tasso di sindacalizzazione nelle varie regioni del mondo si veda: J. VISSER, Trade Unions in the Balance, ILO ACTRAV Working Paper, 2019, disponibile all’indirizzo: https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_dialogue/— actrav/documents/publication/wcms_722482.pdf Per un commento di tali dati si veda: I. REGALIA, In cerca di voice. Note sulle prospettive del sindacalismo a livello globale, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, 3 (in corso di pubblicazione), 2021.
sindacalisti, senza che questi possano trovare un’adeguata protezione da parte delle autorità statali391. Estese ricerche sul settore tessile condotte da Richard Locke e altri hanno evidenziato che la maggior parte dei marchi globali si avvale principalmente di fornitori che si trovano in paesi che si collocano nel quartile più basso dell’indice elaborato dal World Justice Project sulla libertà di associazione392. Il dato è stato ulteriormente confermato dalle ricerche di Kuruvilla e altri, che hanno incrociato i dati sull’export e il livello di libertà sindacale registrato dagli indici World Justice Project e Labour Rights Indicators evidenziando come esista “un disaccoppiamento tra le politiche di rispetto della libertà di associazione e della contrattazione collettiva che sono espresse nei codici di condotta e le politiche di approvvigionamento che invece selezionano paesi dove il rispetto per tale libertà è basso”393.
La delocalizzazione in paesi nei quali si registra un basso livello di libertà sindacale è particolarmente problematica, in quanto la regolazione privatistica non riesce a superare gli ostacoli derivanti da un contesto istituzionale ostile alle libertà sindacali394. In altri termini, la regolazione privatistica, che già in generale ha dimostrato scarsa attenzione per la promozione delle libertà di associazione, risulta ancora meno efficace in contesti dove tali libertà vengono negate dalle autorità statali. In tal senso, l’esperienza della Reebok in Cina è paradigmatica, in quanto mostra che il solo impegno dell’impresa committente non è sufficiente a garantire uno stabile sistema di rappresentanza dei lavoratori in assenza di un contesto sociale e istituzionale favorevole395. Agli inizi degli anni duemila la Reebok disponeva infatti di uno dei più sviluppati programmi di responsabilità sociale dell’epoca e, per darvi attuazione, ha promosso delle elezioni dei
391 Per una classificazione di come vari stati reprimono le attività sindacali si rinvia a: M. ANNER,
Labor Control Regimes and Worker Resistance in Global Supply Chains, cit.
392 G. DISTELHORST, R. M. LOCKE, Does Compliance Pay? Social Standards and Firm-Level Trade, in American Journal of Political Science, n. 62, 3, 2018, p. 6.
393 S. KURUVILLA, Private Regulation of Labor Standards in Global Supply Chains: Problems, Progress, and Prospects, cit., p. 160, T.d.A.
394 Sul punto si veda: M. ANNER, Monitoring Workers’ Rights: The Limits of Voluntary Social Compliance Initiatives in Labor Repressive Regimes, in Global Policy, n. 8, 2017, p. 56–65. T. BARTLEY, Rules without rights: land, labor, and private authority in the global economy, Oxford University Press, Oxford, United Kingdom ; New York, NY, 2018, p. 61 .
395 Per una ricostruzione della vicenda relativa all’elezione dei rappresentanti dei lavoratori presso il fornitore KTS di Reebok e, più in generale, sulle politiche di responsabilità sociale volte a promuovere forme di rappresentanza dei lavoratori in Cina: A. CHAN, CSR and Trade Union Elections at Foreign- Owned Chinese Factories, in R. APPELBAUM, N. LICHTENSTEIN (ed.), Achieving Workers’ Rights in the Global Economy, Cornell University Press, Ithaca, 2017, p. 209–226.
rappresentanti dei lavoratori presso uno dei propri fornitori di Shenzen. Le elezioni si sono tenute nel 2001 e almeno in un primo momento i rappresentanti dei lavoratori sono riusciti a negoziare dei miglioramenti delle condizioni di lavoro. Tuttavia, senza il supporto di un’organizzazione sindacale esterna e incontrando l’ostilità del fornitore, dovuta anche ad un cambio del management, in breve tempo l’azione dei rappresentanti ha perso efficacia. Quando, due anni dopo, la Rebook ha cercato di organizzare delle nuove elezioni, l’iniziativa è stata bloccata dall’intervento delle autorità che hanno affermato che le elezioni avrebbero rappresentato un “intervento straniero” in un affare cinese396.
Specularmente, la letteratura evidenzia che nei contesti in cui sono presenti sindacati indipendenti e una società civile attiva si registra un miglior livello delle condizioni di lavoro e, in generale, un numero inferiore di violazioni dei codici di condotta e degli altri strumenti di regolazione privatistica. Un’analisi di Kuruvilla, Fisherdaly e Raymond basata su dati della Fair Wear Foundation ha rilevato come, nell’ampio campione di imprese coinvolte nello studio, si siano registrate meno violazioni dei codici di condotta presso i fornitori in cui era presente un accordo sindacale a livello aziendale rispetto ai fornitori che non avevano stipulato alcun accordo397. Anche le analisi condotte dagli stessi studiosi sugli audit condotti nell’ambito del programma Better Work in Bangladesh, Cambogia, Haiti, Indonesia, Giordania, Nicaragua e Vietnam hanno evidenziano un miglior rispetto degli standard lavoristici da parte dei fornitori ove sono presenti sindacati che hanno stipulato un accordo collettivo a livello aziendale398. Uno studio di Chikako Oka sul settore tessile della Cambogia ha confermato i medesimi risultati: la presenza di sindacati a livello aziendale migliora il rispetto degli standard relativi ai livelli retributivi, all’orario di
396 In particolare, l’intervento è avvenuto per opera del ACFTU, il sindacato unico cinese, che ha inviato una lettera a Jill Tucker, allora direttore dell’Asia regional human rights compliance office di Reebok. Tuttavia, tale esperienza della Reebok, sebbene fallimentare in relazione all’obiettivo che si era prefissa, pare aver comunque introdotto alcuni lievi cambiamenti nel sindacato unico cinese nel senso di un maggior coinvolgimento dei lavoratori, sempre secondo quanto riportato in: A. CHAN, CSR and Trade Union Elections at Foreign-Owned Chinese Factories, cit., p. 216.
397 S. KURUVILLA, M. FISHER-DALY, C. RAYMOND, Freedom of Association and Collective Barganing, in S. KURUVILLA (ed.) Private Regulation of Labor Standards in Global Supply Chains: Problems, Progress, and Prospects, cit, p. 173 e ss.
398 Ibidem.
lavoro e diritto alle ferie e, in misura minore, anche in relazione alla salute e sicurezza399. Le ricerche di Tim Bartley in Indonesia e Cina evidenziano, inoltre, come gli ispettori che conducono gli audit per conto delle imprese leader tendono a valutare la conformità agli standard richiesti in modo più rigoroso in quei contesti, quali l’Indonesia, dove sono presenti organizzazioni sindacali e, in generale, una società civile attiva400. Nei paesi in cui invece la società civile è debole e non esistono sindacati indipendenti, come la Cina, gli ispettori tendono ad accontentarsi di una definizione minimalista di conformità, adottando un approccio pragmatico dettato dal contesto in cui si trovano ad operare. Il risultato quasi paradossale è che in quei contesti dove la società civile è debole risulta più semplice ottenere le certificazioni, mentre dove la società civile è attiva ottenere le medesime certificazioni risulta più complesso, anche se è in questi ultimi contesti che tali certificazioni, una volta ottenute, producono i maggiori effetti positivi401.
Il quadro descritto fa emergere chiaramente come il coinvolgimento dei lavoratori nella regolazione delle catene globali del valore sia uno dei principali fattori in grado di garantire condizioni di lavoro dignitose. Appare pertanto di primaria importanza prestare attenzione a quelle iniziative che, in diverso modo e su diversi livelli, stanno cercando di muoversi verso una regolazione sempre più partecipata e negoziata delle catene del valore. Per tale ragione, i prossimi paragrafi saranno dedicati all’analisi dello sviluppo delle relazioni industriali a livello transnazionale, con particolare riferimento allo strumento degli accordi quadro e alle loro potenzialità di emancipazione dei lavoratori che si trovano ai margini delle catene globali del valore e di garanzia delle libertà sindacali. Inoltre, verranno analizzate alcune iniziative multistakeholder caratterizzate dalla presenza delle organizzazioni sindacali nella governance delle catene del valore.
399 C. OKA, Improving Working Conditions in Garment Supply Chains: The Role of Unions in Cambodia, in British Journal of Industrial Relations, n. 54, 3, 2016, p. 647–672.
400 T. BARTLEY, Rules Without Rights: Land, Labor, and Private Authority in the Global Economy,
cit.
401 Ibidem., p. 59.
3. La contrattazione collettiva a livello transnazionale e gli accordi quadro globali
La rapida internazionalizzazione delle imprese ha costretto le organizzazioni sindacali, tradizionalmente legate alla dimensione nazionale, a ricercare nuove modalità e strumenti per operare anch’esse a livello globale. Nel corso degli ultimi trent’anni si è pertanto assistito ad una ridefinizione della strategia e delle azioni degli attori sindacali, i quali hanno cercato di rendersi protagonisti di nuovi processi di regolazione transnazionale. Tale nuova strategia ha condotto all’organizzazione di campagne di mobilitazione coordinate tra più paesi e, sul piano delle relazioni industriali transnazionali, alla sottoscrizione di accordi quadro globali (anche detti “International Framework Agreements” o “IFAs”)402. La sottoscrizione di IFAs ha costituito un vero e proprio cambio di approccio da parte delle organizzazioni sindacali che, fino ad allora, a livello internazionale avevano indirizzato i propri sforzi prevalentemente verso attività “diplomatiche” presso le organizzazioni internazionali403. Il primo accordo quadro globale è stato sottoscritto nel 1988 tra la Danone (allora “BSN”) e la federazione sindacale globale United Food, Farm and Hotelworkers Worldwide (IUF), anche se è soprattutto a partire dagli anni Duemila che la pratica ha trovato una sempre maggior diffusione. Ad oggi, si stima che siano stati sottoscritti più di 140 accordi quadro globali
402 Sulle potenzialità degli IFAs in relazione alle catene globali del valore si veda: G. WILLIAMS et al., Subcontracting and Labour Standards: Reassessing the Potential of International Framework Agreements, in British Journal of Industrial Relations, n. 53, 2, 2015, p. 181–203. Sul fenomeno della contrattazione collettiva transnazionale si veda: A. LASSANDRI, F. MARTELLONI, P. TULLINI, C. ZOLI (a cura di), La contrattazione collettiva nello spazio economico globale, Bononia University Press, Bologna, 2017 e F. GUARRIELLO, C. STANZANI (a cura di), Sindacato e contrattazione nelle multinazionali. Dalla normativa internazionale all’analisi empirica., Franco Angeli, Milano, 2017. F. GUARRIELLO, Transnational Collective Agreements, in G. CASALE, T. TREU (ed.), Transformations of Work: Challenges for the Institutions and Social Actors, Kluwer Law International, 2019. Sull’uso formale e informale degli accordi quadro che può essere fatto dai sindacati locali si veda: M. M. LUCIO, S. MUSTCHIN, , Transnational Collective Agreements and the Development of New Spaces for Union Action: The Formal and Informal Uses of International and European Framework Agreements in the UK, in British Journal of Industrial Relations, n. 55, 3, 2017, p. 577–601. Sui fattori che consentono la costruzione di un dialogo sociale tra attori locali e internazionali si veda: A. GANSEMANS ET AL., Planting Seeds for Social Dialogue: An Institutional Work Perspective, in British Journal of Industrial Relations, 2020.
403 Sulla riarticolazione della strategie d’azione del sindacalismo globale si veda: V. BORGHI, L. DORIGATTI, L. GRECO, Il lavoro e le catene globali del valore, cit, p.131 e ss.
tra imprese multinazionali e federazioni sindacali404. Il fenomeno della contrattazione collettiva a livello globale si è sviluppato tramite quello che è stato definito da Fausta Guarriello un processo di “learning by doing” in quanto maturato “al di fuori di un quadro giuridico vincolante”405. In assenza di obblighi legali, gli accordi quadro sono stati stipulati prevalentemente da imprese che hanno sede nell’Unione Europea, grazie alle consolidate tradizioni di confronto e dialogo sociale presenti nel vecchio continente406. Circa l’87 per cento degli IFAs è stato infatti stipulato da imprese multinazionali che hanno la propria sede in paesi membri dell’Unione Europea, in particolar modo in Francia e Germania, anche se negli ultimi anni il fenomeno sta assumendo una vera portata globale e IFAs sono stati sottoscritti anche da imprese asiatiche o sudamericane407.
404 R. ZIMMER, International Framework Agreements, in International Organizations Law Review,
- 17, 2020, p. 204. Se si tiene conto anche degli accordi quadro europei il numero complessivo già nel 2017 superava i 335 – Cfr. U. REHFELDT, Una Mappatura degli accordi transnazionali di gruppo: quadro di analisi e linee di tendenza, in F. GUARRIELLO-C. STANZANI (a cura di), Sindacato e contrattazione nelle multinazionali. Dalla normativa internazionale all’analisi empirica., cit. Si segnala che la Commissione Europea, in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha creato un database degli accordi quadro globali indentificati, consultabile all’indirizzo: https://ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=978&langId=en&company=&hdCountryId=&companySize= §orId=&year=&esp=&geoScope=65&refStandard=&keyword=&mode=advancedSearchSubmit
405 F. GUARRIELLO, Learning by doing: contrattare (senza regole) nella dimensione globale, in F. GUARRIELLO-C. STANZANI (a cura di), Sindacato e contrattazione nelle multinazionali. Dalla normativa internazionale all’analisi empirica., cit., p. 17.
