Vi è un ragionamento che da qualche settimana circola fra i quadri dirigenti della CGIL, intorno al sostegno espresso da Susanna Camusso alla candidatura di Maurizio Landini nel ruolo di prossimo segretario generale della Confederazione. Quello per il quale l’ex segretario della FIOM risulterebbe politicamente inadatto, avendo – secondo questo approccio – inanellato almeno tre serie battute d’arresto, in corrispondenza di altrettante scelte compiute dal dirigente emiliano, in aperta dialettica con la leadership confederale o ampi settori di essa. Si tratta delle critiche mosse nel 2011-14 agli accordi interconfederali su rappresentanza e contrattazione, il progetto di una “coalizione sociale”, l’ultimo rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. A cui altri si spingono ad aggiungere la durissima vertenza intrapresa con la FIAT, dopo il 2010, e finanche l’avere sostenuto – insieme ad una larga parte della FIOM di allora – la scelta di connotare la collocazione dei meccanici nella CGIL, all’insegna dell’”indipendenza”, tratteggiata dall’allora segretario Claudio Sabattini (1997).
Si tratta di contestazioni legittime e risalenti, riverbero di una dialettica mai del tutto sopita fra alcune anime della Confederazione, e rispetto alle quali vorrei sommessamente svolgere qualche considerazione.
E’ giusto e persino ovvio che una designazione a cariche apicali esponga il candidato ad una più attenta disamina del suo cursus honorum. Rispetto alla quale, tuttavia, occorre non smarrire il significato relativo nel quale – a bilancio – maturano in alternanza, successi e sconfitte. Se infatti avessimo scelto di utilizzare una contabilità tanto schematica e severa, a farne le spese in passato sarebbero stati alcuni fra i più giustamente celebri e gloriosi fra i nostri dirigenti. Il grande Di Vittorio ebbe intuizioni straordinarie, coronate da non pochi successi postumi – sia di strategia che di risultati – ma che nell’arco della sua segreteria si imbatterono in una serie quasi ininterrotta di rovesci. La scissione della CISL nel 1948, una riforma non condivisa del collocamento nel ’49, l’inefficacia del Piano del lavoro dello stesso anno, come anche di una proposta di Statuto nel ’52, la cancellazione padronale dei Consigli di gestione degli stessi anni, la grave sconfitta alla FIAT nel ’55, frutto di una linea ultra-centralistica, che impediva alle strutture di fabbrica tanto la contrattazione della condizione operaia quanto il potere autonomo di indire sciopero. Il tutto mentre il padronato restaurava col pugno di ferro il suo dominio assoluto nei luoghi di lavoro. Ne seguì, per alcuni aspetti, una memorabile autocritica. Ciò nondimeno, fatte le dovute differenze, che bilancio avrebbero tratto – col loro metodo – gli attuali critici della candidatura Landini? Lo avrebbero giubilato già prima di un secondo mandato? E Lama? Da segretario nazionale con delega, avalla nel 1968 una riforma delle pensioni per la quale le fabbriche del nord entrarono da subito in un tale subbuglio, da imporre al PCI di Longo e al direttivo della CGIL una immediata revoca, con la convocazione di uno sciopero generale contro. Una clamorosa e penosa sconfessione, che però non impedì a Lama di succedere a Novella al Congresso del ’69.
E che dire poi dei tanti leader della sinistra (ma non solo), in Italia e nel mondo, transitati da sconfitte campali a memorabili riscatti (e viceversa), nella naturale alternanza che di norma accompagna le leadership che lasciano un segno? Immaginate quale sarebbe stato il destino di Nenni, se qualcuno lo avesse inchiodato per sempre ai fallimenti della linea frontista col PCI, allo stalinismo, o persino alle sue controverse scelte giovanili. In Italia non avremmo mai avuto un centro-sinistra di governo. O Berlinguer, che fallisce col compromesso storico, poi con l’eurocomunismo, poi con l’alternativa di sinistra, e infine su Fiat e scala mobile. Fu per questo un leader sbagliato? Potremmo continuare con Mitterand, sconfitto due volte, prima di diventare presidente, nel 1981, al terzo tentativo. Ecc., ecc..
Ogni caso, ovviamente, fa storia a sé. E i paragoni possono apparire inevitabilmente azzardati. Ma ciò che mi pare qui rilevi sottolineare è il fatto che la qualità di un leader non passa esclusivamente dal bilancio contabile delle sue trascorse battaglie; pur non certo irrilevanti. Bensì dalle capacità con cui le ha intraprese; dal segno personale e weberianamente carismatico, con cui le ha sapute incarnare e rendere riconoscibili; paradigmatiche. Dal modo con cui, alla bisogna, sa coniugare coraggio e pragmatismo; anti-conformismo e senso dell’organizzazione; “rivoluzione e riforme”. Non dimenticando mai il contesto e i rapporti di forza “oggettivi” con cui le qualità “soggettive” si trovano sempre a fare i conti. Da questo punto di vista, Landini mi pare abbia avuto il merito di animare originalmente un confronto interno, sin troppo interno forse, e paludato, e quasi sempre sul solco di ciò che i sociologi definiscono “path dependency”.
