Maestro…
“Non sono un maestro. Sarei voluto diventare un pastore di anime. Lo erano mio padre e mio nonno. Diffondere le parole della Bibbia, insegnare i precetti evangelici. Ma, ad Amsterdam, non mi hanno ammesso alla facoltà di teologia. Ho provato altri noviziati, senza esito. Per qualche tempo hanno tollerato che indossassi le vesti di predicatore laico ma i sermoni, che dedicavo alla povera gente, venivano ritenuti, dalle autorità religiose, troppo focosi. Pensavano fossi un fanatico. Alla fine, la matita e il pennello hanno preso il posto delle parole che non mi facevano pronunciare”.
Maestro di pittura, allora.
“Maestro di nessuno, nemmeno di me stesso. Non ho mai avuto alunni o discepoli. Qualche allievo, forse, a Nuenen. Un impiegato delle poste, un litografo, un conciatore. Niente di che. Aspetti, aspetti, ora che mi ricordo davo lezioni di prospettiva ad un ufficiale degli zuavi, quando mi ero trasferito ad Arles”.
Come debbo appellarla?
“Van Gogh, semplicemente. Vincent Willem Van Gogh. Mi hanno chiamato allo stesso modo del fratellino, nato morto l’anno prima che venissi al mondo io. Ci siamo alternati, dentro l’utero di mamma. Nel cimitero di Grott Zundert potevo andare a vedere la lapide con inciso questo nome. Il suo, il mio. Avevo l’impressione di giacere anch’io in quella tomba”.
Lei però è sempre stato legato a Theo, il fratello maggiore. È stato lui il vero sostegno, economico, psicologico, affettivo. Sono più di ottocento le lettere che gli ha scritto, una sorta di autobiografia.
“Era il mio specchio, il mio doppio, il mio cordone ombelicale. Ma lei perché è venuto qui, tra le ombre dell’Ade, per farmi tutte queste domande?”.
Perché in una mostra, a Roma, hanno tirato contro un suo quadro una zuppa di verdure.
“Avrei preferito un piatto di patate. Ricorda i mangiatori, intorno al tavolo? Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia al lume della lampada, abbia zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto, e quindi parlo di lavoro manuale e di come essi si siano onestamente guadagnato il cibo”.
E invece hanno scagliato una passata di piselli e altri ortaggi.
“Sempre prodotti della terra, sono. Una scelta adatta a me, che ho tanto amato i campi coltivati”:
Ma come, giustifica i suoi imbrattatori?
“Avranno avuto le loro ragioni. E poi mi sembra che la tela, protetta da un vetro, non abbia subito danni. Apprezzo i gesti eclatanti. Mi sono persino tagliato un orecchio! E l’ho donato a Rachel, una prostituta. A proposito, parli più forte, perché qui a destra non sento bene”.
A detta del ministro italiano della cultura, Gennaro Sangiuliano, si è trattato di un atto ignobile.
“Per mia fortuna, non ho idea di chi sia questo individuo. E poi la cultura non può dipendere da qualcuno. Un politico, un burocrate, un chicchessia, così assume il ruolo di un inquisitore che controlla, argina, limita, elimina la creatività”.
Le quattro ragazze che hanno imbrattato la teca dicono di averlo fatto per attirare l’attenzione sull’emergenza climatica. Si definiscono l’ultima generazione, nel senso che dopo di loro l’umanità rischia di estinguersi perché la terra si sta ribellando alle violenze infertele.
“Già, e hanno scelto Il seminatore, che al contrario è simbolo di crescita e di fertilità. Se uccidi i campi di grano, non può esserci futuro. Quanti ne ho dipinti! E i girasoli? Che fine stanno facendo?”.
Adesso, con la crisi del gas, sta anche tornando in voga l’uso dei fossili. Meglio l’inquinamento atmosferico del freddo o della mancanza di energia”.
“Io sono vissuto tra i minatori del Borinage, Belgio meridionale. Come ho scritto a Theo, quasi tutti sono febbricitanti, hanno un aspetto stanco ed emaciato, il loro volto è scavato dalla fatica e invecchiano prima del tempo. Per chi scava il carbone, la luce del giorno non esiste. Per capirli e ritrarli, stavo con loro, in una baracca, dormendo sulla paglia”.
Lo sa che, con i suoi disegni, ha ispirato Emile Zola per il romanzo Germinale?
“Zola è un autore che ho letto e apprezzato”.
Le quattro attiviste sono comunque accusate di aver commesso una sfilza di reati.
“Le uniche veri leggi sono quelle dell’anima”.
Ma lei è un anarchico!
“Il mio amico Père Tanguy, commerciante di colori in rue Clauzel, a Parigi, comunardo anarchico, diceva che chi spende per vivere più di cinquanta centesimi al giorno è una canaglia. Vendeva i Cézanne per pochi franchi”.
Difficile essere coerenti con i propri princìpi.
“Io ci ho provato, e per questo ho sofferto in modo indicibile. Ero un cane irsuto con le zampe bagnate, che tutti esitano a far entrare in casa”.
Insomma, ai giorni di oggi andrebbe anche lei in giro a sporcare musei e gallerie per difendere l’ambiente?
“Non lo so. Certo, dicevano che ero pazzo, un pericolo pubblico, e che quindi potevo commettere gesti imprevedibili. Mi hanno anche chiuso in manicomio”.
Un matto, suicida, le cui opere però valgono cifre stratosferiche.
“Nei miei quadri, ho sempre raffigurato gli umili. Contadini, pescatori, tessitori, cenciaioli, operai. I poveri. Anche io ero povero, spesso non avevo nemmeno i soldi per mangiare”.
Eppure, ora solo i super ricchi possono permettersi di comprare queste tele.
“Ne ho dipinte 879 ma mentre ero in vita sono riuscito a venderne solo una, la Vigna rossa, per 400 franchi. E allora, mi chiedo, che senso ha allestire una mostra su di me? Come possono i visitatori comprendere che queste contraddizioni, tutte le mie sofferenze, tutte le mie speranze, sono un invito a cercare il nutrimento della vera vita?”.
Soggetti umani a parte, la sua ispirazione veniva dalla natura.
“Dai colori. In ogni tonalità. Quei colori che voi non siete più capaci di vedere, che non sapete apprezzare, che non riuscite a distinguere, che state spegnendo. Siete affetti da monocromatismo”.
Più la sento parlare, più mi sembra dalla parte delle quattro vandale.
“Vorrei aggiungere che alla fine mi vanno bene anche i piselli. Li ho raffigurati, negli ultimi giorni della mia esistenza, ad Auvers. Un campo in fiore, con del grano, davanti a vecchie case col tetto di paglia. Sullo sfondo le colline. Una bellezza profonda. Come riconosceva Paul Gauguin, ho amato il giallo, i raggi di sole che riscaldano l’anima. Quei raggi che, per colpa vostra, si sono ammalati”.
Marco Cianca
Post-scriptum: citazioni e dati sono tratti da “Van Gogh. Il sole in faccia”, di Pascal Bonafoux, Gallimard/Electa.
Post post scriptum: la conferenza sul clima, tra gli ozi di Sharm el Sheik, è un’ennesima presa in giro. Zuppa.