406 L’Unione Europea rappresenta il terreno più fertile per la sottoscrizione degli accordi quadro anche per via di un quadro legale che, con l’istituzione del Comitati Aziendali Europei (CAE), ha fornito basi giuridiche a fenomeni di informazione e consultazione di carattere transnazionale. Sul potere negoziale dei Consigli Aziendali Europei si veda: A. RAGUSEO, Titolarità di poteri negoziali in capo agli european works councils e transnational company agreements: problematiche e potenzialità, in. A. LASSANDRI, F. MARTELLONI, P. TULLINI, C. ZOLI (a cura di), La contrattazione collettiva nello spazio economico globale, cit. Per alcune riflessioni precedenti alla rifusione della direttiva 38/2009 si veda: A. PERULLI, Contrattazione transnazionale nell’impresa europea e CAE: spunti di riflessione, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2000; F. GUARRIELLO, Le funzioni negoziali del comitato aziendale europeo tra modello normativo e costituzione materiale: prime riflessioni, in Lavoro e Diritto, n. 4, 2005. Sul diritto di informazione e consultazione di derivazione comunitaria (e sui suoi limiti): L.GUAGLIANONE, Il problema delle informazioni riservate (l’impresa di fronte all’informazione e consultazione dei lavoratori
– d.lg. 6 febbraio 2007, n. 25), in Le nuove leggi civili commentate, 4, 2008. Più in generale su CAE e contrattazione collettiva transnazionale: E. ALES., Transnational Collective Barganing and European Works Concils: from Hurdle to Stepping Stone? in G. Casale, T. Treu (a cura di), Transformations of work: challenges for the national systems of labour law and social security, Giappichelli, Torino, 2018.
407 Sulle motivazioni che possono spingere imprese extra-europee a sottoscrivere accordi quadro globali si veda: K. PAPADAKIS Adopting International Framework Agreements in the Russian Federation, South Africa and Japan: Management Motivations, in K. PAPADAKIS (ed.), Shaping Global Industrial Relations. The Impact of International Framework Agreements, Internazional Labour Organization, Palgrave Macmillan, 2011.
3.1 Soggetti, struttura, contenuti, ambito di applicazione e forza giuridica degli accordi quadro
Gli accordi quadro globali sono solitamente sottoscritti da una impresa multinazionale e da una federazione sindacale globale (“Global Union Federation” o “GUF”). Se lo schema tipico prevede la presenza di due parti negoziali, nella pratica si assiste spesso alla presenza dal lato dei lavoratori di più soggetti che negoziano e talvolta sottoscrivono gli accordi. A fianco delle GUFs non è infatti raro trovare anche sindacati nazionali o comitati aziendali globali o europei. Proprio la presenza di comitati aziendali europei ha svolto un ruolo fondamentale per la negoziazione degli accordi quadro, soprattutto nella fase iniziale di sviluppo del fenomeno. Il dato è corroborato da un recente lavoro di mappatura degli accordi quadro dal quale è emerso che “la grande maggioranza degli IFA è stata firmata da una multinazionale che aveva precedentemente costituito un CAE”408, ad ulteriore conferma della dimensione europea del fenomeno e dell’importanza di un quadro legale che favorisca il dialogo sociale a livello transnazionale.
La sottoscrizione di accordi quadro globali, come detto, avviene in assenza di un quadro giuridico vincolante, tanto che, per inquadrare il fenomeno, vi è stato chi ha parlato di “accordi di riconoscimento”409 e vi è chi ha utilizzato il quadro teorico- concettuale offerto dalla teoria dell’ordinamento intersindacale di Gino Giugni410. Occorre pertanto interrogarsi sulle motivazioni che possono spingere le imprese a negoziare e concludere questi accordi411. Innanzitutto, la sottoscrizione di un accordo
408 U. REHFELDT, Una mappatura degli accordi transnazionali di gruppo: quadro di analisi e linee di tendenza, in F. GUARRIELLO-C. STANZANI (a cura di), Sindacato e contrattazione nelle multinazionali. Dalla normativa internazionale all’analisi empirica., cit., p. 48.
409 In questo senso K. PAPADAKIS, Lezioni apprese e dibattiti in corso sull’implementazione degli IFAs nelle catene di sub-fornitura globali, in F. GUARRIELLO, C. STANZANI (a cura di), Sindacato e contrattazione nelle multinazionali. Dalla normativa internazionale all’analisi empirica., cit., p. 116
410 S. NADALET, La contrattazione collettiva transnazionale sui diritti fondamentali: una vera e propria contrattazione collettiva? in A. LASSANDRI, F. MARTELLONI, P. TULLINI, C. ZOLI (a cura di), La contrattazione collettiva nello spazio economico globale, cit, p. 312
411 Sulle motivazioni che possono spingere le imprese multinazionali alla stipulazione di accordi quadro globali si veda: F. HADWIGER, Contracting International Employee Participation, Springer International Publishing, Cham, 2018, pp. 85 e ss. U. REHFELDT, Una mappatura degli accordi
quadro può essere funzionale a conferire maggior credibilità agli impegni adottati dall’impresa nell’ambito di politiche di responsabilità sociale e, inoltre, può contribuire al miglioramento delle relazioni sindacali nel gruppo. In secondo luogo, l’esistenza di un accordo quadro può essere uno strumento che viene utilizzato dall’impresa per armonizzare le politiche di gestione del personale e di gestione della catena di approvvigionamento nei confronti delle sussidiarie e dei fornitori. Infine, l’esistenza di un accordo quadro e di un avanzato dialogo sociale a livello transnazionale può facilitare la gestione di eventuali ristrutturazioni aziendali transnazionali412.
Quanto al contenuto, quasi tutti gli accordi quadro globali contengono disposizioni relative al rispetto dei principi e dei diritti fondamentali del lavoro enunciati dalla dichiarazione OIL del 1998. Nello stesso anno, infatti, le federazioni sindacali internazionali hanno stabilito dei contenuti minimi necessari per la conclusione di un accordo che includevano proprio l’impegno dell’impresa a rispettare i principi e diritti fondamentali della menzionata dichiarazione. Tuttavia, non mancano casi di accordi dal contenuto limitato ad una singola questione come, ad esempio, la salute e la sicurezza sul lavoro, la libertà di associazione, la prevenzione delle molestie sul luogo di lavoro413. In altri casi, gli accordi, oltre a prevedere il rispetto dei principi e dei diritti fondamentali del lavoro, prendono in considerazione particolari questioni che riguardano il settore in cui vengono conclusi. Un esempio di quest’ultimo tipo è rappresentato dall’accordo sottoscritto tra Club Mediterraneé e le federazioni sindacali IUF e EFFAT che prevede specifiche disposizioni volte a regolamentare la mobilità transnazionale dei lavoratori stagionali414.
transnazionali di gruppo: quadro di analisi e linee di tendenza, in F. GUARRIELLO-C. STANZANI (a cura di), Sindacato e contrattazione nelle multinazionali. Dalla normativa internazionale all’analisi empirica., cit., p. 53.
412 Sul tema delle ristrutturazioni si veda: S. SCARPONI, S. NADALET, Gli accordi transnazionali sulle ristrutturazioni d’imprese, in Lavoro e Diritto, 2, 2010.
413 Un esempio di accordo avente ad oggetto una singola questione è quello sottoscritto nel 2016 tra la multinazionale Unilever e le federazioni sindacali IUF e IndustrialALL per la prevenzione delle molestie di natura sessuale sul luogo di lavoro, il cui obiettivo è: “to ensure that all employees, including employees provided by third party labour suppliers, are aware of what constitutes sexual harassment and that they understand fully what is expected of them, know how to raise a potential issue, and feel confident to report any alleged abuses”, disponibile all’indirizzo: https://ec.europa.eu/employment_social/empl_portal/transnational_agreements/unilever_joint_commitm ent_IT.pdf
414 Già il titolo dell’accordo rispecchia il duplice oggetto: “Agreement regarding respect for fundamental rights at work and transnational mobility of Club Méditerranée employees (GE service staff)
Negli ultimi anni, inoltre, si è registrato un cambio di strategia da parte delle federazioni sindacali globali che incide anche sul contenuto degli accordi. In un primo tempo, le federazioni erano interessate a sottoscrivere quanti più accordi possibile nell’intento di favorire e rendere diffuse le pratiche di dialogo sociale a livello transnazionale. Più recentemente, invece, le federazioni sindacali sono passate da un approccio quantitativo ad uno qualitativo, concentrandosi sul miglioramento degli accordi esistenti, in particolare cercando di negoziare disposizioni che vadano oltre il rispetto dei diritti fondamentali sul lavoro e riguardino anche altri aspetti quali, tra i vari, il livello dei salari, la salute e sicurezza sul lavoro, l’orario di lavoro, la formazione professionale e le politiche di welfare aziendale415.
Anche l’ambito di applicazione degli accordi ha subito rilevanti cambiamenti negli ultimi anni. Tipicamente, gli accordi sono limitati all’impesa multinazionale e alle imprese da questa controllate416. In tempi più recenti, tuttavia, ha iniziato ad essere affrontato il problema delle condizioni di lavoro presso i fornitori diretti e, più raramente, anche quelli indiretti. In molti accordi è previsto che i fornitori con i quali l’impresa intrattiene delle relazioni di natura commerciale devono essere “informati” del contenuto degli accordi e “incoraggiati” a rispettarne il contenuto417. Nella maggior parte dei casi non vengono specificate le conseguenze nell’ipotesi di mancato rispetto da parte dei fornitori dei diritti sanciti nell’accordo quadro, anche se, al contrario, alcuni accordi prevedono sanzioni severe quali la possibilità di terminare la relazione contrattuale. Sotto tale profilo è necessario effettuare una ulteriore specificazione, in quanto in taluni casi la possibilità di terminare la relazione contrattuale viene subordinata al rispetto degli obblighi contrattuali già in essere tra impresa multinazionale e fornitori. Ad esempio, l’accordo sottoscritto tra ENI e IndustriALL prevede che: “eventuali gravi violazioni […] a cui non venga posto rimedio, determineranno la cessazione del rapporto con
in Europe and Africa”, disponibile all’indirizzo: https://ec.europa.eu/employment_social/empl_portal/transnational_agreements/ClubMed_Accordmondi almobilite_EN.pdf
415 R. ZIMMER, International Framework Agreements, cit., p. 184.
416 Ibidem.
417 In un ampio lavoro di monitoraggio degli IFAs del 2018 è stato stimato che il 42% degli accordi contiene disposizioni di questo tipo – cfr. F. HADWIGER, Contracting International Employee Participation, cit., p. 148.
l’Azienda interessata in conformità con gli obblighi contrattuali”418. Ciò significa che la cessazione del rapporto con i fornitori che non rispettano i diritti fondamentali sul lavoro sarà possibile solo quando l’impresa multinazionale avrà inserito nei contratti commerciali specifiche disposizioni in tal senso.
In una minoranza di casi, gli accordi quadro hanno un ambito di applicazione che si estende a tutta la catena globale del valore e che coinvolge, pertanto, oltre ai fornitori diretti, anche tutti gli eventuali sub-appaltatori. Tali accordi sono presenti soprattutto nel settore tessile che, come visto, è caratterizzato da lunghe catene di approvvigionamento governate dai grandi marchi globali, ma si possono trovare anche in altri settori419. Ad esempio, l’accordo sottoscritto da Enel e IndustriaALL prevede che “il Gruppo Enel assicura pieno rispetto delle leggi applicabili e degli standards internazionali nei suoi rapporti con i fornitori ed appaltatori e promuove il presente accordo nei confronti dell’interna “catena di approvvigionamento”420.
Resta da capire quale sia il valore legale degli IFAs che, come detto, vengono negoziati in assenza di un chiaro quadro legale di riferimento. Sul punto non sono mancati estesi studi che hanno cercato di stabilire se e con quali modalità potrebbe essere possibile chiederne l’applicazione in via giudiziaria, ma il dibattito è ancora aperto e le posizioni sono molteplici421. In sintesi, si può affermare che la loro giustiziabilità risiede
418 L’accordo sottoscritto da ENI con il la federazione sindacale internazionale IndustriALL e i sindacati nazionali CGIL, CISL e UIL è consultabile al seguente indirizzo https://ec.europa.eu/employment_social/empl_portal/transnational_agreements/eni_gfa_2016_IT.pdf
419 Esempi di questo tipo sono gli accordi stipulati dalla GUF IndustriAll con le imprese Inditex, H&M, Tchibo. Si veda, in tal senso: F. HADWIGER, Achieving Decent Work in Global Supply Chains – Towards an Industry Wide Standard in the Garment Sector? Global Framework Agreements with Inditex and H&M, International Labour Office, Ginevra, Svizzera, 2016; E.E. KORMAZ, The Inditex International Framework Agreement Coinciding Interests: The Turkish Case, in W. SANGUINETI (a cura di), La transnacionalizacion de lase relaciones laborales. Experiencias de gestion en las empresas multinacionales espanolas, Ediciones Cinca, Madrid, 2015.
