Sabato 13 febbraio: è il giorno in cui, a fine mattinata, il nuovo Governo, guidato da Mario Draghi, giura nelle mani del Presidente della Repubblica. I commentatori si sbizzarriscono: quali saranno i problemi che il nuovo Esecutivo affronterà per primi? Molti hanno già la risposta pronta: innanzitutto, la rielaborazione e la presentazione all’Unione Europea dei piani necessari per ottenere i fondi del cosiddetto Recovery Plan (in realtà, Next generation EU). E poi? Sicuramente, il contrasto all’epidemia da Covid-19, a partire da un irrobustimento e da una velocizzazione delle vaccinazioni. E poi ancora? Beh, l’imminente scadenza delle misure relative alle zone in cui è stato diviso il Paese, con le conseguenti, diversificate proibizioni su orari e spostamenti. L’irrisolta questione della scuola. L’urgenza dei “ristori”. La scottante questione del blocco dei licenziamenti. E insomma, chi più ne ha, più ne metta.
Ma ecco che dalla Puglia arriva quella che appare come una notizia bomba. Il sito barese di Repubblica titola così: “Ex Ilva di Taranto, il Tar ordina lo stop agli impianti: ‘Pericolo urgente per la salute dei cittadini’”. Domenico Palmiotti, il corrispondente da Taranto del Sole 24 Ore, tuitta: “ArcelorMittal, Tar Lecce: impianti spenti in 60 giorni. ‘Grave pericolo per vita e salute’”.
Pericolo urgente? Impianti spenti entro 60 giorni? Ma la vicenda della Ex Ilva non si era risolta con l’accordo fra ArcelorMittal, Governo italiano e Invitalia del dicembre scorso? Evidentemente no. Si può anzi dire che le notizie giunte da Lecce, al di là del loro specifico contenuto, costituiscano un esempio riassuntivo di alcune delle più gravi difficoltà di fronte a cui si troverà il Governo Draghi quando avrà ricevuto la fiducia di Camera e Senato.
Ma andiamo con ordine. Perché, per capire cosa è successo il 13 febbraio in merito alle annose vicende dell’Ilva, bisogna fare qualche passo indietro. E qui li faremo aiutandoci con la ricostruzione cronachistica che è stata fatta da Giorgio Meletti sul Domani di domenica 14 febbraio.
Bisogna dunque partire dall’agosto del 2019. In alcune giornate di quel mese, nel grande stabilimento siderurgico di Taranto, il più grande d’Europa, si verificano delle “emissioni anomale”, potenzialmente inquinanti.
Sei mesi dopo, e cioè il 27 febbraio 2020, il Sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, anche in seguito alla rilevazione di un’eccessiva presenza di biossido di zolfo effettuata il 21 dello stesso mese da una centralina sita nel rione Tamburi, emette un’ordinanza con la quale ingiunge a ArcelorMittal Italia, che ha la gestione dell’impianto, e ad Ilva in Amministrazione straordinaria, che ne è proprietaria, di individuare entro 30 giorni le cause di tali “emissioni anomale”, onde poterle rimuovere. In caso di mancato adempimento, nei successivi 30 giorni gestore e proprietario avrebbero dovuto provvedere allo spegnimento della cosiddetta area a caldo, che comprende gli altiforni. In altre parole, ciò di cui si stava parlando era il blocco totale dell’attività produttiva.
A questo punto, però, ArcelorMittal presenta al Tar di Lecce un ricorso avverso all’ordinanza “sindacale” (un vocabolo che, in giuridichese, vuol dire “del sindaco”). Il ricorso sospende l’ordinanza stessa. E mentre fra AM InvestCo – la società costituita in Italia da ArcelorMittal per gestire il gruppo ex Ilva -, l’Ilva in Amministrazione straordinaria, il Governo Conte bis e Invitalia, per non parlare del Tribunale di Milano, succede di tutto e di più, al Tar di Lecce si esamina con calma il ricorso inerente a una questione che, essendo riferita alla salute dei tarantini, potrebbe forse essere considerata urgente. Ma tant’è.
A fine gennaio 2021, e cioè 11 mesi dopo la presentazione del ricorso da parte di ArcelorMittal, il Tribunale amministrativo regionale di Lecce conclude il suo esame. Esame i cui risultati vengono resi noti con la sentenza pubblicata, guarda un po’, sabato 13 febbraio.
Ebbene, il Tar di Lecce ha deciso di respingere il ricorso in questione. “Deve pertanto ritenersi pienamente sussistente la situazione di grave pericolo per la salute dei cittadini”, scrive il medesimo Tar. Situazione che, si badi bene, appare “connessa dal probabile rischio di ripetizione di fenomeni emissivi in qualche modo fuori controllo e sempre più frequenti”. Dove, a quanto si comprende, sia quel “probabile rischio” che quel “sempre più frequenti” si riferiscono a un esame relativo alle “emissioni anomale” verificatesi nell’estate del 2019.
