Deve costituire elemento di riflessione per il sindacalismo e il sistema di relazioni industriali nel nostro Paese, quanto sta avvenendo negli Stati Uniti.
A distanza di circa un anno dalla sconfitta nello stabilimento di Amazon in Alabama del sindacato americano RWDSU (Retail, Wholesale and Department Store Union) affiliato all’AFL-CIO, dove i lavoratori avevano votato contro il suo ingresso, nella filiale di distribuzione di Staten Island, New York, della catena della logistica globale dell’uomo più ricco del mondo, Jeff Bezos, i dipendenti hanno scelto di consentire l’accesso ad una unions. Nella votazione 2654 dipendenti si sono dichiarati favorevoli al sindacato e 2131 contrari, secondo i dati forniti dal National Labor Relations Board di Brooklyn.
Il sistema di relazioni industriali negli States prevede che i lavoratori votino per l’ingresso nelle singole aziende dei sindacati, consentendo loro di trattare per la stipula di contratti collettivi aziendali e ad Amazon non era mai avvenuto, per effetto di una forte politica anti-sindacale da parte della multinazionale della logistica. Infatti, pur di evitare la creazione di presenze sindacali,, Amazon interferisce pesantemente nei referendum tra i dipendenti, innalzando unilateralmente il salario minimo a 15 dollari l’ora ed elargendo una modesta assicurazione sanitaria e un numero minimo di permessi retribuiti, ma mantenendo invariati gli elevati ritmi di produzione, in cui gli ordini in piattaforma vengono eseguiti attraverso pesanti procedure di tipo fordista.
La battaglia è stata condotta con vigore da Christian Smalls, ex dipendente licenziato due anni fa per “aver violato le regole sul distanziamento”, paradossalmente proprio mentre organizzava iniziative dei dipendenti per ottenere più protezioni contro la diffusione del Covid-19, e fondatore dell’Amazon Labor Union (ALU), un piccolo sindacato non affiliato alla grande centrale statunitense.
Il risultato ad Amazon potrebbe generare un effetto domino sul rilancio della rappresentanza sindacale in tutti gli Stati Uniti, soprattutto nel settore delle grandi catene di distribuzione, costituendo un monito nei confronti delle politiche antisindacali delle aziende, ma anche un segnale per i sindacati.
La maggiore delle organizzazioni dei lavoratori statunitensi è l’AFL-CIO – nata dalla fusione nel 1955, tra la l’American Federation of Labor, fondata nel 1886 da Samuel Gompers e il Congress of Industrial Organizations, di orientamento rooseweltiano guidata al tempo dal leader del sindacato dell’auto, UAW, Walter Reuther, progressista e sostenitore con Martin Luther King delle battaglie per i diritti delle minoranze – che ha avuto nel passato un ruolo molto incisivo nella politica americana, sostenendo il partito democratico, ma anche nell’economia con i fondi pensione, subendo un graduale declino.
Negli anni 80, con l’affermazione del neoliberismo reaganiano, la contrattazione collettiva ha subito una progressiva erosione in molti settori economici e la riduzione dei diritti sociali, mentre sulle unions pesavano anche i retaggi di presunti connubi nel passato con la mafia, nei sindacati dei camionisti e dei portuali. E’ cominciata così, la discesa del potere contrattuale e della rappresentatività sindacali: le statistiche del Bureau of Labor Statistics dicono che nel 1983 il 20,1 per cento degli americani era sindacalizzato, per arrivare al 10,3 per cento del 2019.
E, d’altronde, nello stabilimento di Staten Island non si è affermata una unions legata all’AFL-CIO, ma un sindacato nuovo, si potrebbe definire di base, slegato da burocraticismi e verticismi, politicamente e culturalmente più vicino alle istanze socialiste di Bernie Sanders e di Alexandria Ocasio-Cortez e al movimento Black Lives Matter, che al “centrismo” della maggioranza del Partito democratico.
Un segnale, quindi, anche per il sindacalismo in Italia, sulla necessità di un ritorno alla presenza sui luoghi di lavoro e nei territori, sull’aggiornamento delle regole di democrazia sindacale, che archivino anti-storiche pratiche monopolistiche, nel rispetto dei principi di libertà e pluralismo sindacale e contrattuale.
Maurizio Ballistreri, Professore di diritto del Lavoro nell’Università di Messina, responsabile dell’Istituto di Studi sul Lavoro in Roma