L’ultimo accordo per la riduzione dell’orario di lavoro è di pochi giorni fa. Lo hanno sottoscritto con i sindacati di categoria i vertici della divisione assicurativa di Intesa San Paolo. Prevede un ampio allargamento dello smart working e la riduzione del lavoro da 5 a 4 giorni la settimana, a salario invariato. Si lavorerà per 4 giorni 9 ore, scegliendo come giorno libero il venerdì o il lunedì. Tutto su base volontaria. Un cambiamento in linea con la strategia di questo importante gruppo bancario, che aveva già da tempo compiuto la scelta dei 4 giorni. E soprattutto in linea con le tendenze che si vanno delineando nel mondo del lavoro. Non a caso lo stesso giorno in cui a Milano si firmava l’accordo con Intesa a Roma il leader della Cgil in un’intervista a La Stampa sosteneva la necessità di sposare la formula del lavoro in 4 giorni alla settimana a parità di retribuzione. Al congresso della Cgil di Rimini a metà marzo, affermava Maurizio Landini, lanceremo questa proposta, perché si lavori quattro giorni e il quinto sia destinato alla formazione continua.
E pochi giorni prima era stato Roberto Benaglia, il segretario generale dei metalmeccanici della Cisl, a dire la stessa cosa mentre parlava della necessità di approdare a un “lavoro giusto”, che dia spazio al tempo libero e alla formazione. A suo avviso sono le aziende le prime a essere interessate alla settimana di quattro giorni e per questo chiedono di avviare dei confronti con la parte sindacale per capire come sia possibile attuarla. La vecchia idea cislina di lavorare meno, lavorare tutti? In parte sì, ma con uno spessore tutto diverso, soprattutto perché le aziende per prime si sono accorte che riducendo l’orario di lavoro non solo si soddisfano i lavoratori, ma questi diventano più produttivi, anche solo perché cala l’assenteismo, e, cosa ancora più importante, con la produzione crescono anche i profitti. Le aziende hanno cominciato a sperimentare questa nuova realtà, con risultati più che soddisfacenti per tutti. Tanto che anche Adolfo Urso, il ministro del Made in Italy, non esclude che si arrivi a questo approdo. Con tutte le cautele del caso, afferma, perché non tutti potrebbero permetterselo e non è giusto creare disparità. Ma la strada sembra essere questa.
Fatto è che già nel mondo dell’automotive l’esperimento dei 4 giorni lavorativi sta prendendo piede, un po’ perché la scadenza del 2035 per la produzione di motori endotermici sta mettendo fretta a tutte le sperimentazioni, un po’ perché le aziende dell’auto sono per definizione all’avanguardia. La Repubblica ha riferito di prime interessanti sperimentazioni in Emilia, in imprese del settore auto, a dimostrazione che la prospettiva di una forte ripresa di produttività non è solo possibile, è già una certezza. Ma la controprova più interessante viene dal Regno Unito, dove è stata portato avanti un progetto pilota di sei mesi, in 61 imprese e per un totale di 3mila dipendenti. Progetto che ha avuto un grande successo, tanto che 56 di queste 61 imprese hanno deciso di continuare a lavorare in questa modalità e si sta pensando a un decreto che stabilisca per tutti l’orario a 32 ore settimanali.
I risultati di questo esperimento britannico parlano da soli. Più benessere e più soddisfazione, meno stress, più entusiasmo tra i lavoratori, ma soprattutto più produttività, più fatturato, più fidelizzazione dei dipendenti. Che parlano di un vantaggio competitivo notevole, al quale non vogliono rinunciare. Per ora si parla di mantenere questo orario almeno per tutto quest’anno, per verificare poi come comportarsi. E se le aziende vogliono pensarci bene prima di tornare indietro, i lavoratori hanno già deciso. La stessa organizzazione che ha avviato questo progetto ha riferito che un terzo dei lavoratori ha dichiarato che tornerebbe ai 5 giorni lavorativi solo con un aumento della retribuzione tra il 26 e il 50%, mentre il 15% ha detto che non c’è un aumento di stipendio che possa convincerli a tornare indietro.
C’è anche da considerare che questa grande novità potrebbe contribuire a risolvere un problema che le aziende sentono crescere, quello della tendenza dei lavoratori a cambiare lavoro alla ricerca di situazioni lavorative più interessanti. Sono le grandi dimissioni, fenomeno in crescita ritenuto dalle stesse aziende molto pericoloso. Dario Di Vico ha riferito i dati di un’indagine di Federmeccanica secondo la quale il 45% dei lavoratori ai quali è stato chiesto se avessero intenzione o meno di cambiare lavoro quest’anno ha risposto positivamente. Situazione difficile, soprattutto se riferita ai lavoratori più giovani. La percentuale di chi pensa di traghettare verso un nuovo lavoro sale al 64% tra chi ha tra 18 e 35 anni, ed è poco più contenuta tra chi ha tra 35 e 50 anni, attorno al 50%.
Certo, non basterà ridurre l’orario di lavoro per completare una trasformazione che dà centralità alla persona e alle sue necessità. Le aziende dovranno valutare il lavoro svolto sulla base dell’effettivo rendimento. Non sarà facile approdare al “lavoro giusto” di Roberto Benaglia, soprattutto per quanto riguarda la linea del comando, dovranno essere evidenti gli obiettivi cui punta l’azienda e i criteri di misurazione della prestazione. I vecchi sistemi appaiono superati, sarà necessario dare vita a qualcosa di diverso. Non sarà facile, ma la strada è segnata.
Massimo Mascini