420 L’accordo sottoscritto da ENEL con le federazioni sindacali internazionali IndustriALL e PSI oltre che dai sindacati CGIL, CISL e UIL è consultabile al seguente indirizzo https://ec.europa.eu/employment_social/empl_portal/transnational_agreements/enel_gfa_it.pdf
421 Tra i più ampi studi sulla natura giuridica degli accordi quadro si segnalano: A. VAN HOEK, F. HENDRICKX, International Private Law Aspects and Dispute Settlement Related to Transnational Company Agreements, Study on behalf of the European Commission, 2009; R. RODRIGUEZ, Study on the characteristics and legal effect of agreements between companies and workers’ representatives, Commissione Europea, 2011. Sul punto si vedano anche le riflessioni di: S. SCARPONI, Gli accordi- quadro internazionali ed europei stipulati con le imprese transnazionali: quale efficacia?, in Atti del Convegno nazionale Nuovi assetti delle fonti del Diritto del Lavoro, Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro «Domenico Napoletano», Otranto, 10-11 Giugno 2011, p. 71–100; M. MURGO, Accordi quadro globali e Organizzazione internazionale del lavoro: un’interazione virtuosa ma perfettibile, in Lavoro e
nelle possibilità offerte dagli ordinamenti nazionali e dipende dal testo e dalla formulazione dei singoli accordi i quali, peraltro, quando presentano disposizioni sul loro valore legale, lo fanno in modo piuttosto vago422. A tal riguardo, è stato correttamente osservato che “le stesse parti, nel modo di formulare le clausole e anche di prevedere meccanismi di controllo, monitoraggio e sanzione, assumono come via privilegiata quella intersindacale […]”423. Il dato è ulteriormente confermato dalla circostanza che, ad oggi, non risulta essere stata mai intrapresa alcuna iniziativa giudiziaria volta a far rispettare gli impegni assunti da un’impresa multinazionale in un accordo quadro globale424. L’assenza di contenzioso si può spiegare non solo con l’incertezza relativa allo statuto giuridico degli IFAs quanto, piuttosto, con la constatazione che un’azione giudiziaria finirebbe con il testimoniare la fine di quel dialogo sociale e di quella collaborazione che risultano centrali, in un contesto dominato dall’assenza di obblighi giuridici, sia per la sottoscrizione di un accordo che per la sua successiva positiva attuazione.
Se, da un lato, la prospettiva di una attuazione per via giudiziaria degli IFAs è problematica per le ragioni illustrate, dall’altro va evidenziato che negli accordi di ultima generazione è presente un numero sempre maggiore di disposizioni volte a prevedere procedure e meccanismi alternativi di risoluzione delle controversie quali il ricorso a procedure arbitrali425.
Nel contesto descritto l’attuazione e il monitoraggio congiunto rappresentano gli strumenti centrali che determinano l’efficacia degli accordi quadro globali, tanto che è stata spesso sottolineata l’importanza degli aspetti procedimentali per determinare la
previdenza oggi, 1-2/2020, p. 39-64; A. TOPO, D. TARDIVO, Accordi transnazionali, clausole di responsabilità sociale e tutela del sindacato, in Lavoro e Diritto, 1, 2021.
422 Il 16 % degli IFAs prevede addirittura clausole con le quali le parti dichiarano di non considerare l’accordo giuridicamente vincolante né azionabile in giudizio. Cfr. F. HADWIGER, Contracting International Employee Participation, cit., p. 47.
423 S. SCARPONI, Gli accordi-quadro internazionali ed europei stipulati con le imprese transnazionali: quale efficacia?, cit., p. 91.
424 F. HADWIGER, Contracting International Employee Participation, cit. Fa eccezione quanto si dirà nel paragrafo 4.2 sull’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh, in relazione al quale sono stati promossi due giudizi arbitrali.
425 F. HADWIGER, Looking to the Future: Mediation and Arbitration Procedures for Global Framework Agreements, in Transfer: European Review of Labour and Research, n. 23, 4, 2017, p. 409– 424.
qualità di un accordo426. Come si vedrà nel prossimo paragrafo, soprattutto nel caso di imprese multinazionali che operano attraverso lunghe catene del valore risulta infatti fondamentale, per la buona attuazione dell’accordo, la definizione in modo dettagliato degli obblighi delle parti in relazione al dovere di informazione, alla trattazione dei reclami, al coinvolgimento dei lavoratori nelle fasi di monitoraggio e ai sistemi di gestione delle controversie.
3.2 L’attuazione degli accordi quadro nelle catene globali del valore
Un’analisi delle potenzialità degli accordi quadro non può prescindere da alcune considerazioni preliminari sulle modalità con le quali il livello centrale e quello locale dovrebbero interagire tra loro al fine di garantire un’effettiva attuazione degli accordi lungo le catene globali. L’attuazione e il monitoraggio degli accordi quadro si compone infatti di dinamiche che si muovono in direzioni contrapposte, dal centro alla periferia e viceversa. La negoziazione dell’accordo avviene a livello centrale e la sua diffusione presso le imprese controllate e i fornitori viene attuata tramite un approccio che fa leva sul potere e il ruolo dell’impresa leader. Il monitoraggio invece si avvale principalmente di una dinamica che poggia sulla capacità dei sindacati locali di rilevare eventuali criticità applicative e portarle all’attenzione delle federazioni sindacali affinché vengano trattate a livello centrale.
Ne emerge un quadro in cui l’effettività degli accordi è strettamente dipendente dal livello di coinvolgimento degli attori locali nelle attività di monitoraggio427. La letteratura ha da tempo evidenziato come, in assenza del coinvolgimento degli attori locali, ci sia il rischio che gli accordi rimangano confinati a livello sovranazionale nel circoscritto ambito dei soggetti che li hanno negoziati, con poche o nulle ricadute
426 R. ZIMMER, International Framework Agreements, cit.
427 Per un’analisi di come il contesto istituzionale e locale condizioni l’applicazione degli accordi quadro globali si veda: C. NIFOROU, International Framework Agreements and Industrial Relations Governance: Global Rhetoric versus Local Realities, in British Journal of Industrial Relations, n. 50, 2, 2012, p. 352–373. Sui fattori che contribuiscono al successo e all’insuccesso di un efficace monitoraggio e attuazione degli accordi quadro si veda anche: C. LOUCHE et al., When Workplace Unionism in Global Value Chains Does Not Function Well: Exploring the Impediments, in Journal of Business Ethics, n. 162, 2, 2020, p. 379–398.
pratiche per i lavoratori coinvolti nelle catene del valore i quali, talvolta, non sono nemmeno a conoscenza dell’esistenza dell’accordo quadro428.
Negli ultimi anni, per tale ragione, l’attenzione delle federazioni sindacali si è concentrata sulla negoziazione di procedure di monitoraggio sempre più complesse e dettagliate, che prevedono obblighi di informazione e, il più possibile, anche il coinvolgimento del management e dei sindacati locali. In tale ottica, ad esempio, la federazione sindacale IndustriaALL prevede nelle proprie linee guida sulla stipulazione degli IFAs l’inserimento di una clausola con la quale le imprese si impegnino a diffondere l’accordo e ad assicurare che lavoratori, manager, fornitori e sub-appaltatori siano adeguatamente formati sui contenuti e le modalità di applicazione dell’accordo stesso429.
In molti accordi, inoltre, è prevista la costituzione di strutture paritetiche, variamente denominate, composte da personale dell’impresa e rappresentanti delle federazioni firmatarie, che hanno il compito di discutere dello stato di attuazione e di affrontare eventuali criticità. La tendenza più recente, per la verità solo abbozzata, è quella di coinvolgere in tali strutture i rappresentanti dei sindacati dei paesi ove hanno sede gli stabilimenti produttivi, talvolta anche solo come osservatori. Ad esempio, l’accordo sottoscritto da Arcelor-Mittal prevede che nel comitato di monitoraggio sia presente, oltre ad un rappresentante delle GUF firmatarie, anche “un rappresentante proveniente da ogni area geografica coperta dal presente accordo”430.
Al fine di migliorare il flusso di informazioni tra stabilimenti locali e strutture di monitoraggio centrali, inoltre, gli accordi quadro prevedono in modo più o meno
428M. FICHTER, J. K. MCCALLUM, Implementing Global Framework Agreements: the Limits of Social Partnership, in Global Networks, n. 15, 2015, p. 65–85; S. SCARPONI, Gli accordi-quadro internazionali ed europei stipulati con le imprese transnazionali: quale efficacia?, cit., p. 102; A. SOBCZAK, Ensuring the Effective Implementation of Transnational Company Agreements, in European Journal of Industrial Relations, n. 18, 2, 2012, p. 139–151.
429In tali linee guida si legge infatti che: “The multinational company concerned must ensure that the GFA is disseminated in the appropriate local languages to workers, managers, suppliers and sub- contractors, and that education and training about its contents and implementation is organized for all these groups”. http://www.industriall- union.org/sites/default/files/uploads/documents/GFAs/industriall_gfa_guidelines_final_version_exco_1 2-2014_english.pdf
430 Art. 9 dell’accordo sottoscritto dal gruppo Arcelor-Mittal con le federazioni sindacali FIM e FEM, consultabile all’indirizzo
https://ec.europa.eu/employment_social/empl_portal/transnational_agreements/Arcelor_IFA_IT.pdf
dettagliato le procedure con le quali possono essere segnalate situazioni di mancato rispetto degli accordi. Tali procedure sono strutturate nel modo più vario e si registrano casi in cui vengono istituiti organi ad hoc, altri in cui le segnalazioni possono essere effettuate tramite l’invio di lettere, mail, e altri strumenti idonei a garantire l’anonimato. In ogni caso, come detto, il canale principale dovrebbe rimanere quello sindacale, attraverso il quale i lavoratori, rivolgendosi ai sindacati locali, possono far emergere situazioni di mancato rispetto dell’accordo e, quando tali questioni non vengono risolte a livello locale, portarle all’attenzione delle federazioni sindacali internazionali e della sede centrale.
La necessità di un effettivo coinvolgimento degli attori sindacali locali per il successo degli accordi quadro crea un altro apparente paradosso: l’attuazione degli accordi è più difficile proprio dove vi è maggior bisogno, e cioè in quei paesi che non garantiscono i diritti fondamentali sul lavoro e in primis la libertà di associazione. Non a caso l’effettività rappresenta l’aspetto più critico degli accordi-quadro, come sottolineato in un recente volume sulla contrattazione collettiva transnazionale curato da Fausta Guarriello e Carlo Stanzani, in cui sono stati presentati i risultati di una ampia ricerca empirica dalla quale emerge che, in generale, il monitoraggio sulla catena dei fornitori è ancora estremamente debole431.
Nonostante nel complesso l’attuazione degli accordi quadro presso fornitori e sub- fornitori sia solo abbozzata, si registrano anche alcune esperienze positive e casi in cui l’esistenza di un accordo quadro è stata utilizzata con successo per affrontare violazioni dei diritti fondamentali presso i fornitori o per dare avvio a pratiche di dialogo sociale a livello locale.
Un accordo quadro globale che viene generalmente considerato una best practice, sia per il suo ambito di applicazione che per i meccanismi di monitoraggio che sono stati concordati dalle parti, è quello sottoscritto da Inditex e IndustriALL432. L’accordo quadro globale tra la multinazionale della moda spagnola (che detiene, tra gli altri, il
431 C. STANZANI, Presentazione della ricerca Euride. Una dinamica in cerca di coerenza dal globale al locale, in F. GUARRIELLO-C. STANZANI (a cura di), Sindacato e contrattazione nelle multinazionali. Dalla normativa internazionale all’analisi empirica., cit., p. 130.
432 In tal senso V. BRINO, Diritto del lavoro e catene globali del valore. La regolazione dei rapporti di lavoro tra globalizzazione e localismo, cit, p. 166 e ss.
marchio Zara) e la federazione sindacale globale IndustriALL è stato stipulato per la prima volta nel 2007 e successivamente rinnovato nel 2014 e nel 2019. Il preambolo dell’accordo contiene un espresso riconoscimento dell’importanza della libertà di associazione e di contrattazione collettiva nel garantire il rispetto degli standard di lavoro dignitoso lungo tutta la catena dei fornitori433. Proprio l’ambito di applicazione, come detto, rappresenta uno degli aspetti più significativi di tale accordo, in quando Inditex si è impegnata a darvi attuazione “to all workers throughout its entire supply chain, regardless whether they are directly employed by Inditex or its manufacturers and suppliers”434. Si tratta, pertanto, dell’ambito di applicazione più esteso possibile poiché riguarda tutta la catena del valore e include, come ulteriormente specificato nell’accordo, anche i fornitori dove non sono presenti sindacati associati alla federazione sindacale globale firmataria.
Quanto alle strutture di monitoraggio, l’accordo prevede la creazione di una “Global Union Committe” composta da sindacati affiliati ad IndustriALL presenti presso gli stabilimenti dei fornitori (in rappresentanza dei lavoratori “indiretti” di Inditex) e da sindacati spagnoli (in rappresentanza dei lavoratori “diretti” di Inditex). È previsto inoltre che detta commissione elegga al proprio interno un “coordinamento” composto da quattro persone, con funzioni di raccordo con il management dell’impresa. Ulteriori aspetti che meritano di essere menzionati sono rappresentati dall’impegno di Inditex di garantire ad IndustriALL informazioni sulla struttura della propria catena del valore e, ancor più significativamente, dall’impegno di garantire il diritto di accesso agli stabilimenti produttivi, secondo modalità che vengono concordate tra l’impresa e il Coordinamento. Le parti, inoltre, si sono impegnate ad informare tempestivamente l’altra parte di possibili casi di violazione dell’accordo, al fine di concordare le azioni di rimedio.
