“Ad un deserto bisogna portare acqua; da una palude malsana bisogna toglierla” sosteneva Bertrand Russel. È il caso della nostra vita economica e sociale uscita dalla recessione e che nel 2017 ha respirato l’aria di ripresa. L’eredità della crisi, vale a dire il deserto, si sta restringendo ma questo non vuol dire che non si debba portare acqua, molta acqua, alla crescita che altrimenti potrebbe già frenare nel 2018. Acqua sotto forma di investimenti, di una nuova politica salariale, di scelte in materia di politiche del lavoro che impediscano ai giovani di lasciare il Paese la cui ripresa sembra non riguardarli ed alla quale quelli che se ne vanno dimostra no di non credere. E va tolta anche l’acqua dalla palude malsana di una vita politica che produce quel diffuso “rancore” denunciato dal Censis, che si dibatte nella difficoltà evidente di ricostruire una credibile classe dirigente, che non riesce a colmare il vuoto progettuale che alimenta non solo le diseguaglianze ma anche la compresenza di tante Italie chiuse in se stesse.
Agli inizi di quest’anno si parlò di limbo italiano. Da questo punto di vista è andata meglio di quel che si poteva temere sul piano economico ma vanno evitati ottimismi fuori luogo. Serve invece molto realismo per non farsi fuorviare da illusioni pericolose.
Il contesto economico e sociale è tutt’altro che stabile. Ha beneficiato della “protezione” della Bce, ha evitato a fatica la deflazione ed una nuova stagnazione, ha prodotto nuova occupazione che però vede ancora una volta i contratti a termine dominare la scena.
Ma è saggio domandarci cosa avverrà con la riduzione degli interventi sulla liquidità della Bce, quanto reggerà un sistema occupazionale pieno di incertezze sul futuro, quanto peserà la eventuale fase di instabilità politica che potrebbe venir generata dalla competizione elettorale.
E soprattutto verso quale Europa ci stiamo muovendo, con prospettive che mostrano sempre più evidenti i limiti di una costruzione europea senza reale coesione, senza valori comuni, senza interessi davvero condivisi. La speranza di un’Europa riformata profondamente che si era creata con l’avvento di Macron all’Eliseo e le aperture della Merkel sembra già un copione sbiadito. Mentre lo scenario internazionale sembra incupirsi con la presidenza Trump, i giochi di potere nelle aree calde del pianeta nei quali sono sempre più presenti Russia e Cina, i rischi imprevedibili come il ruolo potenzialmente destabilizzante esercitato dalla Corea del Nord.
Certo, la vita economica è pietra di paragone fondamentale, ma sarebbe incauto trascurare la sorte delle vicende politiche e militari che attraversano il mondo e che vedono le quotazioni della pace e degli equilibri internazionali a livelli fin troppo bassi come da tempo non accadeva.
In compenso la finanza difende le sue egoistiche ed intoccabili prerogative, l’accumulazione della ricchezza si concentra sempre di più, le élite sembrano sorde ad un bisogno di valori che invece sarebbe quanto mai necessario per contrastare violenza ed ingiustizie.
Questo scenario si complica ulteriormente con le crisi del riformismo che, specie nel vecchio Continente, con qualche eccezione per fortuna, si sono acuite nell’anno che sta per finire. Un’Europa che si regge sull’euroburocrazia, sull’egemonia per necessità della Germania, sulla subordinazione culturale e politica delle sinistre ai potentati economici, non è certo quella che può andare incontro al mondo del lavoro, agli strati sociali più deboli, alle nuove generazioni.
Insomma c’è molto da lavorare, senza pessimismo ma con un approccio ai problemi che sia in grado di valutare come meritano i problemi che abbiamo di fronte.
L’anno alle porte per molti versi, specie in Italia, appare importante per le prospettive future. Non ci sono più gli alibi della recessione, caleranno quelli legati alle decisioni di Draghi, forse saremo più soli in Europa, certamente il verdetto delle elezioni inciderà sulle sorti del nostro ruolo e della nostra tenuta politica, economica e sociale.
Dobbiamo essere preparati. Quest’anno il movimento sindacale italiano ha risposto in modo eloquente ai ricorrenti pruriti antisindacali che hanno assunto non di rado aspetti gratuitamente insultanti da parte di settori politici come dei media. Eppure i risultati positivi non sono mancati.
I contratti che abbiamo rinnovati sono la testimonianza più chiara della vitalità del ruolo rivendicativo del sindacato in quanto hanno posto le basi per un rinnovamento dei contenuti e compiti dei vari livelli contrattuali di sicuro impatto per il futuro. Rinviando al mittente lo sconsiderato attacco al contratto nazionale. Contemporaneamente l’impegno confederale su questioni cruciali come quella previdenziale ha impedito il perpetuarsi di ingiustizie inaccettabili che per giunta ingessavano il mondo del lavoro, dando di esso una visione arretrata e perfino grottesca come quella che postulava la tesi secondo la quale tutti i lavori sono eguali.
Importanti passi avanti sono stati dunque compiuti su contratti e previdenza: ovvero la smentita migliore a chi accusava il movimento sindacale di garantire tutela solo a coloro che erano usciti dal mondo del lavoro.
Semmai andrebbe analizzata con maggiore attenzione la posizione delle controparti del sindacato. Qualche interrogativo per capire: come mai si continua a sostenere, a ragione, che la perdita di produttività del nostro sistema economico è data non solo dalla carenza di investimenti pubblici e privati ma anche da Amministrazioni pubbliche inadeguate a tempi come i nostri investiti da cambiamenti incessanti? E come mai non si comprende che la bassa inflazione continuerà a penalizzare i consumi, sia pure in modesto rialzo, perché ci si ostina nel mondo imprenditoriale ma non solo a risolvere i problemi del costo del lavoro con un attaccamento quasi morboso e miope alla politica di bassi salari? Ed ancora: come si fa a sopportare l’idea di un fisco che si può modificare solo con delle mance ma non come una riforma che riporti vera equità?
Già questi argomenti fanno comprendere che tipo di impegni vanno affrontati nell’immediato futuro. Dal nostro punto di vista possiamo dire che faremo ogni sforzo affinché il legame fra il nostro gruppo dirigente ed i lavoratori dei nostri settori resti saldo e propositivo. E siamo convinti che il ruolo della Uil, di puntare a risultati esigibili ma di preservare con convinzione uno spirito unitario, possa far crescere la nostra proposta e la nostra organizzazione.
Il futuro è più che mai nelle nostre mani, nella nostra volontà, nella passione con la quale costruire qualcosa di utile sul piano sociale e su quello economico ai lavoratori. Un futuro che non dobbiamo lasciarci sfuggire, e che siamo in grado di plasmare secondo gli interessi di coloro che rappresentiamo. Ed allora buone feste a tutti e buon lavoro. Tutti insieme, come siamo stati capaci di fare fino ad oggi.