Tentando alcune “mosse del cavallo” (per dirla con Vittorio Foa), come quella della “coalizione sociale”, frutto di una intuizione che – diversamente declinata – potrebbe trovare nuovi stimoli, qualora perdurasse il pauroso vuoto di rappresentanza politica che affligge oggi il mondo del lavoro e la sinistra tutta. Da leader dei meccanici ha dovuto fare i conti con interlocutori assai diversi da quelli – ben più dialoganti – presenti in altre realtà, e in alcune in particolare (imprese semi-pubbliche; settori a forte vocazione bilaterale; meno esposte ai mercati internazionali; territori con storie esemplari di partecipazione). Quando a queste, negli anni ’80, spettavano controparti che siglavano protocolli illuminati, non di rado con origini nel nostro stesso mondo, tipo le imprese pubbliche di Iri ed Eni, ai meccanici toccavano in sorte “mastini” tipo Mortillaro e Romiti. Col loro piano thatcheriano di “mettere in mora” il sindacato. Negli anni di Landini lo schema si ripete: ma con la differenza che ora davanti non ci sono solo i “falchi” di Federmeccanica e Marchionne, coi loro piani a suo modo “eversivi” di aziendalizzazione e individualizzazione nei rapporti di lavoro (rappresentanze solo a chi sigla contratti, e non piuttosto il contrario), ma anche – a fianco – un sindacato come la Fim di Farina e Bentivogli, identitariamente contrapposta su una linea iper-collaborativa su decentramento e organizzazione del lavoro. E non si può dire che “abbia perso”; la vertenza FIAT ha portato al successo di una sentenza della Corte costituzionale molto importante. Temette che quello Marchionne fosse divenuto l’archetipo della sfida per tutti. E invece non lo fu. Ma allora lo temettero in molti, anche fra gli studiosi, laddove non è detto che – tra finanziarizzazione e decentramento spinto – quell’approccio non tornerà a riproporsi.
Le sue critiche al Testo Unico sulla rappresentanza – apprezzato oggi per molti versi – trovarono allora corrispondenza in ampi settori della dottrina lavoristica. Il contratto nazionale dei meccanici, del 2016, col suo anomalo calcolo ex post dei recuperi inflattivi, non può essere giudicato un successo. Ma sfidiamo quanti oggi lo criticano, a dirci – onestamente – come avrebbero reagito se la Fiom ne fosse rimasta fuori per la terza volta consecutiva. D’altra parte, onore al pragmatismo, la Fiom non ha mai smesso di siglare contratti aziendali, sfatando quell’idea che vedrebbe contrapposti movimentisti a contrattualisti. Semplificazioni giornalistiche.
Landini si è battuto in questi anni con esiti chiaroscurali. Più o meno come tutti. Ma in ogni caso, e questo mi pare in definitiva il dato più significativo, ha avuto il raro merito di farci accorgere tutti – e non solo gli addetti ai lavori – che si era intanto battuto. Non poco, in un mondo sempre più indifferente alla cose spesso grandi, ma sin troppo sottotraccia, che fa il sindacato. Dando un protagonismo ed una riconoscibilità alle lotte sindacali e per il lavoro, non di rado appannato se non anche autoreferenziale nella percezione di massa, di cui ci dicono una molteplicità di indizi. Altri hanno sottoscritto accordi onestissimi, con un duro lavoro. Chapeau! Ovviamente. Ma hanno il vantaggio e lo svantaggio che – sia detto senza offesa per nessuno – in pochi se ne sono accorti. Anzi: forse nessuno, fuori dalla propria costituency settoriale, o fra i più stretti gli addetti ai lavori. Tutto ciò non offusca il loro lavoro, ovviamente. Ma neppure quello fatto da Landini; la sua ricerca di legami dentro, ma anche fuori il sindacato; il suo perimetro tradizionale. Vitale oggi quanto mai. Rispetto al quale ha avuto il pregio di incarnare uno stile della lotta sociale e politica che può anche suscitare perplessità (compreso in chi scrive). Ma che come nessun altro sindacalista in questo momento, può intercettare il famoso Zeitgeist, lo spirito del tempo. Bello o brutto che sia.
Nel controverso rapporto fra élite e popolo, sotto le spinte al disincanto e alla disintermediazione, Landini potrebbe avere oggi i titoli per incrinare o arrestare questa percezione, questo declino. Sia pure limitatamente alla sfera socio-sindacale. Non sarebbe poco, in un panorama desolatamente vuoto di leadership, a sinistra, lontano dai grigiori delle tecnocrazie e al contempo dall’esuberanza nefasta dei populisti. Susanna Camusso – che per storia, formazione e temperamento – dista molto da Landini, ha forse intuito questa risorsa e, con l’intelligenza e lungimiranza che a mio avviso l’ha finora contraddistinta, ha deciso di sostenere la sua candidatura. Trovando, mi pare, vasti consensi fra i quadri intermedi e di base dell’organizzazione. Abbiamo le fondata speranza di ritenere che possa essere la scelta giusta e – si badi (perché è fondamentale) – al momento giusto.
Salvo Leonardi – esperto di relazioni industriali