Sta per finire questo 2021, che aspettavamo con ansia sperando che portasse via la pandemia. Non è stato così. Ci siamo illusi un’altra volta che tutto fosse finito o potesse comunque finire a breve e invece tra mille varianti il Covid è ancora lì ad avvelenare la nostra vita. E tuttavia non è stato un anno avaro, qualche soddisfazione ce l’ha regalata. Con l’economia, per esempio, con il Pil che è cresciuto fino al 6,3%. Quando si è cominciato a parlare di un aumento vicino al 6% nessuno ci voleva credere, e invece piano piano siamo arrivati lassù. La gran parte di questo aumento è dovuta a un effetto rimbalzo, siamo cresciuti perché nel 2020 avevamo subito un vero tonfo, ma la risalita c’è stata, abbastanza impetuosa, più forte che negli altri paesi europei. E soprattutto il 2021 ci ha portato Mario Draghi a Palazzo Chigi. Uno statista, figura internazionale di grande levatura, che è riuscito a mettere insieme una maggioranza allargata come più non si poteva, soprattutto ha iniziato a varare una serie di riforme di struttura che sono indispensabili per guadagnarsi le immense risorse che l’Europa ci ha messo a disposizione, ma sono le stesse riforme che da decenni l’Italia non riusciva a realizzare per i troppi veti incrociati che scattavano ogni volta che si cercava di muovere qualcosa. Draghi ci sta riuscendo, senza clamori, passo dopo passo, secondo il suo stile.
Con la crescita dell’economia anche l’occupazione ha potuto vivere un momento non proprio felice, ma certamente più tranquillo di quanto ci si aspettasse. Anche in questo caso la caduta che era stata registrata nel 2020 non è stata interamente recuperata, ma non c’è stato quello tsunami che i più prevedevano sarebbe arrivato con la fine del blocco dei licenziamenti. Basterebbe considerare che quando il blocco è stato tolto, a luglio, per la gran parte dell’industria, i pochi casi di licenziamenti sono stati per l’appunto un vero “caso”, anche mediatico, ma si è trattato di tre aziende in tutto. E quando a novembre il blocco è finito per tutti, la notizia non è stata nemmeno ripresa dai giornali. Certo, nel 2020 il calo forte dell’occupazione c’è stato e ha colpito chi non era protetto, i precari, i contratti a termine, il lavoro nero e per recuperare quei numeri bisognerà ancora penare. Ma nel complesso il sistema ha tenuto.
Quello che purtroppo non ha tenuto, in questi dodici mesi, è la coesione sociale. Già stentava, poi la lunga pandemia e i vari lockdown hanno dato un colpo durissimo. E paradossalmente ciò è avvenuto proprio quando abbiamo avuto la migliore difesa contro la pandemia, i vaccini e il green pass. Molti, per ignoranza o paura, non si sono voluti vaccinare e non hanno accettato le misure restrittive per chi non aveva la carta verde. Ci sono state proteste, moti di piazza, disordini, fino all’apice di ottobre, quando, in una delle tante manifestazioni, un gruppo di esaltati, guidati da fascisti dichiarati, ha assaltato e invaso la sede della Cgil a Roma, violando uno storico presidio di libertà e democrazia.
Le relazioni industriali, invece, hanno fatto il loro dovere. Anche quest’anno tanti accordi, a tutti i livelli. Le grandi aziende hanno raggiunto moltissime intese con i sindacati su tutti i problemi urgenti, soprattutto quelli aggravati dalla pandemia. Ha brillato in questo panorama il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, difficile esame di maturità che è stato superato a pieni voti per le tante novità raggiunte, soprattutto per l’avvio di una nuova classificazione del personale, con l’innovazione della formula varata nel lontano 1973 e da allora mai modificata. Anche il confronto interconfederale è proseguito, ma la strada è risultata a volte troppo impervia. E’ stato importante l’accordo di dicembre per la gestione dello smart working, ma non è stato possibile raggiungere un grande accordo sociale triangolare che pure a volte sembrava vicino. Il confronto tra parti sociali e governo ha avuto anche momenti assai aspri, tanto che si è arrivati a uno sciopero generale, e per di più separato, proclamato da Cgil e Uil e non dalla Cisl.
E’ in questa situazione che ci avviamo al nuovo anno. Sprizzare ottimismo è difficile, ma le previsioni non sono negative. L’economia dovrebbe continuare a tirare, anche perché cominciano ad arrivare i soldi dell’Europa e la spesa pubblica si allarga. Preoccupa l’inflazione, che ha rialzato la testa dopo anni in cui era troppo bassa e si sperava crescesse un po’ per alimentare i consumi interni. E preoccupa anche la crisi dei microprocessori che ha messo in sofferenza tutta l’industria manifatturiera e non accenna a deflettere. Poi ci impegneranno le grandi transizioni, quella ambientale soprattutto, che dovrà essere gestita con grande sapienza. Sono compiti difficili e impegnativi, che non vanno rimossi, bensì affrontati con la convinzione di poterne venire a capo, come del resto già abbiamo fatto con altri tremendi ostacoli. Lo dimostra anche il prestigioso riconoscimento arrivato da The Economist, che ha incoronato l’Italia come Paese dell’anno 2021. Il settimanale britannico, tanto prestigioso quanto tradizionalmente sferzante con il nostro paese, stavolta ha invece ammesso: ”è innegabile che l’Italia sia oggi un posto migliore rispetto a com’era nel dicembre 2020″. Abbiamo insomma dimostrato di avere le capacità per risolvere grandi problemi. Anche stavolta ci riusciremo.
Massimo Mascini