Le manifestazioni degli studenti nei primi tre mesi di ogni anno scolastico sono endemiche come l’influenza: una ripetizione rituale di fasti passati, uno scimmiottamento che un antropologo marziano potrebbe interpretare come un rito di iniziazione, e che riesce a perpetuarsi perché, anche se agli osservatori esterni appare una liturgia ripetitiva e monotona, per gli interpreti è ogni volta nuova ed eccitante, grazie al fattore età.
A quasi 50 anni dal ’68 direi che che questa ritualità ripetuta ogni anno possa essere definita folklore. Ma: il folklore è una manifestazione culturale, rappresenta tramite i suoi riti il sentire di una comunità, le sue convinzioni, i suoi giudizi e pregiudizi. Gli slogan delle manifestazioni studentesche, per quanto imparaticci e buffamente truculenti (ci bocciano, ci sfruttano…) dicono qualcosa in cui i manifestanti si riconoscono. Tra qualche anno non ci crederanno più, ma gli stessi slogan serviranno a nuovi manifestanti: una staffetta generazionale che si perpetua da più di 40 anni.
Cosa ci dicono queste manifestazioni? Che il mondo della scuola vede il mondo del lavoro come “altro”, sospetto, insidioso, perfino ostile. Un’idea corrente è quella che i due mondi vadano tenuti separati, perché il mondo del profitto non contamini il mondo della conoscenza. Per chi condivide questa idea è ripugnante il modello di alternanza scuola-lavoro; o meglio, può andare bene per gli Istituti Professionali ma non per i Licei. Buffo che proprio dal mondo della scuola riemerga, a 55 anni dalla riforma della Scuola Media Unificata, un’implicita concezione della separazione dei percorsi formativi tra quelli destinati alla mano d’opera e quelli riservati alla attività intellettuale.
Ma in fondo un discorso sulla “purezza” della cultura e sostanzialmente segregazionista nel dividere i percorsi formativi tra il “sapere” e il “saper fare” te lo aspetti da vecchi baroni universitari o anziane professoresse di liceo: invece questo discorso alligna floridamente a sinistra. Ma, naturalmente, non senza un make up politically correct: perché siamo contro l’alternanza scuola lavoro? Perché configura lo sfruttamento degli studenti, e per giunta ad opera di odiose multinazionali che affamano i popoli e distruggono l’ambiente (McDonald in primis).
Il ragionamento è risibile ma un sedicenne può crederci. E ci crede per due motivi: uno, che a scuola passa questo tipo di messaggio (insegnanti, assemblee,ecc.); due, che gli è stata inculcata un’idea del lavoro profondamente distorta. Da un lato che il lavoro sia essenzialmente sfruttamento, dall’altra una bolsa retorica sul “lavoro” inteso come categoria spirituale: l’Italia è una Repubblica fondata sul “lavoro”, il lavoro è un “diritto”. Ma il lavoro di chi? E quale lavoro? In che consiste il lavorare? Il manifestante liceale messo di fronte ad un piccolo assaggio di realtà del lavoro si ritrae indignato: giammai la nostra fatica (?) serva al profitto! Ma che lavoro si aspetta il liceale manifestante? Il suo modello più vicino è quello degli insegnanti, che (fatemi grazia della semplificazione) rivendicano posto fisso, sotto casa e retribuzione garantita a prescindere dai risultati. Non lo sa, il liceale manifestante, che lavoro vuole. Ha l’implicita convinzione che, siccome è un diritto, qualcuno glielo deve dare. Nessuno gli ha mai detto che il “lavoro” non coincide con il “posto”. Che il lavoro è una delle principali attività umane, implica attivarsi, darsi da fare, essere creativi, attrezzarsi per rispondere alla domanda del mercato. Che la conoscenza da sola (ammesso che la scuola media superiore fornisca conoscenza) non dà diritto al “posto”. Che per lavorare occorre non solo sapere, ma “saper fare”. E che qualunque contaminazione tra il percorso accademico e l’esperienza lavorativa aiuta ad attrezzarsi in questo senso.
Ultime due osservazioni.
Uno: se da oltre 40 anni gli studenti manifestanti (che in fondo sono probabilmente quelli più interessati a confrontarsi col mondo reale) ripetono lo stesso mantra, forse è la scuola stessa che glielo tramanda. E la scuola significa essenzialmente gli insegnanti. Sarebbe il caso che i Sindacati della Scuola si ponessero il problema di quali valori i propri iscritti trasmettono agli studenti, e del fatto che in questa trasmissione non possono essere prevalenti quelli riconducibili agli interessi professionali dei docenti.
Due: i dati sulle start up create da giovani sono sbalorditive. Sono gli stessi giovani che facevano i liceali manifestanti qualche anno fa? Chi lo sa? Ma è evidente che al di là della retorica anticapitalista delle manifestazioni c’è una capacità dei giovani di creare il lavoro. Credo che promuovere questo genere di skill dovrebbe essere la missione principale del sistema scolastico. Che altrimenti, così come del resto buona parte dei servizi pubblici, serve soltanto ai propri dipendenti.