Il diario del lavoro ha ripreso il comunicato dell’Istat riguardante i dati Istat su occupati e disoccupati a dicembre 2021. Ci limitiamo a segnalare che, rispetto a gennaio, “il numero di occupati è cresciuto di oltre 650 mila unità e il tasso di occupazione è più elevato di 2,2 punti percentuali”; mentre il numero di occupati a dicembre 2021 è superiore a quello di dicembre 2020 del 2,4%, pari a +540mila unità. Solo per i lavoratori tra i 35 e i 49 anni si osserva stabilità, ma per effetto della componente demografica. Il tasso di occupazione è stabile 59%. Confrontando il trimestre ottobre-dicembre 2021 con quello precedente (luglio-settembre), si osserva un livello di occupazione più elevato dello 0,3%, con un aumento di 70mila occupati. Certo, questi squarci di luce non fanno sparire le ombre che affliggono il mercato del lavoro. Anche sul versante dell’occupazione non sono ancora stati recuperati i livelli pre-pandemia è in crescita il numero degli inattivi e quant’altro.
Tuttavia sono dati importanti se li mettiamo a confronto con l’altro fenomeno che da settimane è al centro del dibattito, con sottolineature prevalenti di carattere sociologico, piuttosto che economico: la Great resignation ovvero le Grandi dimissioni. Un fenomeno, questo, che sta circolando nei paesi sviluppati a partire dagli Usa (ma anche noi ci facciamo riconoscere) come se fosse una “fuga dall’Egitto” di un popolo sfruttato che si sottrae al giogo del lavoro, alla ricerca di un nuovo stile di vita.
Anche l’Associazione dei direttori del personale, in una loro ricerca, si sono occupati della “Grande fuga” riportandola ad una dimensione più pratica e a motivazioni – la ripresa del mercato del lavoro (48%), la ricerca di condizioni economiche più favorevoli in altre aziende (47%) e l’aspirazione a un maggior equilibrio tra vita privata e lavorativa (41%) – che, in primo luogo, dipendono dalle storture di un mercato del lavoro in cui chi cerca un’occupazione non la trova e chi vuole assumere non ci riesce, anzi stenta a trattenere i dipendenti che gli sono indispensabili.
A me sembra un paradosso che la resignation venga salutata – e presentata all’opinione pubblica – al canto dell’Internazionale (“futura umanità”), mentre di centinaia di migliaia di assunzioni sembrano non avere valore, in quanto occupazione “precaria” ovvero in prevalenza a termine. Come se in quel milione di posti di lavoro che sono spariti nel corso dei 500 giorni di blocco dei licenziamenti (e delle assunzioni) non fossero nettamente prevalenti i contratti a termine, i giovani e le donne. In Italia la quota percentuale di lavoratori con rapporti a tempo determinato (parliamo ovviamente di dati di stock no di flusso) è sostanzialmente stabile (intorno al 13%) e in media con gli standard europei. Le restrizioni imposte con il c.d. decreto dignità si sono rivelate ben presto un rimedio peggiore del male, tanto che se ne sono perdute le tracce, nel silenzio assordante dei sindacati. Peraltro l’uso del contratto a termine della durata di 10 giorni rinnovabili è stato ammesso (un rimedio che non serve a nulla) per sostituire i lavoratori assenti ingiustificati e non retribuiti (perché no vax e dintorni) ma con diritto alla conservazione del posto di lavoro.
Inoltre, se osserviamo i settori in cui è prevalente il numero dei contratti a termine, arriviamo alla conclusione che sono le caratteristiche produttive a richiedere questa tipologia di impiego. Ma non cerchiamo scusanti; affrontiamo di petto il problema. Non sarà che le assunzioni a termine siano una conseguenza inevitabile nell’attuale organizzazione del lavoro? E non è solo una questione che ha a che fare con un futuro prossimo caratterizzato – nonostante lo straordinario rimbalzo del Pil – da grandi incertezze: la crisi sanitaria (che in alcuni settori sta provocando un lockdown di fatto), la ripartenza dell’inflazione (che prima o poi determinerà una diversa politica monetaria), l’approvvigionamento delle materie prime e dei servizi, le riconversioni green e digitali, i cambiamenti che si annunciano in un settore trainante come l’automotive, ecc.). In breve, il ciclo economico sta cambiando e in fretta. Mi pare comprensibile la cautela delle aziende sul versante degli organici, poiché è per loro assolutamente legittimo avvalersi di assunzioni a termine secondo i limiti stabiliti. Tuttavia la risposta strutturale alle assunzioni a termine esiste e funziona. Si chiama somministrazione. C’è uno studio di Assolavoro, insieme all’Università Roma 3, che mostra l’esistenza di realtà ed esperienze che vengono colpevolmente ignorate e denigrate. “A livello globale – è l’incipit del documento – le Agenzie si configurano come i soggetti più efficienti per gestire le emergenti dinamiche del mercato del lavoro potendo da una parte offrire la loro profonda conoscenza alle imprese in termini di soddisfacimento delle necessità di professionalità e competenze richieste e dall’altra rappresentare un supporto per i lavoratori nelle transizioni, grazie all’articolato sistema di welfare integrativo e alla formazione destinata all’upskilling e reskilling”.