433 Per una ricostruzione dello sviluppo delle relazioni industriali all’interno del gruppo Inditex si segnala: I. BOIX LUCH, Intervención sindical en la cadena de valor de las empresas multinacionales para una eficaz aplicación de los compromisos de RSE: la experiencia de Inditex, in W. SANGUINETI RAYMOND, La transnacionalización de las relaciones laborales: experiencias de gestión en las empresas multinacionales españolas. cit., p. 117 ss; I. BOIX LUCH, L’Accordo quadro globale di Inditex : un modello di azione sindacale globale : un bilancio dopo la firma del rinnovo e dell’ampliamento del 2019, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 166, 2020.
434 International Framework Agreement Inditex-IndustiALL del 13 novembre 2019, pag. 2-3.
L’utilità dell’esistenza di un consolidato dialogo sociale tra l’impresa multinazionale e IndustriALL è venuta recentemente in rilevo anche per via degli effetti che la pandemia da Covid-19 ha causato al settore tessile. Inditex e IndustriALL, infatti, hanno rilasciato un “joint statement” con il quale si sono reciprocamente impegnate a collaborare per garantire una rapida ripresa economica e sociale dell’industria tessile, in particolare sottolineando l’importanza di garantire ai fornitori pagamenti regolari e pratiche di approvvigionamento sostenibili evitando così che quest’ultimi scarichino i costi della pandemia sui lavoratori435.
In conclusione, si è visto che gli accordi più recenti cercano di enfatizzare gli aspetti procedurali e la creazione di sistemi di monitoraggio sempre più complessi, come testimoniato dal caso appena illustrato. L’attuazione degli accordi, infatti, costituisce l’aspetto più importante del fenomeno della contrattazione collettiva transnazionale nonché il più critico, il cui successo dipende da un insieme variabile di fattori. L’esistenza di consolidate dinamiche di dialogo sociale a livello centrale costituisce una precondizione per la negoziazione e la stipulazione dell’accordo, ma non necessariamente garantisce la sua effettiva attuazione, che in ultima analisi è determinata dalle relazioni e le dinamiche di potere che di volta in volta si instaurano, a livello locale, tra impresa multinazionale, organizzazioni sindacali e fornitori436.
3.3 Relazioni industriali transnazionali e due diligence in materia di diritti umani: quali interazioni?
Lo sviluppo delle relazioni sindacali transnazionali offre interessanti prospettive di interazione con il paradigma della due diligence in materia di diritti umani. Innanzitutto, sia gli accordi quadro globali che le procedure di due diligence in materia di diritti umani, sebbene con modalità diverse, rispondono alla medesima esigenza di fondo, che è quella di rendere le imprese multinazionali responsabili per l’impatto delle loro azioni lungo le catene del valore. Infatti, entrambi gli strumenti prendono le mosse da una
435 Il comunicato è disponibile all’indirizzo: http://admin.industriall- union.org/sites/default/files/uploads/documents/2020/SWITZERLAND/Inditex/_inditex_and_industriall
_global_union_joint_declaration_-_final_negotiated_-_en.pdf
436 C. NIFOROU, International Framework Agreements and Industrial Relations Governance: Global Rhetoric versus Local Realities, cit.
lettura condivisa della realtà economica, che riconosce il potere delle imprese che occupano la posizione di vertice delle catene del valore e intende utilizzarlo per condizionare il comportamento di fornitori e sub-appaltatori. Tra accordi quadro e procedure di due diligence vi è, inoltre, quella che è stata definita una “convergenza oggettiva”, in quanto entrambi gli strumenti sono volti a tutelare i medesimi diritti sul lavoro, tratti dagli strumenti internazionali e in particolare dalle convenzioni fondamentali dell’OIL (anche se il contenuto delle misure riguardanti la due diligence, come noto, va oltre e ricomprende tutti i diritti fondamentali)437.
Ciò premesso, vi è anche una parziale divergenza soggettiva e metodologica che merita di essere evidenziata. Gli accordi quadro globali costituiscono una forma di regolazione che nasce da una risposta autonoma del fattore lavoro agli effetti dei processi di esternalizzazione e delocalizzazione generati dalla globalizzazione. Si tratta di un tipo di regolazione che si sviluppa tra soggetti privati in assenza di un quadro giuridico vincolante ed è di carattere volontario e negoziato.
Le procedure di due diligence, invece, nascono quali procedure di natura volontaria ma stanno diventando sempre più obbligatorie, in quanto imposte da autorità pubbliche nazionali o sovranazionali438. Inoltre, le procedure di due diligence adottano una metodologia essenzialmente unilaterale: l’impresa valuta e monitora l’impatto delle proprie azioni sui soggetti terzi, senza che avvenga alcun tipo di contrattazione bilaterale, essendo tuttalpiù previste forme di consultazione con i portatori di interesse. É interessante, sul punto, notare il diverso ruolo che assumono i lavoratori negli accordi quadro globali e nelle procedure di due diligence. Nel primo caso, i lavoratori sono degli attori protagonisti che, tramite le federazioni sindacali globali, negoziano con l’impresa multinazionale su un piano di parità almeno formale, sebbene con un potere contrattuale non certo equiparabile. Nel secondo caso, invece, i lavoratori rivestono un ruolo più marginale, in quanto costituiscono uno dei tanti portatori di interesse che devono essere consultati senza che, tuttavia, possano rivendicare o negoziare alcunché in relazione alle
437 In questo senso, scrivendo della legge francese sul devoir de vigilance: I. DAUGAREILH, Il dovere di vigilanza “alla francese”: un’opportunità per gli accordi quadro internazionali? in F. GUARRIELLO,
- STANZANI, Sindacato e contrattazione nelle multinazionali. Dalla normativa internazionale all’analisi empirica., cit., p. 80-83.
438 Per un’analisi di tale processo si rinvia al paragrafo 3 del precedente capitolo.
azioni intraprese dalle imprese multinazionali in esecuzione delle procedure di due diligence.
Quali sono, dunque, le possibili interazioni tra processi e metodologie all’apparenza così distanti?
Nonostante la diversità degli approcci, l’introduzione di procedure di due diligence può offrire una sponda significativa alla contrattazione collettiva transnazionale, sotto diversi profili.
Come si è più volte osservato, i Principi Guida hanno sancito autorevolmente nel discorso pubblico che le imprese devono essere ritenute responsabili, in una certa misura, degli impatti derivanti anche dalle azioni di fornitori e sub-fornitori su cui dispongono di un’influenza (“leverage”). Conseguentemente, risulta sempre meno praticabile per le imprese celarsi dietro il cd. “velo societario” e negare ogni responsabilità per le azioni di soggetti quali i fornitori e i sub-fornitori. Questo processo di ridefinizione a livello internazionale del perimetro della responsabilità delle imprese dovrebbe aiutare le federazioni sindacali globali a negoziare degli IFAs con un ambito di applicazione sempre più ampio, che vada oltre il solo gruppo societario ed includa tutta la catena del valore. Si tratta di un processo già in atto ma che necessita di essere rafforzato e che può trovare un appiglio significativo proprio nei Principi Guida e nelle legislazioni che introducono obblighi di vigilanza o di diligenza.
L’introduzione di procedure di due diligence obbligatorie a livello nazionale o sovranazionale comporta inoltre che le imprese, per adempiere correttamente ai nuovi obblighi, dovranno in ogni caso elaborare strategie per prevenire le violazioni dei diritti fondamentali presso i propri fornitori, anche al fine di evitare forme di responsabilità legale e richieste risarcitorie. Gli accordi quadro, come visto, grazie al coinvolgimento degli attori locali rappresentano uno degli strumenti di monitoraggio più efficaci e, per tale ragione, le imprese potrebbero avere un accresciuto interesse alla loro stipulazione439.
439 Sul fatto che la stipulazione di accordi quadro globali potrebbe inoltre costituire un modo per implementare gli obblighi di due diligence e sulla necessità di un intreccio virtuoso tra libertà contrattuale e obblighi legali si veda: F. GUARRIELLO, Il ruolo del sindacato e delle rappresentanze del lavoro nei processi di due diligence, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, 4 (in corso di pubblicazione), 2021.
Inoltre, l’introduzione di obblighi di due diligence in materia di diritti umani potrebbe avere un ulteriore effetto positivo sulla contrattazione collettiva, derivante dal rafforzamento del dialogo sociale. Come detto, la maggior parte degli strumenti normativi che introduce procedure di due diligence tiene in considerazione gli attori sociali e ne prescrive, in modo più o meno rigoroso, la consultazione. Ad esempio, si è visto che la proposta di direttiva dedica ampio spazio al diritto dei sindacati di essere informati e coinvolti nella definizione delle strategie di due diligence e lo stesso fa la legge francese sul devoir di vigilance, sebbene con una formulazione piuttosto vaga440. Tali interventi legislativi creano un quadro giuridico vincolante all’interno del quale è previsto il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali e, per tale ragione, potrebbero favorire la crescita di pratiche di dialogo sociale a livello transnazionale. L’esperienza dei Comitati Aziendali Europei, che ha posto le basi per la nascita di numerosi accordi quadro globali, sembra suggerire proprio che l’esistenza di una base legale per procedure di informazione e consultazione favorisca lo sviluppo di relazioni sindacali che, sul lungo periodo, possono condurre a pratiche di vera e propria negoziazione.
Bisogna tuttavia evidenziare che non sono solo le procedure di due diligence che possono rafforzare il fenomeno degli accordi quadro transnazionali, ma è vero anche il contrario. Si è già detto dei rischi di selettività derivanti da un processo di risk- management unilaterale come quello della due diligence441. Ebbene, l’esistenza di accordi quadro a fianco delle procedure di due diligence potrebbe garantire che venga prestata la giusta attenzione anche a quei diritti, quali la libertà di associazione, che generalmente vengono trascurati dagli strumenti privatistici di carattere unilaterale.
Ad oggi, le prime esperienze di negoziazione delle modalità del coinvolgimento dei lavoratori nell’elaborazione delle procedure di due diligence riguardano il contesto francese e sono state favorite dalla legge sul devoir de vigilance. L’eventuale approvazione della direttiva europea consentirà di dare una dimensione più estesa al
440 L’art. 5 della proposta di direttiva adottata dal Parlamento Europeo in data 10 marzo 2021 prevede espressamente che: “Gli Stati membri garantiscono in particolare il diritto dei sindacati al livello pertinente, incluso a livello settoriale, nazionale, europeo e globale, e dei rappresentanti dei lavoratori di essere coinvolti in buona fede nella definizione e nell’attuazione della strategia di dovuta diligenza della loro impresa”. Si veda più estesamente sul punto quanto esposto nel paragrafo 3.2.1 del precedente capitolo.
441 Si rimanda al paragrafo 2.1.4 del precedente capitolo.
fenomeno e rappresenterà il momento a partire dal quale si potrà verificare se l’introduzione di obblighi di due diligence sia davvero idonea a rafforzare anche il sistema di relazioni industriali a livello transnazionale e viceversa.
4 La partecipazione dell’OIL e delle organizzazioni sindacali alla governance delle catene globali del valore
La globalizzazione rappresenta una sfida considerevole non solo per le organizzazioni sindacali ma anche per le organizzazioni internazionali, che hanno dovuto ripensare il proprio ruolo e le proprie strategie in conseguenza delle trasformazioni del sistema produttivo. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) è stata una delle organizzazioni che ha dovuto ridefinire maggiormente in profondità le proprie linee di azione, visti i rilevanti effetti causati dalla globalizzazione sul mondo del lavoro442. Tale processo si è tradotto, non senza difficoltà, sia nell’adozione di nuove convenzioni che nella revisione degli strumenti esistenti443. La dichiarazione sui diritti e principi fondamentali sul lavoro del 1998, il lancio dell’agenda per il lavoro dignitoso, la dichiarazione sulla giustizia sociale per una globalizzazione giusta del 2008 sono tutti esempi di tale nuovo approccio. Tuttavia, ciò che più rileva in questa sede è che l’OIL si è fatta anche promotrice di iniziative indirizzate allo sviluppo di sistemi di regolazione “negoziata” o quantomeno “partecipata” delle catene globali del valore che prevedono il coinvolgimento di attori pubblici e privati su più livelli.
442 Si veda, inter alia: T. NOVITZ, Past and Future Work at the International Labour Organization: Labour as a Fictitious Commodity, Countermovement and Sustainability, cit. P. VAN DER HEIJDEN, The ILO Stumbling Towards its Centenary Anniversary, in International Organizations Law Review, n. 15, 1, 2018, p. 203–220. L. CORAZZA, Verso un nuovo diritto internazionale del lavoro? in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 163, 2019, p. 487 – 498. A. PERULLI., L’OIL e la globalizzazione, in Lavoro e Diritto, 3, 2019. Sulle recenti strategie dell’OIL: M. BORZAGA, Core labour standards e decent work: un bilancio delle più recenti strategie OIL, in Lavoro e Diritto, 3, 2019; C. ALESSI, Retribuzione e orario di lavoro nelle strategie dell’OIL, in Diritto delle Relazioni Industriali, 1, 2020.
443 A. POSTHUMA, A. ROSSI, Coordinated Governance in Global Value Chains: Supranational Dynamics and the Role of the International Labour Organization, in New Political Economy, n. 22, 2, 2017, p. 186–202.
