Il lavoro è al centro della vita degli individui: produttore di senso e identità, investe “complessi bisogni di tipo personale, sociale e simbolico che stanno alla base del benessere individuale” e dal quale non si potrebbe e né dovrebbe prescindere. Siamo e contemporaneamente meritiamo quello che facciamo, finendo per appartenere a determinati gruppi sociali in base alla mansione svolta e al reddito percepito. “Le risorse legate alla posizione lavorativa – sostanzialmente economiche, culturali e sociali – sono, infatti, un riflesso dei meccanismi che determinano i fatto che alcuni abbiano molte più risorse degli altri e di conseguenza determinano anche il grado di disuguaglianza di una società”. Il lavoro garantisce una posizione nella società ed è presupposto imprescindibile per contribuire al benessere collettivo. E quindi chi non lavora, o non lavora abbastanza, è considerato un problema, un peso morto. Ma il lavoro non è un concetto assoluto e nella sua analisi vanno considerati principalmente due variabili: la quantità e la qualità, che influiscono, di conseguenza, sulla distribuzione della ricchezza. Ma in un contesto come quello italiano – e non solo – caratterizzato da forti diseguaglianze sociali, “soprattutto in base alle opportunità e condizioni di vita, perché le disuguaglianze possono riguardare non solo il reddito o la ricchezza, ma anche l’ambito del lavoro, dell’istruzione, della salute, dell’abitazione, della partecipazione politica”, – il lavoro, la sua intensità, qualità e frequenza, molto spesso “è uno dei risultati della diversa posizione degli individui nella stratificazione sociale: chi è più svantaggiato nel mercato del lavoro – donne, giovani, persone con titoli di studio bassi, chi proviene da famiglie con meno risorse- ha più probabilità a sua volta di avere un’occupazione instabile che a sua volta è associata agli svantaggi”.
Marianna Filandri, docente di sociologia delle disuguaglianze economiche e sociali presso l’Università di Torino e autrice del libro Lavorare non basta (edito da Laterza nell’ottobre 2022), muove da questi presupposti per analizzare in quattro capitoli i meccanismi di sperequazione economici e sociali che derivano dal cosiddetto lavoro povero e dalla distribuzione diseguale della ricchezza. L’analisi prova innanzitutto a smentire il mito della popolazione che non ha voglia di lavorare, una narrazione che spesso vede al centro i giovani – i “bamboccioni” di Padoa Schioppa, i “mammoni” di Cancellieri, i “choosy” della Fornero – e indica nella flessibilizzazione del mercato del lavoro, “spesso legittimata con l’esigenza di favorire l’occupazione, in particolare quella giovanile” una delle cause principali del lavoro povero, dimostrando come le riforme che si sono susseguite a partire dagli anni Novanta “abbiano ridotto la sicurezza nel lavoro, abbassando il grado di protezione di cui godevano i lavoratori e allo stesso tempo abbiano introdotto molti contratti, appunto, flessibili, riducendo i costi di assunzione e licenziamento, permettendo alle imprese di regolare la domanda di lavoro in base al ciclo economico”. Meccanismi, questi, che generano povertà da lavoro, o povertà nonostante il lavoro, ma che non colpiscono solo i giovani: il processo è trasversale all’età, sesso, livello di istruzione e anche nazionalità. In sostanza, tra le file dei lavoratori poveri ci sono persone che “guadagnano poco, hanno impieghi part-time, sono occupati in maniera non continuativa, vivono in famiglie dove sono gli unici occupati”, collocati principalmente in settori di Attività amministrative e di supporto per le funzioni d’ufficio e altri servizi di supporto alle imprese, Altre attività di servizi e Servizi di alloggio e ristorazione, sia nel pubblico che nel privato.
La flessibilizzazione del mercato del lavoro, poi, porta conseguenze che ricadono non unicamente sul singolo individuo o nucleo familiare, ma su tutta la collettività “attraverso, ad esempio, i costi per il sostegno e l’erogazione dei sussidi di disoccupazione e le conseguenze sulla salute dei lavoratori”. Inoltre, “l’instabilità lavorativa è anche la causa di una maggiore tendenza a percepirsi economicamente poveri, con ovvie conseguenze sui consumi”, e se i consumi rallentano, rallenta anche l’economia. Senza contare, tra le conseguenze, una crescita delle disuguaglianze e l’erosione della coesione sociale.
Il punto di particolare interesse affrontato nel volume è l’analisi sulla ricchezza, innanzitutto perché “molto spesso influenza la partecipazione e le opportunità nel mercato del lavoro e consente ai più ricchi di accedere a posizioni lavorative meglio retribuite”, e in secondo luogo perché “la ricchezza produce essa stessa ricchezza e rende quindi l’impegno e lo sforzo lavorativo molto meno rilevanti per accedere a maggiore benessere e sicurezza”. Ma nonostante l’evidenza del fenomeno, “la tassazione dei redditi da patrimonio è ampiamente inferiore a quella dei redditi da lavoro”. Ed è proprio su questo tema che insiste Filandri, sull’orientamento dello Stato in materia di tassazione definito “poco razionale” per tre ordini di ragioni: “La prima è che non si premia il merito e quindi si ha una società meno efficiente. La seconda è che le rendite immobiliari o finanziarie sono improduttive, a differenza dell’attività lavorativa che per definizione rappresenta un’attività riconosciuta e volta alla produzione di beni o servizi in cambio di una retribuzione. La terza è che contribuisce a riprodurre le disuguaglianze con conseguenze negative per tutta la società”.
In sostanza, “la centralità del lavoro come unico ambito per la soluzione dei principali problemi economici e sociali non ha portato il benessere atteso” e sono molti le strategie che lo Stato può mettere in campo per mettere un freno alle disuguaglianze. Innanzitutto con interventi nell’ambito delle politiche del lavoro, per le quali Filandri indica due linee di azioni principali: “concentrarsi sulla scarsità dell’occupazione in termini di quantità del lavoro – più opportunità occupazionali – e intervenire sulla qualità del lavoro – occupazioni ben retribuite e stabili”. Ma oltre alla quantità di lavoro, è necessario “garantire maggiore qualità del lavoro con occupazioni ben retribuite e stabili”. Per quanto riguarda le retribuzioni, ci si riferisce all’aumento del salario minimo, quanto alla stabilità, invece, si intente l’eliminazione della possibilità di ricorrere a contratti a tempo determinato in maniera così indiscriminata. E ultimo, ma non ultimo, intervenire sul sistema fiscale attraverso una revisione dell’imposta sull’eredità e sulle donazioni e l’aumento della tassazione del reddito derivante dalla ricchezza.
Lavorare non basta, quindi, è un agile compendio sul funzionamento del sistema lavoro italiano e sulle diseguaglianze socio-economiche derivanti, un’analisi che ha il merito di non trascurare la centralità della persona all’interno di questi complessi meccanismi. Un libro che non ha la pretesa dell’eureka, ma che con con un linguaggio fuori da sofisticazioni riesce a realizzare una sistematizzazione efficace di concetti che, sebbene all’apparenza scontati, sono la base per dare seguito a un’analisi più approfondita.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Lavorare non basta
Autore: Marianna Filandri
Editore: Laterza – Saggi Tascabili
Anno di pubblicazione: ottobre 2022
Pagine: 154 pp.
ISBN:978-88-581-4887-7
Prezzo: 14,00€