I lavoratori precedentemente impiegati con contratti in somministrazione in seguito ad una eventuale cessazione – emerge dallo studio – hanno probabilità molto più elevate di essere reimpiegati con altro contratto, qualunque sia il periodo di osservazione considerato in seguito alla cessazione. Osservando i dati relativi ad alcuni anni, le percentuali di lavoratori provenienti da un contratto in somministrazione che trovano un’altra occupazione sono sempre superiori rispetto a chi proviene da un contratto alle dirette dipendenze di un’azienda, qualsiasi sia il periodo di osservazione a partire dalla data di cessazione del precedente contratto. A titolo esemplificativo nel 2020 un lavoratore direttamente assunto da un’azienda e che avesse terminato il proprio rapporto di lavoro nel 67% dei casi è transitato a nuovo contratto entro 6 mesi dalla cessazione; percentuale significativamente superiore per un lavoratore proveniente da un’esperienza in somministrazione, pari all’ 83%.
Il ruolo dell’Agenzia nell’accompagnare il lavoratore verso una nuova esperienza lavorativa si nota anche dall’esame di un periodo di tempo più ravvicinato alla cessazione del contratto di provenienza: nel 2020 ad un mese dal termine di un contratto alle dirette dipendenze di un’azienda solo il 44% dei lavoratori ha trovato un nuovo impiego, mentre nel caso della somministrazione questa percentuale è molto più elevata, pari al 61%. Molto più significati i dati della somministrazione a tempo indeterminato. Per ogni periodo di osservazione a partire dalla data di cessazione del precedente contratto a tempo indeterminato e per tutti gli anni di riferimento (dal 2014 al 2020), la percentuale di lavoratori proveniente da esperienza in somministrazione a tempo indeterminato e transitata a nuovo impiego è significativamente più alta rispetto ai contratti diretti. Per esempio, sempre nel 2020 entro 6 mesi dalla cessazione del primo contratto oltre il 92% dei lavoratori precedentemente impiegati con contratto stabile tramite Agenzia hanno trovato un nuovo impiego, a fronte del (solo) 54% di coloro che avevano un contratto stabile diretto. Anche se si riduce a un mese il periodo di osservazione tra il primo e il secondo contratto si nota una differenza consistente: nel 2020 solo il 42% di chi era precedentemente impiegato con contratto stabile alle dirette dipendenze di un’azienda è transitato verso un nuovo contratto in questo arco temporale, mentre la quota di lavoratori in somministrazione a tempo indeterminato che ha trovato un impiego dopo soli 30 giorni dalla cessazione del precedente rapporto di lavoro è stata pari a circa l’80%.
Sempre in relazione ai lavoratori assunti a tempo indeterminato lo studio ha affrontato il tema relativo alle “transizioni contrattuali”, indagando le tipologie contrattuali con cui questi lavoratori vengono assunti nel passaggio da una esperienza lavorativa ad un’altra. Prendendo a riferimento l’anno 2020, a sei mesi dalla cessazione di un contratto di lavoro, chi proveniva da una esperienza di somministrazione a tempo indeterminato in oltre il 37% dei casi è transitato in un contratto a tempo indeterminato alle dirette dipendenze di un’azienda.
Esito equivalente si ha per il genere ed il livello di istruzione: sia gli uomini che le donne sono agevolati nel reperimento di un nuovo lavoro se provengono da un contratto in somministrazione e tale dinamica è confermata per tutti i livelli di istruzione. Seppure su livelli differenti sia gli uomini che le donne beneficiano dell’esperienza in somministrazione nel reperimento di nuova opportunità occupazionale: a 30 giorni dalla cessazione il 76% delle donne precedentemente impiegate con un’Agenzia trova una nuova opportunità lavorativa (il 75% tra gli uomini), mentre nel caso dei contratti diretti solo una donna su due (lo stesso per gli uomini). A beneficiare della presenza dell’Agenzia sono indistintamente i lavoratori con ogni titolo di studio: se si confronta la quota di lavoratori con titolo basso che trova una nuova opportunità di lavoro dopo 6 mesi dalla cessazione della precedente questa percentuale è pari al 70% circa per i contratti diretti e oltre il 90% per la somministrazione. Lo stesso vale per i lavoratori con alto titolo di studio: dopo sei mesi dalla cessazione circa l’87% dei lavoratori ex-somministrati è ricollocato, mentre per i lavoratori diretti questa percentuale si attesta al 77%.
Anche nel caso dei lavoratori anziani – platea di lavoratori per cui può essere particolarmente difficile reperire una nuova occupazione nel caso di cessazione di un contratto di lavoro – lo studio evidenzia un differenziale positivo: Per gli over 54, per esempio, per tutti i periodi di osservazione rilevati infatti, la percentuale di lavoratori (media 2014-2019) che transitano a nuova opportunità professionale provenendo da un contratto di somministrazione è decisamente superiore rispetto a chi conclude un’esperienza di lavoro alle dirette dipendenze di un’azienda (per tutti i periodi di osservazione la percentuale di ex-somministrati ricollocati supera di oltre il 30% quella dei lavoratori diretti).
In conclusione mi sono limitato a commentare uno studio che ho ritenuto interessante. Ho ammesso che giudico il c.d. lavoro in affitto una strada utile per venire incontro alle esigenze delle imprese e per favorire l’occupazione. Personalmente credo che le statistiche quando si riferiscono ai contratti a termine farebbero bene a distinguere tra i casi di somministrazione e le assunzioni dirette. E a individuare, nello specifico, non solo il numero delle somministrazioni a tempo indeterminato, ma anche la caratteristica del rapporto che lega il dipendente – “somministrato a termine” committente – all’Agenzia del Lavoro.
Giuliano Cazzola