4.1 Il programma Better Work: tutelare i diritti sul lavoro attraverso una governance tripartita delle catene del valore
Una delle esperienze più interessanti che ha introdotto un nuovo modello di governance delle catene del valore è rappresentata dal programma Better Work dell’OIL, che attualmente coinvolge più di 1700 imprese e 2,4 milioni di lavoratori del settore tessile444. Tale programma nasce dall’esperienza dell’OIL in Cambogia, paese nel quale oltre vent’anni fa ha istituito, con la collaborazione del governo locale, un sistema di monitoraggio delle industrie tessili basato sulla trasparenza, sulla promozione del dialogo sociale e su rigorose attività ispettive, denominato Better Factories Cambodia445. Il successo di tale esperienza ha portato alla creazione del programma Better Work, avvenuta nel 2007 grazie alla collaborazione tra l’OIL e la Società Finanziaria Internazionale (IFC), l’agenzia della Banca Mondiale che ha l’obiettivo di finanziare lo sviluppo economico dei paesi meno industrializzati446. Nei successivi quindici anni Better Work è stato attuato in una serie di paesi caratterizzati dalla presenza di un importante settore tessile vocato alle esportazioni: Giordania, Haiti, Leshotho, Indonesia, Nicaragua, Vietnam, Bangladesh ed Etiopia.
La sede del programma è a Ginevra, presso l’OIL, ma sono presenti uffici locali in ciascuno dei paesi nei quali il programma opera. L’obiettivo di Better Work consiste nel promuovere un miglioramento delle condizioni di lavoro nel settore tessile sostenendo al tempo stesso la competitività delle imprese coinvolte. Ciò che riveste particolare interesse è che, diversamente da molte iniziative multi-stakeholder, le parti sociali sono coinvolte a tutti i livelli della governance, da quello sovranazionale sino alle singole fabbriche. A livello sovranazionale, infatti, è presente una Advisory Committee con una struttura tripartita, composta da membri delle federazioni sindacali internazionali, delle
444 I dati sono ricavati direttamente dal sito ufficiale del programma Better Work, al quale si rimanda: https://betterwork.org/about-us/the-programme/
445 Per un’analisi della nascita e dello sviluppo di tale innovativo programma si veda: R. ROBERTSON, Pioneering a New Approach to Improving Working Conditions in Developing Countries: Better Factories Cambodia, IZA Discussion Paper n. 13095, 2020, p. 36. S. POLASKI, Harnessing Global Forces to Create Decent Work in Cambodia, International Labour Office, Ginevra, 2009. Per un’analisi dei primi dieci anni del programma si veda: J. MERK ET. AL, 10 years of the Better Factories Cambodia Project. A critical evaluation, Clean Clothes Campaign International Secretariat, 2012.
446 La Società Finanziaria Internazionale (IFC) è stata istituita nel 1956 ed è attualmente composta da 185 stati membri.
organizzazioni datoriali del settore della moda e da funzionari dei governi nazionali, oltre che da esperti indipendenti447. Nei paesi in cui il programma opera, inoltre, viene istituita una Project Advisory Committee composta da sindacati nazionali, rappresentanti delle imprese e funzionari dei ministeri competenti. Infine, in ciascuna delle imprese partecipanti viene istituita una commissione bipartita, denominata Performance Improvement Consultative Committee (PICC), composta da un pari numero di personale dell’impresa e rappresentanti dei lavoratori.
Il programma Better Work persegue gli obiettivi descritti attraverso un ampio ventaglio di interventi che riguardano la valutazione delle imprese, il monitoraggio delle condizioni di lavoro, l’assistenza tecnica nell’attuazione di piani di adeguamento e la formazione del personale delle imprese e dei rappresentanti dei lavoratori. In particolare, le imprese che partecipano al programma vengono esaminate e viene stabilito quali azioni devono compiere per rispettare gli standard sul lavoro richiesti dal programma, che includono sempre le convenzioni fondamentali dell’OIL oltre alle leggi locali. In seguito all’esame iniziale viene redatto un piano di adeguamento, la cui attuazione viene periodicamente monitorata attraverso audit e supportata anche mediante attività di consulenza e assistenza tecnica ad opera del personale del programma. L’attuazione dei piani di adeguamento, inoltre, viene monitorata attraverso l’attività delle PICCs, che hanno la funzione di coinvolgere i lavoratori e supportare pratiche di cooperazione a livello aziendale. Un aspetto cruciale del programma è il coinvolgimento dei grandi compratori globali, ai quali viene garantito l’accesso ai dati sul monitoraggio. Partecipando al programma Better Work, pertanto, i compratori possono fare affidamento su un sistema istituzionale di controllo delle condizioni di lavoro dei loro fornitori, riducendo i rischi reputazionali e beneficiando degli eventuali aumenti di produttività che tale programma ambisce a generare.
Oltre al miglioramento delle condizioni di lavoro nelle singole fabbriche, il programma è volto a rafforzare le istituzioni nazionali e il sistema di relazioni industriali nel suo complesso. Per tale ragione, l’OIL offre anche attività di consulenza nei confronti dei governi nazionali. I programmi sono generalmente finanziati da governi
447 A livello sovranazionale, a fianco dell’adovisory committe è inoltre presente un management group, con funzioni di indirizzo strategico e di supervisione del programma composto da personale dell’OIL e dell’IFC.
nazionali e istituzioni internazionali per un periodo di cinque anni, successivamente al quale vengono eventualmente rinnovati.
L’innovativo intervento sul campo attuato dall’OIL prima con Better Factories Cambodia e successivamente con Better Work ha generato un significativo numero di ricerche che hanno messo in risalto le dinamiche virtuose prodotte da tale modello di governance e anche taluni suoi limiti448. In generale, il programma Better Work è stato in grado di condurre ad un miglioramento delle condizioni di lavoro sotto plurimi aspetti quali l’orario di lavoro, i livelli retributivi, la salute e sicurezza sul lavoro, le molestie sul luogo di lavoro nonché il dialogo sociale a livello aziendale449. Inoltre, le imprese coinvolte nel programma hanno dimostrato un incremento nella longevità e un miglioramento della produttività450. Il programma Better Work si è dimostrato capace, in una certa misura, anche di influenzare il quadro legale del paese nel quale è stato istituito. Ad esempio, in Giordania ha contribuito all’eliminazione del divieto di iscrizione a organizzazioni sindacali che vigeva nei confronti dei lavoratori stranieri, che in tale contesto costituiscono la maggior parte della forza lavoro nel settore tessile451. In Cambogia ha condotto all’istituzione di un Consiglio Arbitrale per la risoluzione di controversie collettive in materia di lavoro, che è stato visto come un importante passo avanti nello sviluppo di un sistema maturo di relazioni industriali452.
448 Sui risultati dell’attività dell’OIL in Cambogia si veda: A. ANTOLIN et al., Is Social Compliance Win-Win for Workers and Firms? Evidence from Better Factories Cambodia, Better Work Discussion Paper n. 39, 2020, p. 36; S. MARSHALL, Using Mixed Methods to Study Labour Market Institutions: The Case of Better Factories Cambodia, in Social & Legal Studies, n. 27, 4, 2018, p. 475–492.
449 Per una valutazione complessiva dell’impatto del programma Better Work si veda il seguente studio effettuato dalla Tufts University relativo al periodo 2010-2016: ILO, Progress and Potential: How Better Work is Improving Garment Workers’ Lives and Boosting Factory Competitiveness. A Summary of an Independent Assessment of the Better Work Programme, International Labour Office, Geneva, 2016.
450 Sul rapporto tra miglioramento delle condizioni di lavoro e performance economica si veda si veda: A. ROSSI, Better Work: Harnessing Incentives and Influencing Policy to Strengthen Labour Standards Compliance in Global Production Networks, in Cambridge Journal of Regions, Economy and Society, n. 8, 3, 2015, p. 505–520. G. DISTELHORST, R. M. LOCKE, Does Compliance Pay? Social Standards and Firm-Level Trade, cit. A. ANTOLIN et al., Is Social Compliance Win-Win for Workers and Firms? Evidence from Better Factories Cambodia, cit.
451 K. KOLBEN, Dialogic Labor Regulation in the Global Supply Chain, cit., p. 458.
452 P. HARPUR, Better Work: Problems with Exporting the Better Factories Cambodia Project to Jordan, Lesotho, and Vietnam, in Employee Relations Law Journal, n. 36, 4, 2011, p. 85. Sul sistema di risoluzione delle controversie in materia di lavoro si veda più estesamente la pubblicazione a cura dell’OIL e del Ministero del Lavoro Cambogiano: D. ADLER, S. BROWN, L. MENG, H. VAN NOORD (ed.), The Arbitration Council and the Process for Labour Dispute Resolution in Cambodia, Comunity Legal Education Centre, Phnom Penh, 2004. A. PONAK, D. TARAS, Rule of Law and Arbitration Council in Cambogia, Paper Prepared for the Labour Law Research Network Conference, Amsterdam, 2015.
Il programma è stato inoltre in grado, con alcuni limiti e ad alcune condizioni, di migliorare anche il sistema istituzionale del paese ove opera o ha operato. Altri autori hanno evidenziato come interazioni di carattere sia formale che informale siano state in grado di modificare in senso migliorativo il modo in cui gli ispettori del lavoro nazionali conducono le proprie attività453. Una ricerca sulle attività del programma in Indonesia ha concluso che il rafforzamento delle istituzioni statali si è verificato quando c’è stata la presenza concomitante di almeno due fattori: a) una mobilitazione dei lavoratori in grado di spingere il governo ad attuare misure migliorative delle condizioni di lavoro b) il supporto degli attori transnazionali a tali misure, tale da indurre i datori di lavoro a confrontarsi con i vincoli posti dalle istituzioni locali454. Un’altra ricerca sulle attività in Vietnam ha rilevato come un numero significativo dei PICCs non riesca a garantire una rappresentanza effettiva anche a causa della mancanza di libertà di associazione nel paese, sebbene consenta una partecipazione dei lavoratori comunque maggiore a quelle prevista dalle norme nazionali455. In questo caso, la regolazione transnazionale del lavoro non è riuscita a realizzare tutto il suo potenziale emancipatorio in quanto si è scontrata con i limiti derivanti da un contesto locale che limita le libertà sindacali. Una ricerca sul programma in Lesohto ha confermato l’importanza del coinvolgimento dei lavoratori tramite le PICCs nell’affrontare congiuntamente la questioni di mancata
453 Si veda in particolare il lavoro di K. Kolben che ha introdotto un quadro teorico chiamato “dialogic regulation” per analizzare le interazioni formali e informali, intenzionali e non intenzionali tra regolazione transnazionale e attori locali e lo ha applicato nel contesto di Better Work Jordan – K. KOLBEN, Dialogic Labor Regulation in the Global Supply Chain, cit. Per un applicazione di tale quadro concettuale al programma Better Work in Indonesia, in particolare per quanto riguarda l’ispettorato del lavoro, si veda: T. HARDY et al., The Interaction of Labour Inspection and Private Compliance Initiatives: A Case Study of Better Work Indonesia, Better Work Discussion Paper Series n. 21, 2016.
454 M. AMENGUAL, L. CHIROT, Reinforcing the State: Transnational and State Labour Regulation in Indonesia, in ILR Review, 69, 2016, p. 1056-1080.
455 In particolare, è stato valutato se le PICCs rispettavano i seguenti criteri: 1) i rappresentanti sono stati eletti tramite una procedura a scrutinio segreto senza l’interferenza di personale dell’impresa; 2) i rappresentanti si confrontano regolarmente, prima e dopo gli incontri dei PICCs, con i lavoratori che rappresentano; 3) i rappresentanti sono adeguatamente tutelati da ritorsioni; 4) i rappresentanti sono messi nelle condizioni di poter affrontare le situazioni di non compliance esistenti. Inoltre, la ricerca evidenzia che, anche nelle imprese in cui è istituita una PICC che risponde a tutti i criteri di cui sopra, ciò non porta ad una diminuzione degli scioperi selvaggi (un fenomeno diffuso nel settore tessile in Vietnam) e che, per affrontare adeguatamente tale questione, vi sarebbe necessità di un sistema di relazioni industriali “maturo” che contempli la presenza di attori sindacali indipendenti. M. ANNER, Wildcat Strikes and Better Work bipartite committees in Vietnam. Toward an Elect, Represent, Protect and Empower Framework, in Better Work Discussion Paper n. 24, 2017, p. 59.
compliance, evidenziando tuttavia che il livello di coinvolgimento dei lavoratori è diminuito dopo la chiusura del programma456.
In conclusione, è possibile affermare che proprio la qualità dell’interazione tra regolazione transnazionale e istituzioni locali rappresenta l’aspetto più importante che determina il successo dell’intervento del programma Better Work e della sua possibilità di generare un cambiamento duraturo. Sarebbe dunque sbagliato ritenere che un intervento delle istituzioni internazionali quale quello attuato dall’OIL e dall’IFC possa sostituirsi in modo permanente ad una effettiva regolazione statale o ad un sistema di relazioni industriali maturo (né, d’altronde, ambisce a farlo). Il punto di forza del programma sta proprio nella sua capacità di rafforzare le istituzioni locali attraverso il coinvolgimento di tutte le parti sociali, dimostrando con ciò che, quando si verificano determinate condizioni, una diversa governance delle catene globali del valore può condurre ad un significativo miglioramento delle condizioni di lavoro senza pregiudicare la competitività delle imprese.