Fatto sta che, è scritto ancora nella sentenza, “il termine assegnato nella misura di giorni 60 (sessanta) per il completamento delle operazioni di spegnimento dell’area a caldo … deve ritenersi decorrere ex novo dalla data di pubblicazione della presente sentenza”. Il che significa che tali operazioni dovrebbero concludersi entro il 14 aprile del corrente anno 2021.
E adesso? Adesso, almeno per il momento, niente. Infatti, ArcelorMittal ha annunciato, con una scarna comunicazione, che impugnerà la sentenza del Tar di Lecce di fronte al Consiglio di Stato. Il che dovrebbe bloccarne gli effetti fino a quando (già, ma quando?) lo stesso Consiglio di Stato, che è sovraordinato rispetto ai Tribunali amministrativi regionali, non si sarà pronunciato in merito.
Chiarito che la sentenza del Tar di Lecce non sembra costituire un pericolo immediato per la prosecuzione dell’attività produttiva dell’ex Ilva di Taranto, un rapido esame delle reazioni a tale sentenza potrà forse aiutarci a capirne la reale portata.
Vediamo, dunque. I poteri locali festeggiano. A partire dal Sindaco Melucci, per il quale “Taranto oggi si è liberata. La città non vuole più convivere con quel tipo di produzione”. Mentre il Presidente della Regione Puglia, Emiliano, si augura che “non si chieda al Consiglio di Stato di salvare le castagne dal fuoco”. Aggiungendo che “questa storia è arrivata al termine”. Emiliano ha poi auspicato che il Presidente Draghi in persona partecipi a una Conferenza dei servizi finalizzata a raggiungere un accordo di programma per l’area tarantina.
Di parere opposto più o meno tutte le parti sociali. Roberto Benaglia, Segretario generale della Fim-Cisl: “A chi invoca accordi di programma come la soluzione a cui tendere, ricordiamo che non c’è nessun futuro credibile e certo per il lavoro a Taranto senza la siderurgia”.
Rocco Palombella, Segretario generale della Uilm-Uil: “La chiusura dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto”, se attuata, provocherebbe “il blocco degli investimenti ambientali e industriali” e vanificherebbe “lo sforzo compiuto fino a oggi per l’ingresso di Invitalia”. “Draghi deve intervenire per rendere operativo l’accordo tra ArcelorMittal e lo Stato che può rappresentare una garanzia per il risanamento”.
Gianni Venturi, Segretario nazionale e responsabile siderurgia della Fiom-Cgil: “La sentenza di sabato rischia di rimettere le lancette indietro di anni”. “Senza gli altiforni, l’acciaieria non ha senso.” E ancora: “In due mesi, non si può ovviamente risolvere il problema delle emissioni; si deve però costruire un quadro legislativo che sia in grado di assicurare la progressiva decarbonizzazione delle produzioni”.
Alessandro Banzato, Presidente di Federacciai (la federazione, aderente alla Confindustria, che rappresenta le imprese siderurgiche italiane): “Il timore è che questo atto”, ovvero la sentenza del Tar di Lecce, “possa fermare o rallentare il processo di risanamento e di rilancio”.
Infine, la Confindustria chiede di “evitare lo spegnimento del ciclo integrale a caldo dell’Ilva”. Infatti, per la Confederazione di viale dell’Astronomia “interrompere la produzione e la fornitura dell’acciaio mette in seria difficoltà intere filiere della manifattura italiana”.
Qui giunti, fermiamoci un attimo. Tornando alle parole di Venturi che ci aiutano a fissare un punto rispetto al quale, a proposito dell’ex Ilva di Taranto, si è fatta spesso, volutamente o no, parecchia confusione. In poche parole, occorre distinguere fra emissioni anomale, fumi, polveri e altre forme di inquinamento, per così dire “tradizionali”, e la questione della decarbonizzazione. Le prime sono in corso di soluzione, a partire dalla copertura dei famosi parchi minerali. La seconda, assai più complessa, implica investimenti molto rilevanti. Ed è questa quella che può rientrare nel discorso europeo relativo alla cosiddetta “transizione duale”, digitale e ambientale. Perché è questa quella che ha molto a che fare con la ricerca della cosiddetta “neutralità climatica”. E dunque anche con quello che dovrebbe/potrebbe essere l’orizzonte strategico del Governo Draghi.
