Sappiamo ormai da tempo che il lavoro e l’organizzazione produttiva sono attraversati da cambiamenti che richiedono una analisi attenta e una revisione dei modelli interpretativi e di regolazione precedenti. Per questo appare di grande utilità il ritratto, sobrio ma penetrante, che ne fornisce nel suo ultimo libro ( Lavoro Tecnologia e Libertà. Tempo e spazio del lavoro nell’era dell’intelligenza artificiale, edito da Guerini) Anna Ponzellini, una delle sociologhe che più si sono dedicate a ricerche e approfondimenti su questo filone. Riflessioni di cui mi piace il taglio empirico e il tono garbato, distante dai profetismi e determinismi che spesso aleggiano intorno al tema del cambiamento del lavoro. Un approccio aperto, ben consapevole che i cambiamenti di cui parliamo sono in atto e tutt’altro che definiti nei loro esiti, mentre le traiettorie e i loro effetti possono essere influenzati dalle logiche e dalle scelte degli attori, sia a livello individuale che collettivo.
Come è noto le vicende connesse al Covid hanno reso più evidenti tendenze, innovazioni tecnologiche ed aspettative soggettive dei lavoratori che erano già in corso consentendoci di approdare alla considerazione che “per molti, anche se non per tutti, il lavoro è definitivamente cambiato” .
Erano già in corso cambiamenti organizzativi trainati dalla digitalizzazione e dalle applicazioni dell’intelligenza artificiale: essi però si sono fatti più massicci e generalizzati. E possiamo immaginare che lo divengano ancora di più grazie alle ingenti risorse stanziate su questo asse dal PNRR. Le tecnologie sono dunque un fattore trainante della dinamica in atto, ma anche un fattore ambivalente, perché , in assenza di un deciso riorientamento ( come hanno ben mostrato Acemoglu e Johnson nel loro recente volume su potere e progresso ), i loro impatti sulla quantità e qualità del lavoro sono controversi , mentre possono e andrebbero indirizzati a vantaggio dei lavoratori. L’idea che lo sviluppo tecnologico risolverà da solo i problemi non funziona, come mostra bene Ponzellini. E nello stesso tempo non si configura neppure come esito inevitabile quella società del post-lavoro , di cui ha parlato nei suoi ultimi testi De Masi. In realtà quello che si sta verificando – e a cui ci richiama l’Autrice – è l’esigenza di dare risposte qui ed ora al lavoro da riorganizzare, e ai lavoratori da soddisfare per migliorarli entrambi: piuttosto che inseguire l’idea futuribile della liberazione ‘dal’ lavoro (mentre nel testo non mancano spunti in direzione della liberazione ‘del’ lavoro) .
Le due dimensioni principali che il libro evoca sono quelle dello spazio e del tempo. Entrambe scosse dall’esperienza pandemica e sottoposte ad una tensione ricostruttiva che non presenta punti di caduta automatici o immediati.
Però abbiamo alle nostre spalle un bel po’ di recenti narrazioni che ci hanno ragguagliato sull’espansione massiccia, improvvisa e dirompente, del lavoro da remoto: una esperienza collettiva e di massa che ricordiamo bene avendola attraversata e vissuta. Ponzellini ha il merito di raccontarla senza enfasi salvifiche, mostrando l’importanza di quella ascesa e l’esigenza di interventi per stabilizzarla nella fase del riflusso , che è quella attuale e che vede un quadro chiaroscurale in diversi ambiti, oltre che passi indietro in diverse realtà del pubblico impiego.