- L’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh: un esempio di contrattazione collettiva transnazionale, di settore e vincolante
Un’altra esperienza significativa di partecipazione degli attori sindacali ai processi di regolazione è rappresentata dall’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh (anche solo “Accord”), siglato nel 2013 in risposta alla tragedia del Rana Plaza457. L’Accord è un’iniziativa sui generis, che presenta alcune caratteristiche tipiche degli accordi quadro globali ma anche talune particolarità. Si tratta infatti di un accordo “indipendente e giuridicamente vincolante tra brands e sindacati”458 che prevede anche
456 K. PIKE, Voice in Supply Chains: Does the Better Work Program Lead to Improvements in Labor Standards Compliance?, in ILR Review, n. 73, 4, 2020, p. 913–938.
457 Come tristemente noto, il 24 aprile del 2013 a Dacca si è verificato il crollo dell’edificio “Rana Plaza” che ospitava varie imprese del settore tessili. Si è trattato di una delle più gravi tragedie industriali della storia recente, nella quale 1134 persone hanno perso la vita e oltre 2500 sono rimaste ferite. Sull’evento si veda: https://www.ilo.org/global/topics/geip/WCMS_614394/lang–en/index.htm
458 Secondo la definizione che viene data dalle stesse parti che hanno sottoscritto l’accordo https://bangladeshaccord.org/
il coinvolgimento di alcune organizzazioni non governative e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. L’obiettivo dell’accordo è quello di garantire condizioni di lavoro sicure nell’industria tessile del Bangladesh, che già prima del crollo del Rana Plaza era caratterizzata da gravi e ricorrenti incidenti459.
I soggetti firmatari rappresentano la prima peculiarità dell’accordo. Dal lato imprenditoriale l’accordo è stato stipulato da oltre duecento brand globali del settore tessile, soprattutto europei460. Dal lato sindacale, invece, l’Accord è stato sottoscritto dalle federazioni IndustriALL e UNI Global Union oltre che da otto sindacati locali. Inoltre, tra i soggetti firmatari figurano anche alcune organizzazioni non governative, alle quali è stato garantito lo status di osservatori. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro è stata coinvolta attraverso la nomina di un suo rappresentante quale “neutral chair” dell’organo esecutivo istituito dall’accordo stesso461. L’Accord, pertanto, si differenzia dai classici IFAs per essere un vero e proprio accordo di settore, vista la presenza, dal lato imprenditoriale, di una pluralità di soggetti contraenti, che peraltro rappresentano la maggioranza dei committenti delle industrie tessili bengalesi. Va inoltre sottolineato che la presenza dell’OIL costituisce un ulteriore elemento innovativo, che è anche rappresentativo del tentativo di tale organizzazione
459 Negli anni precedenti, infatti, si erano verificati numerosi incendi in fabbriche tessili del Bangladesh. Tra i più noti vi sono il crollo della Spectrum Sweater avvenuto nel 2005 a Savar, non lontano da Dacca, dove persero la vita 64 lavoratori e l’incendio della Tazreen Fashion nel 2012, dove persero la vita 117 lavoratori. Sulla lista di incidenti che hanno preceduto il crollo del Rana Plaza si veda: Cfr. J. BAIR et al., The Political Economy of Private and Public Regulation in Post-Rana Plaza Bangladesh, in ILR Review, n. 73, 4, 2020, p. 973.
460 Un minor numero di imprese americane, invero, ha preferito dare vita ad una distinta e meno ambiziosa iniziativa che prende il nome di Alliance for Bangladesh Worker Safety. Per una analisi delle ragioni che hanno spinto alcune imprese a non aderire all’Accord e a istituire una diversa iniziativa si veda: J. S. AHLQUIST, L. MOSLEY, Firm Participation in Voluntary Regulatory Initiatives: The Accord, Alliance, and US Garment Importers from Bangladesh, in The Review of International Organizations, n. 16, 2, 2021, p. 317–343. Sul punto si veda anche: B. TER HAAR, One step forward or more window- dressing? A legal analysis of recente CSR initiatives in the garment industry in Bangladesh, in Yearbook of Comparative Labour Law Scholarship – Second Edition, 2014.
461 L’importanza del coinvolgimento dell’OIL viene inoltre ribadita dalle parti stipulanti nelle premesse dell’accordo, ove si afferma che “The signatories also welcome a strong role for the International Labour Organization (ILO), through the Bangladesh office as well as through international programmes, to ensure that both the National Action Plan, and the programme foreseen by the signatories of this Agreement, get implemented”. Cfr. Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh, 13 maggio 2013, disponibile all’indirizzo: https://bangladesh.wpengine.com/wp-content/uploads/2018/08/2013- Accord.pdf
internazionale di svolgere funzioni ulteriori rispetto a quella tradizionale di standard- setting462.
La seconda peculiarità dell’Accord è rappresentata dal suo contenuto che, come detto, riguarda unicamente le questioni attinenti alla salute e alla sicurezza sul lavoro e in particolare la sicurezza strutturale degli edifici e la prevenzione degli incendi. Si tratta pertanto di un ambito molto limitato e che era stato tradizionalmente trascurato dai programmi di audit condotti da parte delle imprese multinazionali463. A tal riguardo, basti citare il fatto che due delle imprese che si trovavano all’interno del Rana Plaza avevano subito delle ispezioni poco tempo prima il crollo senza che venissero rilevate criticità464.
La terza peculiarità dell’Accord è rappresentata dai suoi meccanismi di attuazione e dalla sua forza giuridica. Infatti, l’accordo prevede la creazione di una commissione bipartita (“Steering Committee”) composta da un pari numero di rappresentanti delle imprese e dei sindacati firmatari e presieduta, come visto, da un rappresentante dell’OIL, quest’ultimo senza diritto di voto. Tale commissione ha il compito di definire tutte le principali questioni riguardanti l’attuazione dell’accordo ed è il luogo deputato in prima istanza alla risoluzione delle controversie, eventualmente attraverso una votazione a maggioranza. Ciò che riveste particolare interesse è che le decisioni della commissione possono essere impugnate mediante il ricorso ad un arbitrato, il cui esito è vincolante e definitivo465. L’Accord espressamente prevede che al lodo può essere conferita efficacia esecutiva dal Tribunale del luogo ove ha sede la parte contro cui viene promossa l’esecuzione e che, ricorrendone le condizioni, trova applicazione la Convenzione per il Riconoscimento e l’Esecuzione delle Sentenze Arbitrali Straniere (cd. Convenzione di
462 Sul ruolo dell’OIL nell’accordo si veda: A. POSTHUMA, A. ROSSI, Coordinated governance in global value chains: supranational dynamics and the role of the International Labour Organization, cit. 463 In questo senso: J. BAIR et al., The Political Economy of Private and Public Regulation in Post-
Rana Plaza Bangladesh, cit., p. 977.
464 Sul punto si rinvia nuovamente a C. TERWINDT, G.BURCKHARDT, Social Audits in the Textile Industry: How to Control the Controllers?, cit., disponibile all’indirizzo https://www.business- humanrights.org/en/blog/social-audits-in-the-textile-industry-how-to-control-the-controllers/
465 Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh, punto 5, nel quale espressamente viene stabilito che “Upon request of either party, the decision of the SC may be appealed to a final and binding arbitration process […]”.
New York). Inoltre, vengono definite anche le regole che governano il processo arbitrale, in particolare facendo riferimento alla Legge Modello UNCITRAL466.
L’espressa previsione della possibilità di ricorrere ad un arbitrato vincolante rappresenta un significativo passo in avanti nel processo di giuridificazione degli accordi quadro globali, tale da contribuire a distinguere l’Accord da altre iniziative che si iscrivono invece nel tradizionale paradigma degli interventi di responsabilità sociale (quali ad esempio la citata Alliance for Bangladesh Worker Safety)467. La possibilità di dare avvio ad un processo arbitrale, peraltro, non è rimasta solo teorica ma è stata perseguita nel corso del 2016 ben due volte da parte delle federazioni sindacali globali. In entrambi i casi le controversie sono state conciliate prima dell’emanazione di un lodo a fronte di un significativo pagamento effettuato dai marchi coinvolti468.
Quanto al suo funzionamento, l’Accord prevede che le imprese multinazionali aderenti si rivolgano unicamente ai fornitori che partecipano al programma di valutazione e monitoraggio istituito da tale iniziativa. Tutti i fornitori partecipanti vengono ispezionati e sulla base di quanto emerso viene elaborato un “piano di azioni correttive”. Il piano indica gli adeguamenti che devono essere realizzati dal fornitore e ne specifica le tempistiche, il cui rispetto viene monitorato dal personale dell’iniziativa. Nel caso di ripetuto e grave inadempimento i fornitori vengono esclusi dal programma e i committenti sono tenuti ad interrompere le relazioni contrattuali con loro in essere. Inoltre, l’accordo prevede che in ciascuna fabbrica vengano istituite delle commissioni in materia di salute e sicurezza composte da un pari numero di personale dell’impresa e rappresentanti dei lavoratori scelti dalle organizzazioni sindacali. Nel caso in cui, invece, non siano presenti organizzazioni sindacali, i rappresentanti dei lavoratori che faranno parte delle commissioni devono essere eletti attraverso procedure democratiche. A
466 Va segnalato che l’arbitrato che si svolge secondo la legge modello UNCITRAL (Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale) non è un arbitrato istituzionale bensì un arbitrato ad hoc. Sulle regole di tale arbitrato si rinvia a: D.D.CARON, L.M. CAPLAN, The UNCITRAL Arbitration Rules (2nd Edition), Oxford University Press, 2013.
467 Sulla differenza di approccio adottato dall’Accord e l’Alliance si veda: J. DONAGHEY, J. REINECKE, When Industrial Democracy Meets Corporate Social Responsibility – A Comparison of the Bangladesh Accord and Alliance as Responses to the Rana Plaza Disaster, in British Journal of Industrial Relations, n. 56, 1, 2018, p. 14–42.
468 L’esito dell’arbitrato è stato accolto con grande soddisfazione dalle sigle sindacali, come traspare dai comunicati stampa rilasciati successivamente al raggiungimento dell’accordo transattivo. Si vedano le dichiarazioni di IndustriALL al seguente indirizzo http://www.industriall-union.org/bangladesh- accord-arbitration-cases-resulting-in-millions-of-dollars-in-settlements-officially
fianco delle attività ispettive, inoltre, il personale dell’iniziativa conduce anche attività di formazione nei confronti del management e dei lavoratori su temi riguardanti l’identificazione e la gestione dei rischi in materia di salute e sicurezza. Infine, è stato istituito un meccanismo in grado di garantire l’anonimato per segnalare i rischi in materia di salute e sicurezza che non vengono adeguatamente trattati a livello aziendale469.
In ragione delle particolarità descritte e del suo modello inclusivo di governance l’Accord ha attirato vasta attenzione da parte del mondo accademico, che nel corso degli anni ne ha analizzato l’effettivo funzionamento e i risultati prodotti oltre che le dinamiche generate nell’interazione con altre iniziative, incluse quelle promosse dalle istituzioni nazionali470. A tal riguardo, va segnalato che l’Accord è stato salutato molto positivamente dalla maggior parte degli studiosi di relazioni industriali e diritto del lavoro e sono stati spesso utilizzati termini quali “breakthrough”, “game-changer” e “ground-breaking” per descriverne la natura innovativa e la significativa differenza con le iniziative passate471. In particolare, l’Accord è stato visto quale “nuovo paradigma dell’enforcement dei diritti globali del lavoro e dei diritti umani”472 ed è stata lodata la sua natura inclusiva in quanto, diversamente dalla quasi totalità delle iniziative di responsabilità sociale, coinvolge il fattore lavoro nella sua attuazione e prevede obblighi
469 Per una più approfondita analisi delle modalità attuative dei sistemi di ispezione, monitoraggio e formazione, si rimanda alla vasta documentazione presente sul sito dell’Accord, ove sono pubblicate le linee guida operative per ciascuna attività che viene condotta: https://bangladeshaccord.org/resources
470 La letteratura sull’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh è molto vasta. Per i primi commenti successivi alla stipulazione dell’accordo si veda: M. ANNER et al., Toward Joint Liability in Global Supply Chains: Addressing the Root Causes of Labor Violations in International Subcontracting Networks, in Comparative Labour Law and Policy Journal, n. 35, 1, 2013, p. 45.; B. HENSLER, J. BLASI, Making Global Corporations’ Labor Rights Commitments Legally Enforceable: the Bangladesh Breaktrough, Worker Rights Consortium, 2013. Per una comparazione tra l’Accord e l’Alliance si veda:
- DONAGHEY, J. REINECKE, When Industrial Democracy Meets Corporate Social Responsibility – A Comparison of the Bangladesh Accord and Alliance as Responses to the Rana Plaza Disaster: When Industrial Democracy Meets Corporate Social Responsibility, cit. B. TER HAAR, One Step Forward or More Window-dressing? A Legal Analysis of Recent CSR Initiatives in the Garment Industry in Bangladesh, cit. Per analisi più recenti sui risultati raggiunti dall’accordo si veda: P. JAMES et al., Regulating Factory Safety in the Bangladeshi Garment Industry, in Regulation & Governance, n. 13, 3, 2019, p. 431–444; X. LIU et al., Toward Improving Factory Working Conditions in Developing Countries: An Empirical Analysis of Bangladesh Ready-Made Garment Factories, in Manufacturing & Service Operations Management, n. 21, 2, 2019, p. 379–397.