Quel che vogliamo dire, insomma, è che la riconversione ambientalistica della produzione di acciaio oggi appare essere cosa tecnologicamente non impossibile ma certo molto, molto impegnativa. E, in ogni caso, la via della ricerca della neutralità climatica intesa come obiettivo rispetto al quale riconvertire la produzione dell’acciaio è cosa non solo diversa, ma quasi opposta rispetto al frettoloso processo di spegnimento di un altoforno. Non per caso, secondo “fonti legali vicine al dossier ArcelorMittal”, citate il 15 febbraio dall’agenzia Ansa, una “fermata forzata degli impianti” rischierebbe di non permettere “la tenuta in riscaldo dei forni”. Ne potrebbe conseguire “il loro crollo” e quindi “la distruzione dell’asset aziendale di proprietà di Ilva in Amministrazione straordinaria”.
Torniamo a Draghi. Al momento della formazione del Governo da lui presieduto, nessuno avrebbe messo nell’elenco dei suoi compiti più urgenti l’annosa questione dell’Ilva. E invece, dopo poche ore dal giuramento al Quirinale, eccola lì, in prima fila.
Coincidenze di date a parte, il fatto è che nella questione Ilva c’è un po’ tutto ciò di cui ci si aspetta che questo Governo si occupi. La transizione energetico/ambientale. Ma, probabilmente, anche la transizione digitale, visto che di innovazione tecnologica si tratta e si tratterà, rispetto alla stessa Ilva. E poi, la politica industriale. La questione dei rapporti fra l’Unione Europea e la concorrenza sleale di colossi industriali come la Cina. L’occupazione. Il Mezzogiorno. Le infrastrutture. E ancora: il rapporto tra Governo centrale e poteri locali, a partire dalle Regioni. L’efficienza della Pubblica amministrazione. Una giustizia che è, allo stesso tempo, invasiva e inefficiente. Come si diceva: tutto.
Nello specifico, il Governo Draghi non si troverà solo davanti alla nuova esplosione della questione ambientale relativa alla ex Ilva. O, per dir meglio, non si troverà solo davanti al ritorno del conflitto relativo a tale questione ambientale. Un conflitto iniziato nel luglio del 2012, quando il Gip di Taranto emise un provvedimento di sequestro preventivo di tutte le aree strategiche dello stabilimento siderurgico. Un conflitto, ancora, in cui azienda, magistratura togata, giustizia amministrativa, poteri locali e parti sociali si sono scontrati fra loro e/o con i vari Governi che si sono succeduti da allora ad oggi.
Come hanno spiegato con grande tempestività Paolo Bricco e il già citato Domenico Palmiotti sul Sole 24 Ore dello stesso sabato 13 febbraio, tutti i problemi che si poteva sperare fossero stati avviati a soluzione nel dicembre scorso con l’intesa triangolare fra ArcelorMittal Italia, Governo italiano e Invitalia sono, in realtà, ancora aperti (o, almeno, riaperti). Forse anche a causa della caduta del Governo Conte bis, l’ingresso di Invitalia nel capitale di AM InvestCo non si è ancora concretizzato. Inoltre, nelle more, pare che ArcelorMittal abbia ricominciato a rallentare fortemente il pagamento delle fatture ai suoi fornitori, molti dei quali sono imprese tarantine.
A ciò si aggiunga che, la settimana scorsa, Invitalia non si è presentata al primo importante appuntamento post accordo del dicembre 2020. Per conseguenza, i sindacati, che contavano di poter avviare un confronto sul piano industriale, hanno indetto per mercoledì 24 febbraio uno sciopero di 24 ore.
Tra meno di 6 mesi, saranno passati 9 anni da quella fine luglio del 2012 in cui si è avviata la guerra dell’Ilva. L’esperienza di questi quasi 9 anni ha dimostrato ampiamente che la politica del giorno per giorno non consente a nessuno di andare lontano. Forse, se adesso, forte dei fondi europei del Next Generation EU, il Governo Draghi riuscisse a coordinare l’opera del Ministero dell’Economia, proprietario di Invitalia, di quello dello Sviluppo economico, titolare della politica industriale, e del nuovo Ministero per la transizione ambientale, che dovrebbe concentrare in sé la responsabilità per le politiche energetiche, potrebbe assumere un’iniziativa capace di trovare una nuova intesa, solida e leale, con ArcelorMittal che, dopotutto, è ancora il primo produttore di acciaio al mondo. Se non è sperare troppo, sarebbe allora forse possibile superare la dispersione di energie umane che sono state assorbite, in questi anni, fra tanti conflitti più o meno necessari, più o meno utili, e portare la vecchia Ilva verso un suo qualche futuro.
@Fernando_Liuzzi