Ricordiamo che il passaggio importante che ancora attende di essere compiuto è quello di tradurre – specie per via contrattuale- il convulso lavoro obbligato di massa e da remoto, che abbiamo vissuto, in uno smart working scelto consapevolmente e ben costruito a misura delle persone che lavorano, oltre che dei parametri di produttività aziendale. Ponzellini si muove con prudenza e rende chiaro che i vantaggi di questa esperienza sono stati numerosi : dall’apprendimento collettivo di questa opportunità alla possibilità di coltivarne gli aspetti liberatori. Nello stesso tempo non le sfuggono rischi e criticità , qualche volta sottovalutati dalla letteratura più apologetica. Come il fatto che questo ha condotto una parte non piccola dei lavoratori implicati a lavorare di più sia in durata che nei carichi produttivi, come ad esempio emerso anche nella ricerca da me curata nel 2021 sul lavoro durante e dopo il Covid. Oppure ancora gli effetti ambigui, e non facili da sciogliere , riguardo all’ home working sotto il profilo della conciliazione con i tempi di vita. Insomma le soluzioni non sono semplici e a portata di mano, e Ponzellini ci sollecita a vedere come la ricerca di approdi ben bilanciati – personali e collettivi, contrattati o meno – non sia meccanica.
Ma questa varietà di fili, ancora aggrovigliati e da disvelare pienamente, aumenta in relazione all’altra questione evocata : quella del tempo e degli orari di lavoro. In un bel saggio inserito nel volume l’Autrice analizza le tre fasi mediante le quali le relazioni industriali si sono accostate alla regolazione e gestione dell’orario lavorativo, un processo che ha intersecato gli ultimi 150 anni (almeno) di storia sociale. Seguendo questa analisi possiamo vedere come le certezze di una lineare spinta verso la riduzione degli orari contrattuali, alimentata dai movimenti sindacali dei paesi avanzati, si sia ora tradotta in un quadro più vario e più incerto. Nel quale – nell’era della flessibilità – sembrano piuttosto prevalere le strategie di adattamento individuale rispetto alla trama della regolazione collettiva. E nel quale il tempo stesso di lavoro assume molteplici significati a seconda delle strategie personali ( variabili nel corso della vita) e delle aspettative che lo accompagnano. Senza pervenire ad una ricetta valida per tutti e di semplice applicazione. Nel testo ci viene ricordata la spinta storica a ridurre gli orari, che sembra in qualche modo riattualizzata, anche se tende ad affermarsi in modo più lento e meno generalizzato di quanto ci attenderemmo. Non si fa ancora menzione in profondità degli accordi italiani più recenti che aprono la breccia per la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni (sulla scorta anche di esperienze straniere): ma resta persuasiva la valutazione di un trend positivo e in corso che deve ancora svilupparsi pienamente.
Di questo testo condivido l’approccio realistico e gradualistico, punteggiato da una scrittura attenta e mai sopra le righe, molto diverso dalle tentazioni propagandistiche spesso intrecciate a questi oggetti. Così la considerazione che “persone ed organizzazioni stanno affrontando questo big change al buio, mentre la tecnologia sbrigativamente promette che ogni distanza sarà presto superata”. Ed anche il ribadito – e significativo – filo conduttore di questa riflessione : “un percorso di conciliazione tra lavoro e vita … che è andato via via identificando come indiscutibile fattore di libertà e umanizzazione del lavoro la possibilità delle persone di decidere quando e dove lavorare “ ( sottolineature nostra).
E mi sembra anche rilevante notare il modo cauto con cui si prende atto che l’attenzione verso i cambiamenti nella domanda dei lavoratori sono intercettati non da tutti gli attori ( non solo collettivi) , ma solo da quelli più sensibili e reattivi . In sostanza per ora un fenomeno minoritario in cui, come si intravede dalle notazioni dell’Autrice , si trovano in prima fila alcuni manager più ‘pronti’, seguiti a stretto giro da alcuni sindacalisti. Non è l’elenco che vorremmo, ma appare più prossimo all’ evoluzione dei micro-comportamenti nelle nostre risorse umane e relazioni industriali. Su questo aspetto non troviamo ulteriori approfondimenti o sottolineature, ma certo queste considerazioni ci interrogano intorno alla debolezza , poco indagata, da parte dei sindacati nell’intercettare e assecondare alcune spinta profonde che vengono dai lavoratori: le quali sarebbero da prendere in considerazione proprio in quanto non standard e non scontate, oltre che rivelatrici di atteggiamenti sociali che vanno considerati e valorizzati in modo adeguato.