471 Si veda in questi termini B. HENSLER, J. BLASI, Making Global Corporations’ Labor Rights Commitments Legally Enforceable: the Bangladesh Breaktrough, cit.
472 M. ANNER et al., Toward Joint Liability in Global Supply Chains: Addressing the Root Causes of Labor Violations in International Subcontracting Networks, cit., p. 2.
vincolanti nei confronti dei soggetti aderenti. Nel corso degli anni non sono mancate anche voci critiche473, ma in generale l’efficacia dei programmi di monitoraggio e di adeguamento istituiti sono stati costantemente apprezzati dalle parti sociali, inclusi i sindacati coinvolti, e sono anche stati spesso confermati da analisi sul campo effettuate da vari studiosi474. Il dibattito intorno all’Accord, pertanto, non riguarda tanto i risultati prodotti, che vengono generalmente riconosciuti, quanto la sua sostenibilità e la riproducibilità del suo modello475.
Dopo cinque anni di operatività si è aperta una complessa fase di discussione relativa al rinnovo dell’accordo. Significativamente, il governo e l’associazione delle industrie tessili del Bangladesh (BGMEA) si sono opposte al rinnovo, sostenendo che non vi era più la necessità di un tale programma e che le operazioni di monitoraggio potevano essere svolte dall’ispettorato del lavoro nazionale476. Dopo la sottoscrizione di un nuovo accordo, la questione è stata devoluta all’autorità giudiziaria e nel maggio del 2018 la High Court del Bangladesh ha emanato un ordine restrittivo, ordinando la cessazione delle operazioni del programma nel paese477. Durante il processo di appello,
473 In particolare, tra chi non considera l’accordo un “game changer” e ne mette in luce anche taluni limiti operativi si veda: M. R. I. KHAN, C. WICHTERICH, Safety and Labour Conditions: the Accord and the National Tripartite Plan of Action for the Garment Industry in Bangladesh, Working Paper n. 38 – Global Labour University, International Labour Office, 2015. Tra le ulteriore voci critiche si veda Beierlein, secondo cui l’Accord non è stato in grado di modificare i rapporti di potere esistenti lungo le catene del valore e si è caratterizzato per essere poco inclusivo a causa della mancanza della associazioni dei fornitori nella sua governance: L. BEIERLEIN, Development Aid and the Governance of Global Value Chains the Case of the Bangladesh Accord on Fire and Building Safety, in Society and Business Review,
- 15, 2, 2020, p. 95–117. Infine, per un diverso punto di vista sugli effetti della clausole vincolanti previste nell’accordo si veda Salminen, che considera l’Accord quale un nuovo modo per limitare la responsabilità legale delle imprese compratrici: J. SALMINEN, The Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh: A New Paradigm for Limiting Buyers’ Liability in Global Supply Chains?, in The American Journal of Comparative Law, n. 66, 2, 2018, p. 411–451.
474 In particolare, le dichiarazioni di IndustriALL dimostrano il continuo supporto delle organizzazioni sindacali all’iniziativa: http://www.industriall-union.org/3-years-on-from-rana-plaza-the- bangladesh-accord-is-saving-lives; Per un’analisi empirica dei risultati prodotti dall’Accord si veda X. LIU et al., Toward Improving Factory Working Conditions in Developing Countries: An Empirical Analysis of Bangladesh Ready-Made Garment Factories, cit. Inoltre, sul sito dal sito dell’iniziativa è possibile consultare i “progress report” che vengono rilasciati con frequenza trimestrale https://bangladeshaccord.org/resources
475 Cfr., sul punto, l’estesa ricostruzione ad opera di J. BAIR et al., The Political Economy of Private and Public Regulation in Post-Rana Plaza Bangladesh, cit.
476 Ibidem.
477 Per una ricostruzione delle reazioni dei sindacati e delle imprese committenti all’ordine restrittivo emanato dalla High Court del Bangladesh si veda il seguente articolo del The Guardian, disponibile all’indirizzo: https://www.theguardian.com/world/2018/nov/28/international-inspectors-to-leave- bangladesh-after-factory-fire
la cui data per la decisione è stata posticipata varie volte, i soggetti partecipanti all’Accord, il governo del Bangladesh e la BGMEA hanno siglato un Memorandum of Understanding attraverso il quale è stata concordata la temporanea prosecuzione delle operazioni e il successivo trasferimento del programma in capo ad una nuova entità di diritto bengalese, la RMG Sustainability Council, di cui faranno parte anche la BGMEA e personale dell’ispettorato nazionale. Il cambiamento più significativo riguarda il fatto che già durante la fase di transizione le parti dell’Accord hanno rinunciato a intraprendere azioni disciplinari nei confronti delle industrie non in conformità e a consultarsi con la BGMEA per l’adozione di nuovi piani di adeguamento478. Si tratta, come denunciato da molti osservatori, di un significativo arretramento in termini di effettività, poiché la possibilità di escludere determinati fornitori ha costituito una delle leve d’azione maggiori del programma479. Dopo lunghe trattative, il programma è stato definitivamente rinnovato a far data dal 1° settembre 2021 grazie alla stipulazione di un nuovo accordo denominato “International Accord for Health and Safety in the Textile and Garment Industry”, dalla durata di 26 mesi. Il nuovo accordo conferma il trasferimento delle operazioni in capo al RMG Sustainability Council e prevede alcune significative novità, tra le quali l’impegno ad estendere il programma di monitoraggio, entro i primi due anni, ad un ulteriore paese oltre al Bangladesh480.
Proprio le difficoltà e le resistenze incontrate dall’Accord nella sua fase di rinnovo costituiscono un’occasione per trarre alcune conclusioni sull’efficacia dell’approccio adottato e sulle condizioni necessarie per una virtuosa integrazione tra iniziative di matrice privata e le istituzioni pubbliche. La prima questione che emerge è l’importanza di iniziative settoriali, che si sono dimostrate più efficaci delle azioni individuali intraprese dalle singole imprese multinazionali. Come testimoniato anche dal lavoro di Oka, Egels-Zanden e Alexander, la minaccia di interrompere la relazione contrattuale
478 Sulla fasi di transizione dall’Accord al programma che lo sta per rimpiazzare si veda anche: L. BEIERLEIN, Development Aid and the Governance of Global Value Chains the Case of the Bangladesh Accord on Fire and Building Safety, cit., p. 107-108
479 J. BAIR et al., The Political Economy of Private and Public Regulation in Post-Rana Plaza Bangladesh, cit., p. 988.
480 Un’ulteriore significativa differenza è costituita dall’oggetto dell’accordo, che riguarda le questioni della salute e della sicurezza in generale e non solo, come in precedenza, la prevenzione degli incendi e la sicurezza strutturale degli edifici. Il testo del nuovo accordo è consultabile all’indirizzo: https://bangladesh.wpengine.com/wp-content/uploads/2021/08/1-September-International-Accord-on- Health-and-Safety-in-the-Textile-and-Garment-Industry-public-version.pdf
con il fornitore esercitata da una singola impresa committente spesso non è sufficientemente effettiva, mentre il meccanismo di enforcement collettivo messo in atto dall’Accord ha dimostrato di aumentare notevolmente il potere di imporre adeguamenti nei confronti delle imprese locali481. Non a caso, come visto, uno degli aspetti dell’Accord che ha trovato maggior opposizione a livello locale è stata la possibilità di escludere un fornitore in caso di mancato rispetto delle misure prescritte, con conseguente perdita della possibilità di produrre per gli oltre duecento marchi aderenti all’iniziativa. Inoltre, le iniziative di carattere settoriale sono in grado di creare condizioni comuni alle varie imprese committenti, diminuendo il rischio di competizione al ribasso e creando un certo livello di armonizzazione, un aspetto evidenziato da molte imprese quale condizione fondamentale per poter perseguire politiche di responsabilità sociale482.
La seconda questione è relativa all’interazione tra iniziative private e regolatori pubblici. Il Bangladesh è caratterizzato da un governo fortemente condizionato dall’associazione degli industriali tessili, che esprimono direttamente o indirettamente una percentuale che oscilla tra il 10 e il 30 per cento dei parlamentari483; si tratta di una situazione che è stata descritta quale vera e propria “cattura del regolatore” 484 e che ha condotto a varie azioni repressive nei confronti del movimento dei lavoratori485. In tale
481 C. OKA et al., Buyer Engagement and Labour Conditions in Global Supply Chains: The Bangladesh Accord and Beyond, in Development and Change, n. 51, 5, 2020, p. 1314.
482 Ibidem.
483 J. BAIR et al., The Political Economy of Private and Public Regulation in Post-Rana Plaza Bangladesh, cit., p. 980. Si veda sul punto anche il dato riportato dal The New York Times, secondo il quale almeno il 10 per cento dei parlamentari è direttamente proprietario di un’industria tessile e molti altri hanno interessi economici nel settore https://www.nytimes.com/2013/07/25/world/asia/garment- trade-wields-power-in-bangladesh.html
484 Per cattura del regolatore si intende una situazione nella quale le autorità regolatorie, invece di operare a favore della collettività, finiscono con l’agire nell’interesse di alcuni dei soggetti regolati. Si veda sul punto: G. J. STIGLER, The Theory of Economic Regulation, in The Bell Journal of Economics and Management Science, n. 2, 1, 1971, p. 3–21. Tale situazione si è parzialmente verificata nel contesto del Bangladesh secondo J. BAIR et al., The Political Economy of Private and Public Regulation in Post- Rana Plaza Bangladesh, cit., p. 979.
485 Sia nel 2016 che nel 2018 si sono verificati numerosi arresti arbitrari in seguito a scioperi volti ad ottenere un aumento del salario minimo legale. La situazione era stata considerata talmente grave che ha attirato l’attenzione delle istituzioni europee e di alcune imprese multinazionali, che hanno fatto pressione sul governo per rilasciare gli attivisti detenuti. – Cfr. C. OKA et al., Buyer Engagement and Labour Conditions in Global Supply Chains: The Bangladesh Accord and Beyond, cit., p. 1319. J. BAIR et al., The Political Economy of Private and Public Regulation in Post-Rana Plaza Bangladesh, cit., p. 990. Per un’analisi sulla libertà di associazione nelle industrie tessili bengalese si veda: M. M. RAHIM, S. S. ISLAM,
contesto, si è visto come, venuta meno l’urgenza di porre rimedio alle situazioni portate alla luce dal crollo del Rana Plaza, il governo nazionale e le istituzioni locali abbiano progressivamente minato l’operatività del programma istituito dall’Accord. L’esperienza del Bangladesh sottolinea quindi, ancora una volta, che la regolazione transnazionale del lavoro non opera nel vuoto, bensì in contesti locali più o meno pronti a recepire le innovazioni da questa introdotte486. Inoltre, tale esperienza suggerisce che, a prescindere dalla caratterizzazione quale “pubblica” o “privata” di un’iniziativa, ciò che riveste maggior importanza è la capacità di includere i lavoratori e i loro rappresentanti nei processi di regolazione. Su questo punto, l’Accord si è mostrato molto più avanti delle istituzioni locali che hanno invece ostacolato lo sviluppo di un sistema di relazioni industriali maturo487.
5 L’uso dei Punti Nazionali di Contatto per le Linee Guida OCSE da parte delle organizzazioni sindacali
Nell’ambito della presente indagine sulle pratiche di regolazione “negoziata” delle catene globali del valore merita di essere approfondito anche il ruolo svolto dai Punti Nazionali di Contatto (“PCN”) istituiti dai governi per favorire la promozione e l’applicazione delle Linee Guida OCSE destinate alle imprese multinazionali (“Linee Guida”)488. I PCN sono stati introdotti nel 1984 ma sono diventati operativi solamente in seguito alla revisione delle Linee Guida avvenuta nel 2000, quando ne è stato specificato il ruolo e i compiti attraverso l’adozione di un apposito regolamento (“Procedural Guidelines”)489. Le Linee Guida costituiscono raccomandazioni effettuate
Freedom of Association in the Bangladeshi Garment Industry: A policy Schizophrenia in Labour Regulation, in International Labour Review, n. 159, 3, 2020, p. 423–446.
486 Sul tema si rimanda nuovamente al lavoro di T. BARTLEY, Rules without rights: land, labor, and private authority in the global economy, cit.
487 M. M. RAHIM-S. S. ISLAM, Freedom of Association in the Bangladeshi Garment Industry: A Policy Schizophrenia in Labour Regulation, cit.
488 Le Linee Guida sono disponibili al seguente indirizzo: https://www.oecd.org/daf/inv/mne/MNEguidelinesITALIANO.pdf
489 Per un approfondimento della storia dei Punti di Contatto Nazionali si rimanda a: OECD, Implementing the OECD Guidelines for Multinational Enterprises: The National Contact Points from 2000 to 2015, 2016, disponibile all’indirizzo: http://mneguidelines.oecd.org/OECD-report-15-years- National-Contact-Points.pdf
dai governi nazionali alle imprese multinazionali che operano nei loro territori e i Punti Nazionali di Contatti sono stati istituiti nell’intento di favorire un supporto interpretativo nell’applicazione di tali Linee Guida. Tuttavia, ciò che rileva nella presente sede è che ai Punti Nazionali di Contatto è stato attribuito anche il compito di gestione di un meccanismo non giurisdizionale di composizione delle controversie. Nel caso in cui un portatore di interesse (ONG, sindacato, associazione, singolo individuo, etc.) ritenga che un’impresa non applichi correttamente le Linee Guida può presentare una “istanza specifica” al Punto di Contatto Nazionale, che si adopererà per giungere ad una soluzione condivisa della questione490. Le Linee Guida espressamente prevedono che le istanze devono essere gestite “in modo imparziale, prevedibile, equo”491 e che ciascun Punto di Contatto Nazionale deve “offrire i suoi buoni uffici”492 per aiutare le parti a risolvere bonariamente le questioni oggetto di discussione.
