Nonostante la frenesia che la circonda, l’intelligenza artificiale non è l’albero della cuccagna. Per il momento, è soprattutto una scommessa, da cui tutti hanno paura di restar tagliati fuori, anche se non sanno bene per farne che. Manca ancora la “killer application”, di cui non si può più fare a meno, come Google per Internet. Per il futuro, molte promesse saranno, forse, realizzate, ma il prezzo – dicono anche gli ottimisti – è il rischio di veder aggravarsi il meccanismo che più corrode e incattivisce la società di oggi: l’ineguaglianza.
Per quanto si è visto finora e, a occhio, per i prossimi dieci anni – dicono gli scettici – l’intelligenza artificiale costa troppo, inquina troppo, serve poco. In prima fila, fra gli scettici, banche e finanziarie riluttanti a soddisfare le pressanti richieste di crediti da parte dei protagonisti del settore. “La mole di investimenti in ballo è di mille miliardi di dollari, ma non è chiaro da dove dovrebbero arrivare mille miliardi di ricavi” annota l’analista di uno dei grandi fondi di venture capital americani. E una grande banca di investimenti – la Barclays – osserva che, sulla base degli investimenti già fatti, ci sono sul tavolo 12 mila prodotti, tipo l’ormai celebre ChatGPT (quello che scrive l’articolo di giornale da solo), ma non c’è richiesta, sul mercato, di 12 mila prodotti di quel tipo.
Intanto, però, l’IA sta facendo saltare il banco della richiesta di elettricità. Già domani (2027), il settore assorbirà, attraverso i centri dati, lo 0,5 per cento dell’energia mondiale, quanto l’Argentina. Negli Stati Uniti – l’epicentro della rivoluzione – nello stesso periodo l’assorbimento di energia per l’intelligenza artificiale è destinato a triplicare, fino all’8 per cento del totale. Da dove dovrebbe venire tutta questa energia? La risposta che danno sempre più i protagonisti è il nucleare, di cui, nel bene e nel male, si programma una rinascita, visto che le rinnovabili non reggerebbero il ritmo. Al momento, comunque, Big Tech sta rinnegando tutti i suoi impegni e aumentando drasticamente le emissioni di anidride carbonica.
Ne vale la pena? Di Hal, il computer onnisciente immaginato da Stanley Kubrick in “Odissea nello spazio”, una specie di Sacro Graal dell’intelligenza artificiale, per ora, dice il dirigente di una grande banca come Goldman Sachs, non si vede traccia. Arriverà, giurano in molti: la ricerca tecnologica procede a balzi e a tentoni. Intanto, però, si tratta di sacrificare soldi e difesa ambientale non alla ricerca, ma allo sfruttamento dell’intelligenza artificiale che abbiamo già ora. E sui benefici di questa corsa all’IA, gli economisti sono profondamente divisi.
Uno studioso autorevole come Darren Acemoglu la liquida come un vantaggio competitivo marginale. Acemoglu stima che, nei prossimi dieci anni, solo per un quarto delle mansioni teoricamente affidabili all’IA sarà davvero conveniente – in termini economici – fare questo passaggio. Vuol dire intervenire su non più del 5 per cento dei lavori. Acemoglu calcola che tutto questo si tradurrebbe in un aumento di produttività, in grado di stimolare il Pil ad una crescita dello 0,9 per cento nell’arco di dieci anni: briciole.
Molti pensano il contrario. Una recente ricerca della Banca d’Italia, per misurare i benefici dell’IA ha provato ad esaminare la frequenza con cui si rilasciano i relativi brevetti, che dovrebbe essere un termometro degli sviluppi tecnologici. E, subito dopo, ha confrontato l’andamento di Pil e produttività ad un ragionevole lasso di tempo dai brevetti.
Ammesso che sia un termometro affidabile, ne risulta che quei brevetti generano un aumento della produzione industriale e, grazie all’aumento della produttività, una riduzione dei prezzi al consumo. Ma la discriminante per stabilire i benefici è anzitutto l’effetto sui lavoratori. Secondo i ricercatori di Via Nazionale, l’intelligenza artificiale più che sostituire lavoratori, crea nuove opportunità, senza differenze sostanziali fra settori. Una sorta di rivoluzione generale, come capita con le grandi svolte tecnologiche. Il risultato è che l’arrivo dell’IA crea più posti di quanti ne distrugga con i licenziamenti.
Ma per chi? Nella simulazione di Via Nazionale, salari, ore lavorate, occupazione crescono soprattutto per i lavoratori di media qualificazione.
Lasciata a se stessa, l’intelligenza artificiale diventa, insomma, una ricetta di impoverimento. Secondo la ricerca,. infatti, a guadagnare, in termini di salari e di occupazione è il 10 per cento già in cima alla scala dei redditi. Mentre il 50 per cento che occupa la metà inferiore di quella scala ci perde. In una società dove già le ineguaglianze stanno esplodendo, l’intelligenza artificiale, se non è gestita con cautela, rischia di diventare un nuovo moltiplicatore di divisione sociale.
Maurizio Ricci