In realtà – se intendiamo bene – quello che viene messo a fuoco, senza lamentele, è che la frontiera dell’innovazione sia presidiata in prevalenza a livello individuale (manager e sindacalisti) piuttosto che dalle organizzazioni. Non è quindi casuale che venga sottolineata dall’Autrice la necessità di un ruolo più attivo delle due parti sociali, per dare continuità e sistematicità ai movimenti sussultori che sono in corso: con la scopo di aumentarne i benefici per tutti. In questa chiave , per evitare i rischi di incombente espansione neo-taylorista, proprio le due parti avrebbero la forza e l’interesse per favorire la progettazione condivisa dei nuovi sistemi socio-tecnici: ovvero “ metodi di job design volti a massimizzare le prestazioni organizzative e al contempo a preservare o sviluppare la qualità del lavoro”. Non si può non condividere l’allarme per il ritardo con cui le grandi organizzazioni si stanno sincronizzando con i cambiamenti in atto e le nuove domande sociali che ne conseguono. Esiste un enorme spazio per la regolazione ‘fine’ delle relazioni industriali e contrattuali: uno spazio che però attende ancora di essere pienamente tematizzato e coperto.
All’interno di un quadro di sostanziale condivisione e di convergenza con le analisi di questo libro, pure pare utile ricavare qualche spunto critico.
Non mi convince una lettura nella quale prevale in sostanza una idea troppo armoniosa e tutto sommato troppo positiva delle trasformazioni in atto. Nonostante i richiami, che pure non mancano, al carattere non lineare e chiaroscurale di questo passaggio, e ai tanti costi umani ( a partire dalla precarizzazione) che esso può comportare.
Questo deriva secondo me da due ragioni.
La prima è che le ricerche cui si riferisce questo angolo visuale riguardano in larga misura (anche se non del tutto) la parte migliore – e minoritaria – del nostro sistema produttivo, mentre uno sguardo sul mercato del lavoro deve avere un carattere più sistemico. E da questo sguardo derivano informazioni nelle quali il chiaroscuro spesso sconfina nello scuro. Certo sovente è una questione di interpretazione o di taglio analitico . Per quanto mi riguarda anche io preferisco mettere l’accento sui rischi di polarizzazione del mercato del lavoro: d’altro canto alcune survey, come quella recente della Fondazione Di Vittorio sono portate ad enfatizzare in modo marcato i risvolti negativi di questi cambiamenti. Bene fa Ponzellini a marcare un punto di vista intermedio e a metterci in guardia rispetto alle facili generalizzazioni. Resta tuttavia problematica una interpretazione del nostro mondo del lavoro , o meglio dei lavori, che prescinda dalla crescente frammentarietà dell’ occupazione e dall’impennata delle insicurezze di vario tipo.
La seconda ragione è che le ricerche ed analisi, di cui da conto Ponzellini, costituiscono un ottimo repertorio micro da cui non si dovrebbe prescindere in qualunque studio serio intorno a questi oggetti o nella costruzione di policy ben strutturate. Ma esso non è autosufficiente e deve fare i conti a sua volta con paradigmi macro elaborati dalle scienze sociali per interpretare i cambiamenti socio-economici in atto. Insomma , se leggiamo le tante declinazioni, nazionali e comparate, relative ai problemi dei capitalismi nazionali o ai ‘regimi di crescita ’ , dobbiamo misurarci con un quadro decisamente più problematico. Un quadro dal quale emergono in primo piano le strozzature strutturali che pesano sul nostro mondo produttivo e del lavoro – a partire dai deficit peculiari dei capitalismi mediterranei – limitando gli avanzamenti che pure si registrano in alcuni segmenti. Quindi l’interrogativo che ne deriva si sposta intorno al come dare una portata più ampia alle innovazioni micro, comunque da assecondare e indirizzare, in modo che tocchino i settori o le imprese in ritardo: con l’obiettivo di contribuire a spostare i nostri assetti verso una maggiore prossimità alla ‘via alta’ alla crescita.
Mimmo Carrieri