La procedura si compone di tre fasi: a) una fase preliminare chiamata di “valutazione iniziale”, nella quale viene stabilito se la questione sottoposta merita di essere approfondita493; b) una seconda fase di “assistenza delle parti” nella quale, superata positivamente la valutazione inziale, il Punto Nazionale di Contatto, se vi è il consenso di entrambe le parti, presta i propri “buoni uffici” nell’ottica di giungere ad una soluzione condivisa della controversia; c) una “fase finale” che, in caso di esito positivo, consiste nella sottoscrizione di un accordo; in caso di esito negativo, il Punto di Contatto Nazionale adotta invece una dichiarazione conclusiva nella quale vengono identificate le questioni trattate e riassunte le ragioni per le quali non è stato possibil
490 Per un approfondimento delle modalità con cui poter presentare una “istanza specifica” al Punto di Contatto Nazionale si rimanda a: MISE e PCN, Manuale per la gestione delle istanze specifiche presentate al Punto di Contatto Nazionale italiano, 2019.
491 Linee Guida OCSE Destinate alle Imprese Multinazionali, Parte II, p. 57, disponibile all’indirizzo https://www.oecd.org/daf/inv/mne/MNEguidelinesITALIANO.pdf
492 Ibidem.
493 I criteri che vengono utilizzati per valutare se una questione merita di essere approfondita sono i seguenti: “l’identità della parte coinvolta e il suo interesse nella questione; la rilevanza della questione e gli elementi di supporto; il legame verosimile tra l’attività dell’impresa e la questione sollevata nell’istanza; la pertinenza delle norme procedurali applicabili, in particolare delle decisioni giurisdizionali; il modo in cui questioni simili sono state trattate in sede nazionale o internazionale; la funzionalità della questione rispetto agli obiettivi ed all’efficace attuazione delle Linee Guida”. Cfr. MISE e PCN, Manuale per la gestione delle istanze specifiche presentate al Punto di Contatto Nazionale italiano, p. 13.
raggiungere un accordo; la dichiarazione viene pubblicata sul sito internet e il PCN può inoltre formulare raccomandazioni per l’attuazione delle Linee Guida.
Sin dalla loro istituzione, i Punti di Contatto Nazionali sono stati utilizzati da vari portatori di interesse per affrontare questioni riguardanti la responsabilità sociale delle imprese494. Nel corso degli anni, diverse organizzazioni sindacali hanno presentato “istanze specifiche” ai Punti di Contatto Nazionali, denunciando il mancato rispetto delle Linee Guida in relazione a questioni riguardanti la libertà di associazione e altri diritti fondamentali sul lavoro495. In alcuni casi, tali istanze hanno condotto ad esiti favorevoli per i lavoratori coinvolti. Ad esempio, nel 2017 un’istanza specifica presentata avanti al PCN olandese da lavoratori della Bralima, una sussidiaria della Heineken che opera nella Repubblica Democratica del Congo, si è conclusa con una compensazione monetaria per 168 lavoratori che lamentavano di essere stati ingiustamente licenziati e a una revisione delle politiche di Heineken riguardanti i paesi caratterizzati da un’elevata conflittualità496. Nel 2015, una dichiarazione del Punto di Contatto Nazionale cileno sul mancato rispetto della libertà di associazione da parte della multinazionale Starbucks ha favorito la successiva stipulazione di un accordo collettivo con i sindacati che avevano promosso l’istanza497. Sempre nello stesso anno, in seguito alla presentazione di un’istanza specifica avanti al PCN svizzero, la FIFA si è impegnata a migliorare le
494 Come noto, infatti, le Linee Guida OCSE destinate alle imprese multinazionali contengono un capitolo dedicato all’occupazione e alle relazioni industriali, le cui previsioni sono in buona parte derivate dagli standard dell’OIL e in particolare dalla Dichiarazione del 1998 sui diritti e principi fondamentali nel lavoro. Per una ricognizione sul ruolo svolto dai PCN in materia sociale si veda OECD, Facilitating social dialogue under the OECD Guidelines for Multinational Enterprises, 2018, disponibile all’indirizzo: https://mneguidelines.oecd.org/facilitating-social-dialogue-under-the-OECD-Guidelines- for-MNEs.pdf Sul punto si veda anche G. BUCHHOLTZ, Social and Labour Standards in the OECD Guidelines: Enforcement Mechanisms, in International Organizations Law Review, n. 17, 1, 2020, p. 133–152.
495 Un’indagine dell’OCSE stessa ha evidenziato come nel corso degli anni il numero di istanze specifiche riguardanti i diritti fondamentali sul lavoro sia progressivamente aumentato, passando dall’11
% del 2012 fino a giungere al 38% del 2017. Si veda sul punto OECD, Facilitating Social Dialogue Under the OECD Guidelines for Multinational Enterprises, 2018, cit.
496 Si veda la dichiarazione finale rilasciata dal Punto di Contatto Nazionale olandese, disponibile all’indirizzo: https://www.oecdguidelines.nl/notifications/documents/publication/2017/08/18/final- statement-notification-bralima-vs-heineken
497 Per un commento sul caso si veda: C. MARZAN, NCP Starbucks Decision Helps Advance Compliance with OECD Guidelines, in International Labor Rights Case Law, n. 2, 2, 2016, p. 175–179.
proprie politiche in materia di diritti umani in relazione alla costruzione delle strutture per i mondiali di calcio in Qatar del 2022498.
Il punto di forza di tali procedure conciliative è costituito dal fatto che i PCN sono incardinati presso dei ministeri (in Italia, presso il MISE) e, pertanto, rappresentano un forum di discussione che gode di una cornice istituzionale all’interno della quale le imprese multinazionali vengono chiamate a rendere conto delle proprie politiche in tema di rispetto dei diritti umani. Sotto tale profilo, il meccanismo dei PCN rappresenta un possibile strumento di pressione nei confronti delle imprese, soprattutto per l’effetto reputazionale negativo che può comportare una dichiarazione di mancata conformità alle Linee Guida.
Nonostante l’esistenza di casi come quelli descritti, l’efficacia del sistema costituito dai Punti di Contatto Nazionali non va sovrastimata. Il sistema di gestione delle “istanze specifiche” dei PNC non può infatti essere paragonato in alcun modo ad una procedura giudiziale né ad un arbitrato. L’intera procedura si basa sulla partecipazione volontaria delle parti, l’esito non è vincolante e i PCN non possono irrogare alcuna sanzione. Inoltre, i Punti di Contatto Nazionali sono privi di poteri istruttori e ciò limita fortemente la possibilità di entrare nel merito dei singoli casi sottoposti alla loro attenzione. A causa di tali fattori, la presentazione di istanze specifiche ai PCN solo raramente conduce ad un accordo tra le parti (e ancora più raramente ad un accordo con risvolti economici, quali il pagamento di un risarcimento)499.
Il recente esito dell’istanza presentata al Punto di Contatto Nazionale italiano nei confronti dell’impresa certificatrice RINA Services S.p.a. (“RINA”) per il suo ruolo nella tristemente nota vicenda dell’Ali Enterprises è rappresentativo della limitata efficacia del sistema descritto. Nel 2018, un gruppo di ONG e sindacati ha presentato un’istanza in quanto riteneva che RINA avesse violato il dovere di diligenza previsto dalle Linee Guida OCSE500. L’impresa italiana aveva infatti rilasciato la certificazione SA8000 all’azienda tessile pachistana solo venti giorni prima lo scoppio dell’incendio
498 La dichiarazione finale è consultabile al seguente indirizzo: https://mneguidelines.oecd.org/database/instances/ch0013.htm
499 G. BUCHHOLTZ, Social and Labour Standards in the OECD Guidelines: Enforcement Mechanisms, cit., p. 145.
500 In particolare, le organizzazioni che hanno presentato l’istanza al PCN sostenevano che la certificazione era stata rilasciata sulla base di un audit carente e non corretto.
nel quale persero la vita 260 lavoratori, nonostante la presenza di gravi lacune nel sistema di sicurezza, come rilevato da successive analisi501. L’impresa RINA ha inizialmente accettato di partecipare alla procedura di conciliazione e ha sottoscritto i Termini di Riferimento proposti dal PCN italiano. Il professor Tullio Treves è stato nominato quale Conciliatore e, dopo un incontro, le parti hanno accettato di non affrontare la questione della responsabilità dell’impresa e di intraprendere la negoziazione di un possibile accordo che includesse la possibilità di un gesto umanitario da parte di RINA a favore delle famiglie delle vittime, “senza alcuna implicazione in merito alla responsabilità e senza alcun collegamento diretto con tale questione”502.
La discussione sulla natura, l’importo e le modalità di erogazioni di tale “gesto umanitario” si è tuttavia rivelata particolarmente complessa503. Il Conciliatore, nell’intento di favorire un accordo, ha formulato una proposta che prevedeva il pagamento della somma di 400.000 dollari. Tale proposta è stata accettata dagli istanti ma è stata rifiutata da RINA, che non si è dimostrata disponibile a corrispondere un importo che “eccedeva quanto l’impresa poteva stanziare per donazioni volontarie”504. In conclusione, quindi, nemmeno la notorietà della vicenda dell’Ali Enterprises, l’autorevolezza del conciliatore e l’esclusione del riconoscimento di ogni forma di responsabilità dell’impresa sono stati sufficienti per giungere alla sottoscrizione di un accordo già ampiamente compromissorio. Tale vicenda, come detto, è esemplificativa dei limiti di un sistema basato unicamente su un approccio volontaristico, in cui le parti
501 Sulle cause dell’incendio e sulla mancanza di misure di sicurezza si veda l’analisi effettuata da Forensic Architecture, un ente di ricerca multidisciplinare basato alla Goldsmiths, University of London, disponibile all’indirizzo: https://forensic-architecture.org/investigation/the-ali-enterprises-factory-fire
502 Gli ulteriori due punti inizialmente concordati riguardavano: l’impegno di RINA nel perseguire il miglioramento dei sistemi di certificazione internazionale nelle sedi competenti (SA e SAAS); il miglioramento delle politiche di due diligence di RINA.
503 In particolare, come si legge nella dichiarazione finale del PCN, RINA “si è rifiutata categoricamente di considerare qualsiasi forma di risarcimento diretto alle vittime e ai loro familiari, in quanto ciò avrebbe rappresentato un’allusione ad una sua possibile responsabilità”. Inoltre, le organizzazioni istanti ritenevano congruo un versamento dell’importo di 4 milioni di dollari mentre l’impresa era disponibile ad un’elargizione di 50-100.000 dollari – Cfr. PUNTO DI CONTATTO NAZIONALE PER LE LINEE GUIDA OCSE, Dichiarazione finale relativa all’Istanza Specifica presentata al PCN italiano in data 11 settembre 2018 – Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association (AEFFAA) et al. / RINA Services S.p.A., disponibile all’indirizzo: https://pcnitalia.mise.gov.it/attachments/article/2016847/Dichiarazione%20Finale%20caso%20RINA% 20IT.pdf
504 Ibidem.
possono in qualsiasi momento sfilarsi dalla procedura conciliativa senza alcuna conseguenza.
Nonostante ciò, è importante sottolineare come le organizzazioni sindacali siano state in grado, nel corso degli anni, di sfruttare anche le pur limitate possibilità offerte dal sistema dei Punti di Contatto Nazionali. Nei casi evidenziati in precedenza, vari attori sindacali (locali o internazionali) hanno usato le procedure conciliative messe a disposizione dai PCN quale strumento per istituire una sorta di “concertazione” su questioni che difficilmente avrebbero potuto essere affrontate in sede giudiziale, sia per l’assenza di un dovere di diligenza previsto in strumenti vincolanti, sia per l’esistenza di altri ostacoli nell’accesso alla giustizia. Nonostante tale lodevole sforzo da parte delle organizzazioni sindacali, va altresì evidenziato che il sistema costituito dai PCN non è stato in grado, nel suo complesso, di modificare significativamente il comportamento delle imprese in relazione ai diritti umani, come dimostrato dal vasto consenso raggiunto sulla necessità di un intervento europeo in materia di due diligence obbligatoria. Si può a tal riguardo concludere che l’introduzione di un obbligo di diligenza tramite uno strumento giuridico vincolante, il cui corretto adempimento potrà essere valutato da organi giurisdizionali, appare volto proprio a superare i limiti evidenziati dai meccanismi puramente volontaristici.
In conclusione, nel presente capitolo si è visto come il fattore lavoro non sia rimasto inerme di fronte ai cambiamenti prodotti dalla globalizzazione, ma abbia al contrario intrapreso un difficile percorso volto alla ricerca di strumenti, metodi e pratiche per ri- regolare i processi economici transnazionali. Si tratta, come visto, di un percorso accidentato e non privo di ostacoli, spesso appena imboccato, ma che merita di essere evidenziato in quanto in prospettiva idoneo a condurre ad una governance maggiormente partecipativa delle catene globali del valore.